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Violante Placido, bella stronza a chi?

I cult generazionali e il cinema che le è piovuto addosso, la carriera internazionale di cui si parla sempre troppo poco, il ruolo di Moana, la commedia (è al cinema con 'Improvvisamente a Natale mi sposo'), il teatro con Orwell, ma , ovviamente , anche la musica. E i capelli

Foto: Andrea Ciccalè

Prima di salutarci rileggiamo insieme un passaggio di Jack Frusciante è uscito dal gruppo. Quello in cui Alex forte, Alex incazzato, Alex che se ne frega, adesso piange sul libro che Aidi gli aveva regalato, perché senza di lei è “inutile e triste come la birra senz’alcool”. «Eccome se me lo ricordo», sorride con quella voce da eterna ragazzina che sembra sempre sbadata, nostalgica, flautata anche quando racconta d’essersi arrabbiata. Adelaide detta Aidi, il suo primo vero ruolo nel 1996: consumato da chi è stato adolscente in quegli anni ma debutto inconsapevole per lei, che nella famiglia Placido nessuno aveva mai pensato attrice. «In quell’occasione, è il cinema che mi è piovuto addosso».

In questi giorni è in sala con il sequel della commedia di Francesco Patierno Improvvisamente a Natale mi sposo, e in scena con la tournée di 1984, adattamento del capolavoro di Orwell: il modo in cui parla di Julia dà l’idea che si appassioni a certe figure femminili perché in loro cerca ancora una chiave d’accesso alla sua, di femminilità. E infatti non sopporta i ruoli che stanno lì a far «la spalla, la bella, l’inutile», ed è irrimediabilmente attratta dalle donne scomode, come le chiama lei: Moana su tutte, ma anche Yōko Ono e le altre che porta a teatro.

Meno, forse, da quelle che l’hanno resa indimenticabile al pubblico. Come quando sfilava sul cuore in pezzi di Silvio Muccino in Che ne sarà di noi e ci sembrava irraggiungibile: volevi essere come lei oppure innamorarti di una come lei, che invece «bella e stronza» non ci si è mai sentita abbastanza. Viola nella musica, Violante Placido al cinema, oggi riunite finalmente in un’unica persona. Non è più il tempo delle maschere, messe su per gestire la popolarità o anche solo un cognome che quasi le hanno rinfacciato: «Certo che pensavo di raccogliere di più rispetto a quello che ho seminato. Ma mica mi abbrutisco, continuo a preferire l’entusiasmo».

Michele Foresta e Violante Placido in ‘Improvvisamente a Natale mi sposo’. Foto: Notorious Pictures

Mentre parliamo che capelli hai?
L’ultima volta che sono andata dal parrucchiere gli ho chiesto di farmeli come Bia, ti ricordi? Il cartone animato giapponese degli anni Settanta-Ottanta.

Se avessi cambiato vita ogni volta che hai cambiato capelli…
Hai ragione, è che io devo cambiare spesso sennò non mi sento in equilibrio.

Sei di nuovo al cinema con Improvvisamente a Natale mi sposo. Violante Placido e la commedia natalizia, chi lo avrebbe mai detto. Ci hai preso gusto?
Be’, ci ho preso gusto… diciamo che la mia esperienza con Patierno nacque da tutt’altro, la prima volta ho lavorato con lui nel 2008 per Donne assassine, una serie tv basata su storie vere che neanche volevo fare. Trovavo agghiacciante la mia vicenda, questa madre che uccide i suoi figli. Fu il mio agente ad insistere, disse “Non te ne pentirai”, e alla fine girammo la serie in Argentina.

Stavolta invece sei “una mamma che non sbaglia (quasi) mai”.
Infatti con Francesco ci ha fatto sorridere il cambiamento radicale. Poi ero stata già la figlia di Diego Abatantuono nel film di Pupi Avati (La cena per farli conoscere, 2006, nda), quindi c’era una famigliola con cui mi interessava riallacciare i rapporti. Che poi già a partire da Modalità aereo ho iniziato a prenderci gusto, con la commedia.

Quali sono le commedie che ti propongono ma rifiuti?
Io devo sentire che c’è una tensione, se mentre leggo una commedia e mi annoio c’è già un problema. E poi dev’esserci un personaggio femminile che mi piace. Donne che sanno come non farsi mettere i piedi in testa, forti e dal cuore buono. E in effetti i miei personaggi sono donne contemporanee, non faccio il solito personaggio femminile delle commedie italiane che sta lì a fare la spalla, la bella, l’inutile.

