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«Vi racconto chi era davvero Tommaso Buscetta, uomo d’onore»

Parla il giornalista Saverio Lodato, una delle ultime persone a incontrare negli Stati Uniti il 'boss dei due mondi', oggi protagonista del 'Traditore' di Marco Bellocchio. «Il suo contributo contro Cosa Nostra fu gigantesco», dice

Foto: Livio Anticoli/Gamma-Rapho via Getty Images

«Più che di una consulenza, parlerei di una serie di conversazioni. Marco Bellocchio era interessato e in una certa misura affascinato dal personaggio di Tommaso Buscetta». Esordisce così Saverio Lodato, giornalista e saggista classe 1951, uno degli ultimi uomini ad aver visto in vita il “boss dei due mondi”, oggi protagonista del Traditore, il biopic del regista di Bobbio con Pierfrancesco Favino, unico film italiano (acclamatissimo) in concorso a Cannes.

Era il 1999 e Lodato incontrava negli Stati Uniti Buscetta, ex membro di Cosa Nostra e poi collaboratore di giustizia e grande accusatore dei Corleonesi che avevano preso il potere in Sicilia. Ne nacque un libro che fece scalpore: La mafia ha vinto, edito da Mondadori, una conversazione unica con uno dei personaggi chiave per capire l’Italia del Dopoguerra. Lodato, che un anno fa ha pubblicato per Chiarelettere Il patto sporco, libro scritto assieme a Nino Di Matteo, è stato uno delle ultime persone a incontrarlo negli anni dell'”esilio”, visto che poi Buscetta sarebbe morto nell’aprile del 2000 a New York. Oggi non è per nulla stupito che sia al centro di un film di successo: «Perché la sua personalità è stata unica», racconta.

Cosa cercava davvero Bellocchio da te?
Era molto curioso, era interessato a capire cosa si nascondesse dietro al primo grande rappresentante del pentitismo mafioso in Italia. Mi ha fatto un sacco di domande, è stato un “esaminatore” molto scrupoloso.

Ti piace il titolo, Il traditore?
Premettiamo subito che non ho ancora visto il film. Ma sono sicuro che l’idea di fondo di Bellocchio era prendere spunto dalle vicende di un personaggio che più volte nella sua vita, sia da un punto di vista sentimentale che criminale, si trovò a rompere con il suo passato. Era questo l’aspetto del “tradimento” che più lo interessava. Parlandoci, ho capito che la connotazione della parola “traditore” non era negativa, perché Bellocchio è convinto che nella vita si vada avanti per una serie di tradimenti successivi. E in questo senso Buscetta è stato un grande esponente del “tradimento”.

Come hai fatto a incontrare Buscetta?
Tra gli anni ’80 e ’90, lavoravo all’Unità e scrissi molto di Buscetta. Lui viveva in America, in una località segreta sotto protezione dell’FBI, e si teneva costantemente informato su quello che si scriveva di lui in Italia. Un giorno mi chiamò e facemmo una conversazione molto sentita e vivace. Io gli spiegai che non provavo risentimento per lui, ma anzi riconoscenza perché tramite il suo pentimento erano stati inflitti dei duri colpi alla mafia. Lo intervistai per il quotidiano al telefono, fece molto scalpore. Così mi comunicò la sua disponibilità a incontrarci.

Che successe allora?
Che mi disse che voleva fare un libro per fare un bilancio di quella che era stata la sua vita. Ne aveva già scritto uno con Enzo Biagi, ma allora i tempi erano molto diversi perché sembrava che Cosa Nostra stesse per cadere. Io, invece, nel 1999 mi trovai a parlare con un Buscetta desolato, deluso dal modo in cui gli italiani avevano affrontato le questioni legate alla mafia. Per questo il titolo del volume fu amaro, pessimistico: La mafia ha vinto. Una volta mi disse una frase indimenticabile: “Dopo la mia deposizione ho sentito da parte delle istituzioni dei gran ‘ora faremo’ e ‘ora vinceremo’, poi ho visto scomparire la chiesa con tutto l’altare”.

Chi è stato dal tuo punto di vista Tommaso Buscetta?
Anzitutto il più grande analista del fenomeno mafioso assieme a Giovanni Falcone, come dimostra la lucidità con cui ha sempre parlato degli affari di Cosa Nostra, in cui era entrato a 16 anni.

Qual è l’aspetto che più ti ha colpito di lui da un punto di vista umano, invece?
Stando un mese assieme a lui, ho scoperto di avere avuto l’occasione di incontrare uno degli ultimi uomini d’onore della mafia, prima dell’avvento dei Corleonesi. Non si intende uomini da stimare o imitare, ma persone che all’interno dell’organizzazione criminale rappresentavano un passato molto meno peggiore rispetto a chi lo ha succeduto, gli stragisti.

Perché Buscetta parla?
Buscetta parla perché si vede sterminare l’intera famiglia, mentre si trova in Brasile. A Palermo scoppia la guerra di mafia e i Corleonesi sono terrorizzati all’idea di un suo ritorno e di un’alleanza con i loro avversari, perché sanno che con la sua leadership poteva spostare gli equilibri. Allora passano all’azione, ma la scelta di attaccare la sua famiglia in quel modo feroce fu una grande ingenuità da parte loro. Quando Buscetta si vide con le spalle al muro, fece la scelta di vendicarsi dei Corleonesi. Non con il mitra, alla vecchia maniera, ma rompendo il totem della segretezza per sgretolare quel mondo. E parlando con i magistrati, consegnando allo Stato i suoi segreti. Per questo la Storia ha voluto che lui morisse nel suo letto, a differenza di migliaia di altri mafiosi ammazzati per le strade della Sicilia. 

Quanto è stata fondamentale la sua figura per la storia dell’antimafia?
Risponde per me Giovanni Falcone, quando disse “grazie a Tommaso Buscetta possediamo le chiavi di quel mondo sotterraneo chiamato Cosa Nostra”. Prima di lui non si sapeva nemmeno che l’organizzazione si chiamasse così, ma era chiamata genericamente mafia. Buscetta raccontò a Falcone i motivi e i collegamenti che c’erano dietro agli oltre duemila omicidi degli anni precedenti a Palermo e dintorni, per cui non si riusciva mai a trovare un colpevole. Buscetta, assieme a Falcone, Borsellino e agli altri del pool antimafia di Palermo, è il primo artefice – tramite l’istruzione del Maxi Processo – dello scardinamento, almeno parziale, di Cosa Nostra. Nessun magistrato è mai riuscito a coglierlo in contraddizione. Il suo contributo fu gigantesco, quello che sarebbe poi accaduto dopo è un’altra storia.



E la politica?
Nel 1992, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Buscetta riprende la parola e fa un nome atteso da molti, che davanti a Giovanni Falcone non aveva mai fatto: quello di Giulio Andreotti. Da quel momento in poi lo strumento del pentitismo fu messo sotto attacco: se si poteva attaccare la mafia, lo stesso non valeva per la politica. Le istituzioni si chiusero a riccio, adottarono legislazioni sempre più restrittive proprio per evitare altre denunce delle collusioni dei mafiosi con i politici e i “poteri forti” dello Stato. 

Oggi cosa rimane degli anni del “boss dei due mondi”?
Io penso che – nonostante migliaia di omicidi di magistrati, giornalisti, uomini di chiesa, persone comuni – se dopo 400 anni la mafia sta ancora al suo posto, è perché una parte di questo Stato continua a mantenere un rapporto perverso con quest’organizzazione. Quando la mafia non spara, in Italia può fare i suoi affari. 

 

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