Valerio Aprea: «Mattia Torre? Sta rosicando perché non è qui a raccogliere l’applauso generale, ma anche godendo come un matto» | Rolling Stone Italia
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Valerio Aprea: «Mattia Torre? Sta rosicando perché non è qui a raccogliere l’applauso generale, ma anche godendo come un matto»

L’attore ricorda il rapporto personale e professionale con lo sceneggiatore morto nel 2019, che ‘interpreta’ nella quarta stagione di ‘Boris’. E di cui mette in scena su RaiPlay, diretto da Paolo Sorrentino, le pièce ’Sei pezzi facili’, una sintesi di quella «comicità che emana un intelletto creativo fuori dal comune»

Valerio Aprea: «Mattia Torre? Sta rosicando perché non è qui a raccogliere l’applauso generale, ma anche godendo come un matto»

Valerio Aprea in ‘Sei pezzi facili’ di Mattia Torre

Foto: Rai

Un grande amico. Nonché l’attore feticcio. Ma anche il suo fantasma in Boris 4 e, più in generale, il gran cerimoniere di questo omaggio collettivo a Mattia Torre. Valerio Aprea è tutte queste cose insieme, e probabilmente anche l’elemento più genuino della celebrazione postuma in corso per Torre. Cinema e tv si sono infatti accorti del talento del compianto sceneggiatore decisamente fuori tempo massimo, ossia solo quando il nostro è morto nel luglio del 2019, stroncato dal tumore. Giusto la Rai aveva scommesso con più convinzione su di lui, programmando quel gioiellino che è stato La linea verticale. Per il resto, però, Torre era una tra le tante buone penne in circolazione. Ma non per Aprea. L’attore aveva subito intuito il talento di quello che sarebbe poi diventato anche il suo grande amico. Quando lo vide lavorare per la prima volta, nel 1996, al Teatro dei Cocci insieme a Giacomo Ciarrapico, Andrea Sartoretti, Carlo de Ruggieri e Massimo De Lorenzo, si era subito domandato: “Ma questi da dove cazzo saltano fuori? Io voglio lavorare con loro”. E così ha fatto. Da quel giorno ha seguito, fianco a fianco, Torre in ogni avventura, spaziando dal successo di Boris al teatro e ai film. Per questo il suo ricordo è quanto di meno retorico si possa avere. Anzi, per certi versi è feroce: come lo stile che Torre amava. Non a caso, non poteva che essere Aprea a calarsi nel ruolo del fantasma dello sceneggiatore in Boris 4 o a interpretare metà dei Sei pezzi facili: le pièce teatrali di Torre che la Rai sta riproponendo su Rai 3, in seconda serata al sabato, con la regia di Paolo Sorrentino. A proposito, recuperatele perché sono bellissime.

Hai insomma avuto una sorta di folgorazione per Torre?
Be’, lo spettacolo che vidi era a dir poco strepitoso: conteneva già tutta la comicità di Boris, il suo acume, la sua intelligenza e ferocia. Quando, al botteghino, fermai Torre per complimentarmi dello spettacolo, scritto da lui e da Ciarrapico, subii una fascinazione fulminea, viscerale e letale. Perché era impossibile parlare con lui senza innamorarsene all’istante: chiunque, conoscendolo, desiderava subito diventargli amico. Fu così anche per me. In seguito, lavorando entrambi al Teatro Colosseo, ci conoscemmo professionalmente un po’ meglio: videro i miei lavori, io i loro, e ci siamo piaciuti reciprocamente. Feci così i primi due film di Giacomo Ciarrapico (Piccole anime, 1998, ed Eccomi qua, 2022, ndr) e poi, nel 2003, Mattia mi propose di interpretare il suo primo monologo: In mezzo al mare. Da lì è partito tutto il nostro rapporto.

Torre ripeteva che la comicità serviva “per fare salire il pubblico a bordo, e poi farlo stare male”. È in questo che consiste la sua ferocia?
Per come la vedo io, più c’è commistione tra comico, tragico e furente, e più si va a dama. Parlo anche da spettatore: amo quella comicità che emana un intelletto creativo fuori dal comune. Mattia diffondeva questa intelligenza alta, dietro alle cui battute c’è sempre molto altro.

Possibile che ci siamo accorti del suo genio solo adesso?
Dovrei tacere… il silenzio sarebbe la risposta più eloquente alla tua domanda. In questo mondo uno deve morire per essere riconosciuto. E non vale solo per il contesto italiano. La storia è piena di casi, persino più eclatanti di quello di Mattia, di artisti morti in povertà e poi diventati geni planetari. Inutile citare Van Gogh…

Da lassù, secondo te, Mattia è felice per questo riscatto oppure sta rosicando perché arriva solo ora che lui non c’è?
Tutte e due le cose. Adesso lui sta bestemmiando perché non è qui a raccogliere di persona tutto questo, ma sta anche godendo come un matto perché di fatto sta ottenendo tutto questo.

