Vinicio Marchioni: intervista per ‘Tre notti’ | Rolling Stone Italia
romanzo personale

Vinicio Marchioni
Narrami, o vita

Scrivendo ‘Tre notti’, il suo primo libro, l’attore romano ha provato «una solitudine veramente… sola». Ma ha anche trovato la sua voce di scrittore “classico”, si è sentito «nudo come in piazza», ha chiuso i cerchi col suo passato. Una lunga chiacchierata tra le pagine di questo ‘Pinocchio’ di borgata, il cinema, la carriera, e cosa vuol dire essere (o diventare) maschi oggi

Foto: Pier Costantini

Vinicio Marchioni ha scritto il suo primo romanzo, e voi direte: pure lui? Domanda legittima, del resto lui stesso mentre chiacchieriamo su Zoom – lui, appena arrivato dalla presentazione dei candidati agli ultimi David al Quirinale («Che dio ci conservi Mattarella per tantissimi anni ancora»), dalla sua casa di una Roma piovosa, io su un terrazzo di Milano dov’è finalmente primavera – confesserà: «Mi dicevo: “Un altro libro nel mondo non ci serve”». In realtà Tre notti (questo il titolo, esce ora per Rizzoli) è servito ovviamente a lui, ma serve anche a chi lo legge per scoprire una nuova voce. È la storia di un ragazzetto di borgata che perde il papà, ma soprattutto delle tre notti che seguono e che incasinano tutto, o fanno cominciare tutto. È la storia di Marchioni stesso, però solo per prendere la rincorsa, perché non è autofiction, ci rassicura lui (e noi gliene saremo eternamente grati). È un romanzo bello, classico, d’avventura anche se sta tutto dentro un tempo piccolo e nella stessa borgata, con solo una puntatina a Roma centro ma non tra ville e fontane: per andare da McDonald’s. E un romanzo che emoziona lui stesso quando inizia a parlarne: «Quest’avventura nuova la sto prendendo molto seriamente perché mi piace scrivere, mi è sempre piaciuto. Però è un’emozione completamente diversa dal recitare, è come essere nudo in piazza. Quando fai un film o uno spettacolo, anche quelli importanti, le prime al Piccolo o all’Argentina, o i grandi film con i grandi registi, sai che, male che vada, come attore comunque te la porti via».

Puoi sempre dar la colpa a qualcun altro.
Esatto (ride). Qui invece ti giri e dietro non c’è nessuno.

Però ci sei tu che, da esordiente, sembri aver subito trovato la tua voce, e allora ti chiedo: quando e come ti è successo di scoprirla tu, questa tua voce da scrittore?
È stato un processo molto lungo. Adesso che l’ho riletto dopo le tante revisioni, che sono state un altro lavoro pazzesco, devo dire che sono molto soddisfatto, che è una cosa che non mi appartiene mai. Io non sono mai soddisfatto quando rivedo i film che ho fatto, in teatro è un po’ diverso perché sera per sera hai la possibilità di migliorare, cambiare, adattare. Un libro quando è chiuso è chiuso, anche se, come ha detto tra le mille cose straordinarie Paul Auster, un libro non è finito mai. E quando parte tutta la giostra della stampa pensi “dio mio, questa ripetizione me la sono persa, porcoggiùda”, o “questo argomento avrei potuto svilupparlo meglio”. Ma a proposito della voce, questo libro ha una genesi che comincia più di dieci anni fa, da un trasloco. Ho trovato questa vecchia scatola di diari miei, e rileggendoli ho provato una grande tenerezza per quel ragazzetto. E questa distanza, che mi ha sorpreso molto, è stata proprio una sensazione fisica, che ricordo perfettamente: me l’ha fatto vedere come se non fossi io, così come non erano miei quel dolore, quella sofferenza, quegli amori, quello sturm und drang, e anche quei dettagli, le sigarette che si fumavano, i motorini, il Sì, il Ciao, quel mondo di fine anni ’80, inizio ’90… Ecco, quella distanza mi ha fatto pensare “forse adesso sono maturo abbastanza per provare a rimettere insieme quella memoria lì”. Ovviamente quella memoria era la morte di mio padre, lo spunto autobiografico è essenzialmente quello. Però non gliene frega niente a nessuno di sapere le cose mie, e quindi in questi dieci anni i primi capitoli che ho provato a buttare giù sono serviti a trovare la forma per partire da quello spunto, e arrivare a chiudere un cerchio rispetto al mio essere figlio di quell’esperienza lì, ma cercando una storia che avesse a che vedere con qualcosa di favolistico. Queste tre notti per me sono in qualche modo Alice nel paese delle meraviglie, e Pinocchio. Sono un attraversamento della vita con compagni di viaggio che ti accompagnano o ti distraggono. E poi volevo raccontare la vita che trascorre quando muore qualcuno. Io quelle notti non me le ricordo, non mi ricordo assolutamente niente di quello che ho provato, e quindi è stato fantastico lavorare di fantasia per innestare quello spunto dentro una narrazione costruita ad arte come una favola, come qualcosa di mitologico.