Violante Placido è simpatica?
(Ridacchia) Ah! Da quello che gli altri mi dicono, io credo d’essere sbadatamente comica. Non mi ci impegno, ecco, ma quando gli altri me lo fanno notare penso: davvero è così? Allora vorrei esserne consapevole e farmi un paio di giri in più su questa giostra. Magari metterla in pratica come attrice, portare nei personaggi aspetti di me che tanti non conoscono. Ultimamente ho fatto un incontro con un regista straniero, una lunga chiacchierata per una commedia, e lui ha subito colto questi aspetti di me. Devo dire che mi è piaciuto molto.

In effetti non sei mai stata associata a un’immagine divertita.
Allora, è vero. Credo che un po’ dipenda dalla direzione che mi hanno appiccicato addosso al principio, ma anch’io ero più timida, mi aprivo solo in certi contesti senza riuscire a far trasparire la mia tavolozza umana. Restava quello che si vedeva nell’immediato, infatti mi hanno dato spesso della bella stronza.

L’hai detto tu, eh.
Lo dico, lo dico. Adesso posso mantenere un livello di stronzaggine che forse, oggi, non viene più etichettato come stronza e basta. Il problema è che se sei donna ti danno della stronza anche solo perché non vuoi sottostare ad un ruolo che ti appiccicano addosso.

E possiamo dire che tu non hai voluto sottostare a niente?
(Ride) Guarda che sono molto curiosa come persona, quindi anche nel mio percorso sono stata sempre aperta al nuovo. Io sento di essermi messa in gioco, poi certo, con l’esperienza capisci certe dinamiche e magari certe cose non le vuoi fare. Allora inizi a scegliere.

Foto: Andrea Ciccalè

Veniamo ad Orwell, che ti invidio moltissimo. Mia madre mi regalò una ristampa Mondadori dell’83, in copertina c’era scritto: “L’anno che stiamo per vivere raccontato 36 anni fa nella più famosa delle profezie”. Oggi siamo più vicini al 2050 che subentra nell’adattamento di Icke e Macmillan, che all’84 di Oceania. Cos’è per te questo libro?
Neanche a dirlo, questo libro è incredibile. Portarlo in scena è un’occasione straordinaria per cui sono grata, può capitare a una sola persona ed è toccato a me. Il testo è un pugno nello stomaco ma anche uno schiaffo in faccia che ci risveglia dal nostro torpore. È vero che siamo noi a creare le società, ma è anche vero che le società riescono a governarci. Nel testo c’è questa sorta di bastone e carota, dove il bastone è in realtà una tristissima carezza, mentre la carota è un palliativo rappresentato dalla tecnologia.

Non ti sembriamo molto più volgari di come ci aveva immaginato Orwell?
Sì, se parliamo dello scenario. Ma, ad esempio, il mio personaggio è molto volgare. Julia è una che fuori dall’uniforme del partito, quando si vede di nascosto con Winston, diventa sfacciata e vomita parole di sfogo. Questo ci ricorda qualcosa, no? Winston è tormentato e vuole fare la rivoluzione, Julia trova il modo di stare apparentemente nelle regole ma fa comunque quello che vuole. Quando dice “tanto non possiamo cambiare niente” rappresenta la voce di molti di noi. Alla fine o sei un martire e dedichi la tua vita ad un’idea, morendo per quest’idea senza poter cambiare nulla, o sei Julia (e qui me la recita, nda): “Se io veramente mi mettessi a pensare, per un solo minuto, a tutto quello che c’è intorno, capisci che diventerei pazza? Non me lo posso permettere”. Quando leggi 1984 scapocci, davvero ti sconquassa la mente. Portarlo in scena oggi è importante perché forse non faremo la rivoluzione, ma non possiamo neanche rimanere degli zombie.

Con rivoluzioni, bastoni e carote tu come te la cavi?
Con mio figlio è molto difficile. La nostra carota è la tecnologia: sembra che ci dia la libertà e dei momenti di protagonismo, ma in realtà ci sta totalmente controllando, e ricordarcelo è sano. Parlando alle nuove generazioni passi per il rompicoglioni con la mentalità antica, ma io provo a dirgli: “Ok, hai ragione, questo è il tuo mondo, puoi farci tante cose belle. Ma ricordati che ti risucchia e che c’è tanto altro. Possiamo emozionarci in modi infiniti fuori da uno schermo”.