Valerio Aprea con Paolo Calabresi (a sinistra) durante la lavorazione di ‘Sei pezzi facili’. Foto: Rai

La moglie, Francesca, ha detto di non essere credente e quindi di non poter contare sulla consolazione della fede: in compenso, la cerca nei suoi lavori, nei quali sente rivivere il marito. Tu che tipo di consolazione ti dai?
Anch’io non sono credente e onestamente sto ancora metabolizzando. Però mi associo a quello che ha detto Francesca. Anch’io percepisco un’immanenza, inspiegabile a parole, ma data e certificata da tutto quello che sta accadendo intorno alla sua scrittura: il ritorno di Boris, i Sei pazzi facili diretti da Sorrentino… guarda, mi spiego meglio con un esempio. Hai presente quei film sull’uomo invisibile? Nessuno lo vede tranne quando qualcuno gli rovescia addosso della vernice o del liquido. Ecco, le opere di Mattia sono la sua vernice.

Parte di questa vernice l’hai gettata anche tu, interpretando il fantasma di Mattia in Boris 4. Al netto della quota di comicità che attraversa la serie, è stato emotivamente impegnativo ricoprire quel ruolo?
A dire la verità non me la sento di dire che è stato un carico emotivo pazzesco: sarebbe solo retorica. Ho trovato che quella soluzione creativa fosse artisticamente ineccepibile e, semplicemente, mi sono messo al servizio della serie e del ruolo. Forse ho più rimosso che altro. Sul set mi sono concentrato su quello che dovevo fare, non mi sono abbandonato ai ricordi o alla nostalgia. Ho diviso i due piani: il lato privato e quello lavorativo. Sul lutto di Mattia ci faccio i conti, tutti i giorni, ma fuori dal set. A prescindere da Boris.

Cos’hai pensato quando il produttore Lorenzo Mieli ha detto: “Se facciamo Boris 4, Aprea è deceduto”?
Ho pensato: “Eccallà, mi fanno fuori!” (ride, nda) Poi invece ho capito l’idea del fantasma e, come dicevo, mi è sembrata azzeccatissima.

Tu hai paura della morte?
Da mori’… E sottolineo: da morire! (ride, nda)

Come ti piacerebbe essere ricordato? Aneli al ritratto in stile “santo subito”, che va per la maggiore qui in Italia, o ti piacerebbe che dicessero che, in fondo, eri anche un po’ uno stronzo?
Quello purtroppo verrà detto ugualmente! Anche qui, prendo in prestito quello che diceva Mattia nella Linea verticale: all’inizio della serie, immagina il suo funerale e vorrebbe che, in quell’occasione, la gente ridesse e piangesse a dirotto allo stesso tempo. Che poi è come è esattamente stato il suo funerale. Ecco, anch’io vorrei la stessa cosa: in fondo, il funerale è la più grande festa di compleanno che si possa desiderare.

Prego?
Pensaci. Quando è il tuo compleanno, tutta la dopamina che ricevi è generata dal fatto che, in quelle ventiquattr’ore, ti senti il re della giornata. Gli altri ti conferiscono una grande importanza, superiore a quella assegnata alle altre persone che li circondano. Figurati quando muori! Sei importantissimo!!!

Molti artisti e autori comici si rivelano delle persone tristi e seriose nel privato. Mattia com’era?
Era la persona più affascinante, ironica, brillante che io abbia mai conosciuto. Un intrattenitore straordinario, un entusiasta, nonché un uomo ipercinetico, ingordo di vita. Non riusciva a stare fermo in termini di cose da fare, persone da conoscere, cibi da mangiare, posti da visitare…

E tu come sei?
Io sono un deficiente! (ride, nda) Rispetto a Mattia, sono come lui ma… solo per metà. Ho una parte logorroica, estroversa, filantropica, e poi l’altra esatta metà che è misantropa, noiosa, solitaria e deprimente.

Oltre a Boris 4, hai fatto Sei pezzi facili, che però di facile non hanno un tubo. O sbaglio?
A livello attoriale sono facilissimi: più un autore è bravo e più il compito dell’interprete è facilitato. Le parole ti si sciolgono praticamente in bocca. I problemi nascono quando i testi sono scritti male: è lì che devi fare i salti mortali per far quadrare la scrittura e farla apparire meno scarsa. Questo per dire che quando la scrittura è sopraffina tu, attore, puoi solo fare danni.

Non buttarti giù, dai….
Diciamo che io ho avuto una grande fortuna: la scrittura di Mattia si coniuga perfettamente con la mia “scrittura interna” di attore. È in perfetta sintonia con la mia espressività.