Foto: Alessandro Treves per Rolling Stone Italia

Mi confermi la componente autobiografica di questa storia, ma anche il fatto – e l’ho pensato mentre leggevo – che in quest’epoca di abuso della cosiddetta autofiction, tu invece hai proprio voluto fare un romanzo classico. Che è anche un’ambizione non da poco.
Io non so che cosa sono come scrittore, ma so che sono un grande lettore. E questi dieci anni mi sono serviti anche per mettere da parte tutto il timore reverenziale che ho verso la grande letteratura, perché ho riferimenti così alti che mi dicevo: “Un altro libro nel mondo non ci serve”. Forse paradossalmente per questo ho finito per mettere nel romanzo proprio degli omaggi alla grande letteratura, che sono usciti fuori un po’ casualmente, un po’ perché le grandi letture che ti hanno permeato e che fanno parte della tua vita poi escono fuori autonomamente, se sono state davvero digerite. La maniera in cui muore questo padre è un omaggio alla morte di José Arcadio Buendía in Cent’anni di solitudine. Ho proprio pensato: “Come lo famo morire? Con un sogno”. E poi c’è tantissima letteratura in tutta la notte che Andrea trascorre con uno dei personaggi che amo di più, Nerone, perché volevo togliere tutta una serie di luoghi comuni sulle periferie. In questo romanzo la periferia, la borgata, è un punto di confine e di passaggio, soprattutto in quegli anni in cui non c’era internet, non c’erano i telefonini. La periferia cominciava ad ingrandirsi, ma era ancora staccata dalla metropoli. Anche per questo a questa borgata non ho dato un nome riconoscibile ma un nome mitologico, perché chi se ne frega di dove è cresciuto Vinicio Marchioni. È il luogo che mi serviva per raccontare un’umanità, una densità di protezione, di amore, di mascolinità, che è un altro tema di questo romanzo. Un romanzo in cui però gli uomini piangono, e sono quegli uomini lì, quelli proprio più maschili, patriarcali, figli degli anni ’50 e ’60. Volevo distruggere dall’interno quel mondo patriarcale in cui anch’io sono cresciuto attraverso uomini diversi anche nel loro essere maschi. È stato un viaggione.