Quando hai deciso che tuo figlio si sarebbe chiamato Vasco?
Mentre ero incinta, a pochi mesi dalla sua nascita. Cercavo un nome breve, insolito. Amo il concetto di viaggio ed esplorazione, quindi ho pensato a Vasco da Gama. E sì, adoro Vasco Rossi, ma da fan non sono mai stata a un suo concerto. Mi piacerebbe conoscerlo di persona, durante le riprese di Jack Frusciante ebbi una tosse incredibile, venne questo medico bolognese che era il medico di Vasco. Mi prescrisse solo succhi di frutta alla pera.

Violante Placido (Aidi) e Stefano Accorsi (Alex) in una scena di ‘Jack Frusciante è uscito dal gruppo’

Ci sono almeno tre cult generazionali, a cavallo tra gli anni Novanta e i primi Duemila, imprescindibili da te: Che ne sarà di noi, Ora o mai più, Jack frusciante è uscito dal gruppo. Se dico una cosa del genere ti impressiona o sei d’accordo?
Diciamo che sono d’accordo. Che ne sarà di noi e Jack Frusciante sono stati eclatanti, li ho sentiti addosso in maniera molto forte. Se mi riguardo in Jack Frusciante noto una certa acerbità, ma d’altronde era il mio primo film da protagonista dopo due comparsate. Il libro aveva avuto un successo tale, e l’operazione-film aveva uno stile così innovativo, con quella regia e poi la colonna sonora di Umberto Palazzo, che è diventato pure mio amico. Mi sono fidanzata due volte con due abruzzesi diventando parte della scena abruzzese, che ho mitizzato molto. Loro sono sempre scontenti, ma per me Pescara è stata folgorante.

Invece qual è il personaggio che ha travolto te?
L’esperienza per me più penetrante, e già mi pento di aver usato questo aggettivo, è stata quella di Moana. Ma anche L’anima gemella di Sergio Rubini, che nel 2002 per me ha significato tantissimo. Lo considero il mio debutto consapevole, perché con Jack Frusciante il cinema mi è piovuto addosso: leggo il libro, mi appassiono subito al personaggio, faccio i primi due incontri con Accorsi e mi prendono. Ma nonostante provenissi da una famiglia di attori, non è che qualcuno mi avesse fatto lezioni di recitazione. Né mio padre mi aveva mai parlato immaginandomi attrice.

Prima di fare quest’intervista ho chiesto se ci fossero argomenti tabù. Mi hanno risposto che ami parlare di tutto, ma ti sei stancata di parlare di Michele Placido.
Sì, da morire, che coglioni… il discorso “figlia di” mi costringe a sentirmi sempre nella condizione di figlia, ma basta. Io sono una donna, sono una madre, sono cristiana!

(Qui rido io) Questa non la taglio, eh.
Certo, ma allora specifica che non sono cattolica praticante e non vado in chiesa. Capisci quant’è stancante dal mio punto di vista essere ancora “la figlia di”? Ti dico di più: anche questo è patriarcato. Quando mi intervistano cascano sempre lì, come se io appartenessi a qualcuno. Vengo da una famiglia di artisti, ok, ma ho una mia identità e un mio percorso. Rispetto e stimo mio padre, lo amo profondamente, ma questo non vuol dire che ogni mio passo debba ricondursi a lui. Soprattutto in una famiglia come la mia, dove ognuno è andato molto per la sua strada.

Co-protagonista accanto a George Clooney in The American e poi a Nicolas Cage in Ghost Rider – Spirito di vendetta. Onestamente credi che della tua carriera internazionale si sia parlato abbastanza?
No. Per niente.

E come te lo spieghi?
Io non lo so. A volte penso sia una questione karmica. Ricordo quando uscì Ghost Rider e Nicolas Cage andò da Fazio. Ora: non dico che per forza dovevi invitare anche me, che comunque ero la donna del film e potevi farmi entrare in seconda battuta, ma almeno nominarmi nell’intervista? Invece niente, come se io in quel film non ci fossi. A prescindere da questo, non è che a noi italiani capiti tutti i giorni di fare film del genere. Ma fagli una domanda sull’attrice italiana, fai qualcosa.

Ti ha fatto incazzare o stare male?
Incazzare. Ma sono anche una che non spreca troppe energie per quello che le succede attorno, visto che possiamo controllarlo fino a un certo punto. Piuttosto guardo avanti e cerco di entusiasmarmi per cose più fiche, però non posso dire di non aver notato certe dinamiche.

Qualcuno, per molto meno, avrebbe ottenuto più ruoli da protagonista in Italia.
Eh, lo so. Sembra che io debba pagare un prezzo, che ti devo dire. Continuo a preferire l’entusiasmo. Mi gratifica cento volte di più il teatro che stare a rincorrere occasioni mediocri. Come vedi il cinema è in crisi ma i teatri si riempiono, l’esperienza dal vivo è onirica e insostituibile. È ovvio che spero sempre di fare qualcosa di challenging al cinema, ma nel frattempo sono carica, non mi sono abbrutita.

