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Valerio Mastandrea e l’eredità di Mattia Torre

L'attore romano riflette su 'Figli', l'ultimo film dell'amico sceneggiatore morto l'anno scorso: «Impariamo a utilizzare il nostro mestiere per raccontare la realtà come faceva lui, in equilibrio tra gravità e ironia»

Valerio Mastandrea in una scena di ‘Figli’. Foto: Vision Distribution

Nicola (Valerio Mastandrea) gestisce una salmoneria gourmet. Sara (Paola Cortellesi) è un’ispettrice alimentare. Fino alla prima figlia, a casa tutto bene. Quando arriva anche il piccolo Pietro la vita di questa coppia di quarantenni si trasforma in una commedia dolceamara, in cui tutto sembra avvenire nei giusti tempi comici, anche quando loro avrebbero solo voglia di piangersi addosso. Il fatto è che non c’è niente che ti possa far sentire più in difetto che dare la vita a qualcosa di perfetto come un bambino e vederlo crescere in mezzo ai tuoi problemi e alle tue lacune.

Figli, opera postuma di Mattia Torre, diretta da Giuseppe Bonito (assistente alla regia sul set di Boris), è la storia un po’ autobiografica e molto universale di una famiglia a un tempo astratta e realistica, come tutte le famiglie che mettono al mondo figli, in qualunque epoca, anche se meno assurde della nostra. Ci sono pochi autori cinematografici e televisivi italiani che, come Torre, sappiano gestire con mano così sicura un continuo equilibrismo (a tratti giocoleria), tra riflessione e canzonatura, ritratto e caricatura, nazionale e familiare, sfiducia nel sistema Paese e paura del proprio tinello.

La famiglia, la società, la vita per come li percepiscono Nicola e Sara si ammantano rapidamente di un delicato surrealismo. Del resto, cosa c’è di più surreale, nella vita, dei figli stessi, quando fai caso a quanto sono irrazionali e onirici, soprattutto se non dormi da due giorni?

Alcune volte questa traccia di surrealtà è esplicitata, come l’iperuranio dalle pareti bianco manicomio in cui vengono passati in rassegna i diversi tipi di padri (con Valerio Aprea nel ruolo del padre separato e libertino, Andrea Sartoretti in quello del padre ricco con la casa full-optional e i figli che chiamano mamma la tata orientale e Paolo Calabresi in quello del padre maldestro e troppo prolifico). Altre volte è più raffinatamente celata tra le righe del copione, come quando la primogenita dei protagonisti, che è in età da prima elementare, parla come un’adulta, e pure abbastanza stronza (“C’era proprio bisogno di fare un altro figlio? Stavamo tanto bene prima! Non poteva rimanere in ospedale?”), tanto che ti viene il sospetto che non stia facendo altro che dare voce ai loro pensieri.

Seguono per i nostri eroi: sudditanza psicologica nei confronti della pediatra d’alto bordo, che riceve in un palazzo nobiliare e che, come ricetta, consiglia smettere di lavorare e cercare di vivere di rendita; lo spauracchio della parola e del luogo festificio — dove Nicola si imbatte, tra l’altro, in Oscar Farinetti nel ruolo di se stesso —; una tata ciociara col feticismo dell’uovo alla cocca; una resa dei conti altamente impari con la generazione genitoriale precedente, che si traduce, di fatto, in uno struggente Addio ai nonni (in sostanza, non possiamo più contare su di loro, perché sono loro i nuovi giovani).

Tra i tanti personaggi della galleria curata da Torre non si può non menzionare l’Amico Giornalista interpretato da Stefano Fresi. Come tutti gli amici giornalisti è in enormi difficoltà di qualunque tipo — economico, logistico, familiare — ma, come tutti gli amici giornalisti, nonostante tutto, non si capisce come, riesce ad andare avanti. La sua condizione esistenziale è rappresentata come una sorta di pena infernale da scontare ancora in vita: due bimbetti suoi figli lo percuotono senza posa, dantescamente infaticabili e diabolicamente precisi, con due spade in schiuma di lattice: mentre parla con Nicola, mentre passeggia, mentre vive la sua doppia vita di padre e vittima predestinata.

Di questo film abbiamo parlato con Valerio Mastandrea.

Un possibile e suggestivo bilancio che comincia come una divertentissima pubblicità regresso per non fare figli e finisce per fare del commovente product placement della bellezza, sempre e comunque, di continuare a farne.
È un film che racconta il coraggio, all’interno di una coppia, di affrontare delle dinamiche che oggi, purtroppo, vengono vissute come catastrofiche. E questo sia per motivi reali che per motivi completamente immaginari.

In che senso immaginari?
Non dobbiamo dimenticare che viviamo ancora, almeno in parte, all’interno di un meccanismo in cui la genitorialità è vissuta come prova dell’esistenza del divino. In cui ogni donna deve essere madre e, se non diventa madre, non ha raggiunto il suo obiettivo. Così, una volta che è madre, non si può lamentare. Se ci fai caso la cultura dominante rispetto al diventare genitori è devastante.