Più che un romanzo sull’essere maschi, questa mi sembra una storia sul diventare maschi. Che a volte corrisponde all’esatto contrario di quello che uno si aspetterebbe.
È sempre fondamentale quella seconda notte, che per me è il cuore pulsante del romanzo. A Nerone faccio citare il viaggio di Ulisse e il ruolo di suo figlio Telemaco, che per me è centrale. Per diventare grande, soprattutto agli occhi degli altri, Telemaco deve fare delle prove. Intraprende quel viaggio per cercare suo padre mentre tutti i proci lo smerdano, lo pigliano in giro. Va via da ragazzino indifeso e torna che è un uomo, dopo aver sentito parlare di suo padre in ogni isola in cui è andato. E così, nella seconda notte, Andrea sente tutti i maschi del bar che parlano di suo padre, tutti gli raccontano chi era e in modi diversi si preoccupano per lui, e lì parte il suo viaggio dentro una nuova consapevolezza. Nelle intenzioni questo voleva essere un romanzo di formazione puro, fino alla fine, quando la terza notte Andrea si chiude in quel sottoscala: entra dentro la balena e ci seppellisce tutto quello che ci deve seppellire.

Foto: Alessandro Treves per Rolling Stone Italia

Questo romanzo di formazione rappresenta anche una riformazione, per te stesso dico?
La cosa che mi porto via da questa esperienza, intendo proprio dalle quattro-cinque ore davanti al computer seduto alla scrivania, è un rapporto con la solitudine completamente diverso. Un rapporto che pensavo di non essere in grado di sopportare. Come attore o regista per il teatro, quando studio sto ore e ore da solo, però sono circondato da ombre, da fantasmi, da idee che sono sempre di qualcun altro. Qui invece le ombre sono tutte le tue, le stanze che apri ti portano a una solitudine che è veramente… sola. Una solitudine a tratti mortale, che credo mi abbia fatto crescere molto. Mi ha fatto chiudere dei cerchi, e infatti quei trentatré anni che trascorrono fino al finale sono un trick: dal 1991 arriviamo al 2024, quindi è proprio come se fossi io a tornare in quel sottoscala, ma per dire che quella cosa lì non mi appartiene più, che con quel mondo dove sono nato e cresciuto, e dove Andrea per conto mio ha fatto tutte quelle esperienze, ci ho fatto pace. Ho preso distanza, ho guardato le cose da un altro punto di vista e sì, l’ho fatto con una serenità che fino a qualche tempo fa non avevo.

Questo sentirsi più nudi, questo dover essere, immagino, anche più impudichi verso sé stessi porta anche più vergogna, o invece è una liberazione?
In questo senso è molto simile alla recitazione, almeno per come la intendo io: avere una maschera davanti ti permette di fare cose che non faresti mai nella vita. La differenza è che mentre scrivi è veramente tutto tuo. Come dice Alessandro Baricco, e come dicono tantissimi altri scrittori, alla fine ogni scrittore scrive sempre di sé stesso. Devo dire che l’intervista che Baricco ha fatto da Fabio Fazio mi è stata utile, è arrivata in un momento in cui ero lì che mi dicevo “questa cosa non la dico, quest’altra mi sembra troppo”, e invece lui mi ha fatto pensare: “ma chi se ne frega: di’ la verità”. E questa cosa di dire la verità, seppur attraverso il filtro della narrazione e dei personaggi, attraverso le dinamiche che costruisci e il tempo, che è un altro elemento fondamentale in questo romanzo, è bellissima. È come se tu ti mettessi sotto una gigantesca rete di salvataggio e però il salto mortale lo fai comunque e da 500 metri, non da 20 centimetri. La sensazione che ho avuto scrivendo è stata un po’ questa.