Viola (la cantante) e Violante (l’attrice) sono state due entità separate per molto tempo, ma di recente le hai riunite. Mi dici cos’è cambiato veramente?
La timidezza. Legata a una mia consapevolezza diversa, che si può acquisire solo con l’esperienza, è inutile prendersi in giro. Con la popolarità iniziale del mio percorso d’attrice si aveva una percezione di me che forse avrebbe stonato con l’emotività che tiravo fuori nella musica. Non a caso avevo scelto il nome Viola, che è come mi chiamano le persone più intime. Poi c’era questo fatto del Placido, avevo paura di essere fraintesa. Era tutta una maschera scollata da quello che c’era realmente sotto.

Il brano del ritorno si intitola Tu stai bene con me: nella tua vita questa frase è stata più un interrogativo o una certezza?
(Sorride, forse si intimidisce, «Te lo dico subito…») In realtà, più un interrogativo. Nella canzone lo trasformo in altro perché negli anni ho imparato a bastarmi anche in una relazione. Siamo sempre tutti fragili se siamo capaci d’innamorarci, ma sono maturata. Prima era tutto guidato da un punto interrogativo, adesso le domande restano ma io ci sono per me stessa.

E in copertina ti fai la barba come Virna Lisi sulla cover di Esquire nel ’65. Perché?
Perché il mio compagno che è un regista, Massimiliano D’Epiro, ha una visione delle cose poco in linea con le apparenze. Il brano parla di come dovremmo cogliere l’amore senza paura, senza proteggerci, senza troppe seghe mentali. Per il video ha pensato a La donna scimmia di Marco Ferreri, e io gli ho risposto: “Ma ora cosa c’entra? Sei sempre il solito”. Invece c’entrava, e alla fine mi ha convinto. Subito dopo è arrivato anche il riferimento a Virna Lisi. Il mio compagno mi difende spesso su questo, sostiene che il mio aspetto abbia ridotto alcune possibilità di carriera. Su un viso come il mio trova più interessante rompere gli schemi, se mai dovessi fare un film con lui credo mi metterebbe una cicatrice in faccia. E sì, torniamo sempre al concetto della bella stronza.

Ma alla fine, tu bella e stronza lo sei?
Io lo trovo molto lontano dalla percezione che ho di me. Magari lo sono e non me ne accorgo, ma so che mi dà fastidio mettere a disagio le persone e tendo a mettermi nei panni degli altri. Interpretare certi ruoli da stronza non era facile, nel mio sacco non avevo molto materiale al quale attingere.

Penso a uno spettacolo come Femme fatales, in cui portavi in scena cinque donne icone della musica. Raccontavi di sentirti nel mezzo, schiva come Françoise Hardy e ingabbiata nella bellezza come Nico.
Io cammino e certe donne mi arrivano addosso, mi rimangono dentro. Mi sono accorta che erano loro e ho voluto raccontarle, risuonano tutte in me. Nico cade nel baratro del buio ma grazie a quel tormento diventa pioniera del gothic rock. Yōko Ono fa parte della mia infanzia: quando i miei occhi di bambina senza pregiudizi vedevano quella coppia lì, mi sembrava l’ideale dell’amore. Poi ho scoperto le contraddizioni di Yōko Ono, una che ha sempre trovato il modo di dire qualcosa che rompesse gli schemi, sempre scomoda. E, se ci pensi, per sopravvivere a certe cose devi avere un’autostima incredibile. Per me tutte loro hanno vinto.

Ma credo che Moana abbia rappresentato un discorso a sé. La tagline della serie diceva: “Tutti portavano una maschera. Lei le tolse tutte”. Le ha tolte anche a te?
(Sorride) Forse sì. Con Moana ho fatto una scelta coraggiosa e un po’ folle, abbiamo rischiato tutti. Uno dei primi biopic interpretati da una donna, e alla fine andò molto bene: quindi me ne hanno proposti altri? Zero. Perché? Certo che me lo sono chiesto. Rimane un’esperienza incredibile e totalizzante, ma nelle interviste a volte mi chiedono se ho raccolto quello che ho seminato, e io rispondo: “Se devo essere sincera, pensavo di raccogliere di più”.

Dopotutto te l’ho chiesto anch’io, perché sono d’accordo con te. Ci vediamo a teatro per 1984, ovviamente.
Mi aspetti al varco, eh? (Sorride, ancora una volta, flautata)

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