Che tempi sono per i nuovi genitori d’Italia?
Questa è un’epoca in cui cominci a preoccuparti di tuo figlio da molto prima che nasca, perché puoi vedere tutto, puoi sapere tutto. Per carità, ben venga la prevenzione, anche rispetto alle dinamiche catastrofiche (di cui sopra, nda). Però è pure vero che le aspettative sono altissime e non solo sui figli ma anche, e soprattutto, su che tipo di genitore devi essere.

L’idea fondamentale del soggetto di Figli, prima di diventare un film, era contenuta in un atto comico che era anche una riflessione molto profonda, come spesso accade con gli scritti di Mattia Torre. Tu lo avevi interpretato come un monologo brillantemente introspettivo. Che cosa, dell’idea di paternità di quel testo, non era stato possibile esprimere nel monologo e che invece è riuscito a farsi spazio nel film?
Credo che nel monologo ci fosse l’espressione del singolo pensiero di Mattia. La versione cinematografica è servita, innanzitutto, a declinare il tema della genitorialità anche dal punto di vista della sua compagna, e dunque della madre e a esplorare tutto un mondo che circonda la dimensione di due genitori che, dopo sei anni di esperienza con la prima figlia, devono ricominciare tutto da capo. È un mondo vero e proprio che si rinnova, che trova nuovi significati: i nonni, le babysitter, le istituzioni che ti abbandonano completamente…

Gli amici, che un po’ ci sono e un po’ non ci sono…
Di’ pure che non ci stanno manco per niente… Ci sono quelli che quelli che ti trattano come se questa condizione fosse definitiva, quelli che ti condannano a morte.

Cosa invece, nel film, è stato irriproducibile dell’esperienza del monologo?
La grande lucidità con cui Mattia si è posto delle domande rispetto all’essere padre all’interno della società di oggi. Una lucidità applicata sempre insieme a ironia e intelligenza. Le sue erano uniche, capaci di farti ridere in maniera estremamente sofisticata degli aspetti più beceri dell’umanità.

Com’è il mondo dello spettacolo italiano senza Mattia Torre?
La cosa che dà più fastidio è che lui non possa continuare a raccontare il mondo. Ma lo ha raccontato. Abbiamo delle cose di Mattia che continueremo a portare in giro. Forse ci ha lasciato poco ma è una materia densa, con la quale ci piacerebbe molto poter stimolare dei ragazzi a guardare le cose in quella maniera. E, un giorno, a utilizzare il nostro mestiere come veicolo per raccontare la realtà così come faceva lui: non solo in una direzione, ma provando a bilanciare quella che, a volte, è una necessaria gravità con una grandissima ironia. Potrebbe fare scuola, ecco.

Guardandovi nel film, nelle pause, nella mimica, perfino nelle inflessioni ci è sembrato, oltre all’egregio lavoro di Giuseppe Bonito, di percepire in modo inequivocabile anche la direzione di Torre.
C’era un copione molto forte, che inevitabilmente ci dettava la linea. Giuseppe è stato bravo nella messa in scena ma, di fatto, restavamo tutti all’interno di un confine che conoscevamo benissimo, senza che ci fosse mai bisogno di parlarne, e che era il confine del linguaggio di Mattia.

Un aspetto del film che abbiamo trovato strepitoso è costituito da alcune convenzioni visive o sonore, come il tuffo rituale di coppia, dalla finestra di casa, quando il gioco si fa troppo duro; il costume da supereroe che idealmente indossi quando arriva il momento di passare un’intera giornata solo in casa con il neonato, o l’attacco della Patetica di Beethoven che sostituisce, giorno e notte, il pianto del piccolo. Anche queste idee sono di Mattia Torre?
Anche io le ho trovate eccezionali. Assolutamente sì, tutto quello che hai visto è di origine torriana. E posso dirlo anche della musica: credo che Mattia avesse cominciato a ragionarci con Giuliano Taviani. Tutto quello che Mattia ha potuto fare per il film, fino alla fine, è stato portato avanti e, nel prodotto finale, si vede e si sente.

Allora perché dovremmo fare figli, nel 2020, magari proprio in una città come Roma?
Non risponderò mai a questa domanda. Guarda, non lo chiedere a me. Già ci hanno provato (ride). Non mi permetterei mai e poi mai di risponderti.

Figli è ambientato perlopiù nel rione Testaccio.
È stata una scelta fortemente voluta da Mattia, perché era un quartiere intorno al quale gravitava molto. Una zona di Roma che recentemente è stata vista poco al cinema e che forse rappresenta, un po’ meglio di altre, un certo senso di comunità.

A Testaccio, la piazza c’è.
Non solo c’è la piazza ma c’è anche sempre chi ti ripassa il pallone, dai vecchi ai bambini.

Andiamo via con in tasca una copia della ristampa mondadoriana di In mezzo al mare, la raccolta di atti comici di Mattia Torre (tra cui I figli invecchiano, da cui è tratto il film di cui abbiamo parlato); donataci, chissà, un po’ per rafforzare quella mezza promessa che un giorno potranno nascerne altri monologhi, altri film, altre storie; altri figli, insomma.

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