Parlando di cerchi che si chiudono, prima del libro c’è stato C’è ancora domani di Paola Cortellesi, e poi Un altro ferragosto di Paolo Virzì, due film importanti, credo anche per te, e in cui peraltro interpreti due personaggi che si confrontano direttamente col maschile. Ecco, un’annata così cosa ti dice? È successa solo per caso?
Io sono uno di quelli che credono molto nella fisica quantistica (ride), e che hanno sempre studiato le carriere degli altri, dei grandi attori. Ho capito che ogni attore fa la carriera che lo rispecchia. A seconda del tipo di persona e dell’attore che sei, fai un tipo di carriera con determinati ruoli, incontri, fortune… In questo libro la motivazione principale è stata raccontare ai miei figli chi era mio padre, perché quella parte di famiglia non l’hanno mai vissuta. E ho ragionato molto sul maschile oggi, essendo padre di due maschi. È un tema che per me negli ultimi anni è stato centrale, ci metto dentro anche le due stagioni teatrali di Chi ha paura di Virginia Woolf?, dove il personaggio di George, il maschio intellettuale che affascina con la sua sapienza, la sua cultura, capisci che ha un problema, ma dove sta, dov’è la ferita? E poi c’è stato il ruolo nel film di Paola, e poi quello con Paolo, e per questo ti parlavo di fisica quantistica, perché ragionare sul maschio oggi è evidentemente un fatto diffuso. Penso che noi maschietti dobbiamo ragionare davvero su cosa significa essere un uomo oggi, e per questo mi fanno molta tenerezza i personaggi che ho scritto in questo libro. Ho cercato di metterci dentro la peggiore specie di maschio possibile, però poi anche lì dentro trovi uomini che sono onesti fino in fondo, amici fino in fondo, con quel senso dell’onore che non è quello di quegli orrendi figli del maschilismo che ci riporta non a decenni, ma a secoli fa, e che sono ancora oggi radicati. Sento che c’è un grande bisogno di ragionarci sopra, senza pensare che per forza nell’essere maschio sia tutto sbagliato o tutto giusto: viviamo in una società in cui abbiamo la necessità di mettere tutto dentro delle caselline, sempre, e se non sei con noi sei contro di noi, tutto così, senza notare mai le sfumature. Invece come attore, ed esponenzialmente come scrittore, penso che la cosa stupenda dell’essere umano siano proprio le sfumature.

Vinicio Marchioni in ‘C’è ancora domani’ di Paola Cortellesi. Foto: Vision Distribution

Non ti chiedo un bilancio della tua carriera perché l’ho sempre trovata una domanda stupidissima, però ti dico: secondo te, come ti vedono gli altri oggi? Chi è Vinicio Marchioni in questo momento per i registi, i colleghi, il pubblico?
Bella questa (sorride). Ovviamente non ne ho la più pallida idea. Sono uno che ha sempre sfuggito le definizioni come le morte, perché le detesto proprio nella vita. Forse per questo ho fatto cose anche cose molto diverse, alcune anche molto popolari pur essendo partito dal “superteatrone” classico, quello di Ronconi, Latella… Penso che per qualcuno io sia autorale, per quello che significa, e invece per qualcun altro troppo popolare per essere autorale fino in fondo, o utilizzato in film considerati tali. Ho una carriera teatrale grazie al cielo straordinaria, in cui da venticinque anni faccio i protagonisti, e ho iniziato al cinema con 20 sigarette, che mi ha dato la prima candidatura ai David da protagonista, e poi invece in questi dodici-tredici anni la mia carriera al cinema mi ha portato a fare quasi sempre il secondo ruolo, il non protagonista. Penso che tutto questo mi rispecchi molto, e anche che renda molto difficile il catalogarmi, appunto, ammesso che sia possibile catalogare un attore. Ma ho capito che questa cosa mi fa piacere.

Stai per partire per Napoli, dove girerai il prossimo film di Antonio Capuano.
Sono molto contento, Antonio per me è stato un punto di riferimento. Pianese Nunzio, 14 anni a maggio è un film che dentro di me ha fatto booom!, sai quando sei più giovane e vedi quelle cose che dici “dio mio”. Sono contento perché Antonio è uno spirito libero per davvero, un uomo che se n’è fregato sempre di tantissime cose, e che se ne strafrega a maggior ragione oggi che ha 84 anni. Ha un’energia che dovrebbe andare a insegnarla nelle scuole. Sono contento perché è proprio la cosa giusta, ed è giusto per me che arrivi ora, alla soglia dei cinquant’anni, e con Teresa Saponangelo, che è un certo tipo di attrice. Anche lì faccio il ruolo di un padre e mi assumo delle grandi responsabilità come attore, indagando sempre nel rapporto uomo-donna dentro la coppia.

Anche tu, pure rispetto al discorso che facevi prima, sembri uno che se n’è fregato, intendendo con questo uno che ha sempre voluto essere libero.
Da una parte sì, e sono contento che tu me lo dica, che si percepisca. Ma è un punto d’arrivo. Fino a qualche anno fa avevo, come dire, una smania da qualche parte. Dicevo “è da venticinque anni che faccio tutti i grandi protagonisti del teatro, perché non mi chiamano a fare il protagonista anche al cinema?”. Quindi da qualche parte questa cosa c’era, anche se sottotraccia. Poi le scelte le ho sempre fatte, nel bene e nel male. In questi ultimi anni ho capito di essere uno che vuole andare a dormire tranquillo: l’unico vero metro di giudizio che ho quando leggo una sceneggiatura è se mi piace, se mi piacciono i temi che porta, perché come attore ho capito che siamo delle funzioni all’interno della mente degli artisti, quando si ha la fortuna di lavorare con degli artisti, e se la funzione è ben scritta allora va bene, anche se è un ingranaggio piccolo. Ho capito che questo mestiere ha senso farlo solo se si fanno dei grandi incontri, perché tu puoi anche avere un ruolo che c’ha cinquanta pose dentro il film, ma se non c’è l’incontro con il regista e con i temi serve solo a riempire il frigorifero o ad avere una copertina da qualche parte, e ho capito che non me frega niente di quella roba, se no avrei fatto tutt’altre scelte già quindici anni fa, quando invece ho iniziato a dire di no a cose più mainstream. Mi piacerebbe continuare a incontrare persone che hanno qualcosa da dire, che utilizzano il mezzo cinematografico non solo per creare contenuti, ma per ricreare una realtà e dire qualcosa su quella realtà. E quando succede il mondo è più bello, ti svegli la mattina che hai un senso reale di questo mestiere e soprattutto non ti rompi le palle, perché io sono uno che si scassa la minchia di sé stesso dopo trenta secondi netti.

Te lo sei immaginato il film di Tre notti? E se anzi arrivasse qualcuno e ti dicesse che vuole farlo lui, glielo lasceresti?
All’inizio no, non l’ho immaginato. Ho iniziato a scrivere seriamente quando mi sono costretto a quelle quattro-cinque ore quotidiane, e non pensavo potesse diventare un film. Poi, quando ci sono entrato dentro sempre di più, mi sono reso conto che scrivevo in maniera molto cinematografica: alcune chiusure di scena e alcune aperture di capitolo le ho pensate come degli attacchi di montaggio. Quindi ora penso che se ne possa fare un film, ma non so se lo farei fare a qualcun altro, forse no. Perché mentre scrivevo sapevo il punto della macchina da dove lo stavo facendo, e questa cosa mi è venuta naturalmente, penso sia normale dopo venticinque anni che fai questo mestiere, leggi le sceneggiature, stai sul set. E da una parte farci un film mi piacerebbe, ti dico, anche perché penso che potrebbe essere un film anche molto divertente, perché gli anni ’90 sono stati una figata, c’era tanta musica, la stessa che ho messo dentro il libro, c’era una vitalità incredibile. Se senti i pezzi di Elton John di quegli anni, e di George Michael, di Madonna, dei R.E.M., di tutti… cazzo, c’era la vita, anche nella malinconia, c’era qualcosa che ti diceva “oh, dài, che figata, andiamo!”. Oggi invece mi guardo intorno e sento un tono minore ovunque, un senso di rassegnazione e una poca spinta verso l’indomani. Ecco, mi piacerebbe che chi legge il romanzo ci trovasse dentro tutto quello, perché mi interessava portare la vena che pulsava, la voglia di uscire, di incontrarsi. Volevo far pensare a chi lo legge che qui dentro c’è la vita.

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