Le opere sono state poi rese “fruibili” per il piccolo schermo dalla regia di Sorrentino. È la volta buona che il teatro in tv venga sdoganato?
Se non succede stavolta, non accadrà più. Sei pezzi facili è un’operazione dove c’è il non plus ultra degli ingredienti che incarnano l’intrattenimento con la “i” maiuscola. Anzi, con tutte le lettere maiuscole! Se fatto come si deve, l’intrattenimento è un’arte sopraffina. Che poi era il pallino di Mattia: catturare il pubblico in maniera alta, ossia creare cose che non ti facessero semplicemente passare il tempo ma godere quelle due, tre ore insieme: partecipare a qualcosa che ti cambia e che spinge il pubblico a dire “quando ce la fate rivedere?”.

Sai cosa mi ha colpito in modo particolare? Che Sorrentino abbia fatto un passo indietro: la sua impronta si sente ma non travolge mai le vostre personalità. Come avete lavorato insieme?
Guarda, è stata un’esperienza davvero indimenticabile. Sarò sempre grato per quei venti giorni trascorsi, con Sorrentino, chiusi al Teatro Ambra Jovinelli, che è poi la “casa” di Mattia. C’era un clima di sacralità e assoluta comunione di intenti. Sorrentino si è messo letteralmente al servizio dell’opera: sono rimasto impressionato dal suo tocco di assoluta discrezione e delicatezza. Non ha mai interferito sull’aspetto recitativo, ma allo stesso tempo emanava sicurezza in un solo sguardo. Mi sono sentito investito dal suo sapere, ed è una cosa che apprezzo molto nei registi: da attore ho bisogno di riconoscere nella regia la mia guida. Se chi sta dietro la macchina da presa è autorevole, metà del lavoro è fatto.

Paolo Sorrentino è il regista dell’adattamento di ‘Sei pezzi facili’ di Mattia Torre per RaiPlay. Foto: Rai

In Gola esci di scena in piedi, trasportato su un carrello, salutando come il Papa. Com’è nata l’idea?
C’era questo carrello e a un certo punto Sorrentino ci sale sopra, mi guarda e mi chiede: “Che dici? La vòi fa’?”. All’inizio pensavo mi stesse prendendo in giro. Spesso lui suggeriva cose qua e là in aggiunta allo spettacolo, ed erano sempre trovate così inaspettate da lasciarti incredulo. Che poi è il gap intellettivo tra uno che è come lui e tu che stai con i piedi per terra. Quando poi lui rispondeva “Sì, sì, certo che dico sul serio”, allora ti rendevi conto che ovviamente era così.

A proposito di cinema, Torre odiava tutto ciò che era noioso e lungo. Perché invece noi in Italia abbiamo quest’idea che, se non è impegnato e noioso, il film non è d’autore?
È un discorso complesso. Semplificando: l’umanità è fatta a strati e ognuno di noi appartiene a una grande piramide intellettiva, culturale o sociale. Ecco, nel cinema esistono diversi tipi di sofisticazione dei prodotti, ciascuno dei quali parla a uno strato preciso di questa piramide. Ed è giusto che sia così. Se c’è l’iper-intellettuale cineasta che fa film d’autore incomprensibili che li capiscono solo in dieci persone, quelle cose sono funzionali a lui e a quelle persone. Ed è giusto che quella nicchia goda di quel prodotto: si capiranno tra loro dieci, ok, ma va bene così. Poi ci sono i grandi geni, come Chaplin, che riuscivano a fare coincidere tutti i livelli in un’opera sola.

Detto questo, però, le sale cinematografiche sono vuote…
Sì, peraltro lo erano già prima della pandemia. Perché c’è un problema alla base di tutto. Al di là della categoria dove ti collochi, bisognerebbe sempre chiedersi se quello che si sta facendo è buono. È qualitativamente valido? Soddisfi la tua fascia di riferimento? Il punto è tutto qui: se non soddisfi nemmeno il tuo pubblico di riferimento, abbiamo un problema.

Veniamo a te. Tu sei un caratterista molto connotato: è un bene o un male?
Sono indubbiamente “molto maschera”, nel senso che ho un volto fortemente caratteristico. Questo vuol dire che non ho moltissime carte da giocarmi. Pensa che, quando ancora studiavo recitazione, provai a cercarmi un agente e mi sentii dire: “Figlio mio, tu c’hai una faccia troppo difficile!”. Questa osservazione mi pietrificò: “Ecco, vedi: nun se pò fa’! Ma ‘ndo vado io?”, pensai. Quindi continuai la scuola di recitazione ma come si può frequentare un corso di tango: tanto per. Ci ho messo anni prima di prendere in considerazione di trasformarlo in un lavoro.

Quando hai capito, invece, che si poteva fare?
Mah… ci ho messo decenni. Conta che ho iniziato la scuola di recitazione nel ’91, e solo intorno ai primi anni 2000 ho detto: forse sì, se pò fa’. Comunque il dubbio regna sempre sovrano, è cambiata semplicemente la domanda. Ora è: cosa posso fare e cosa no? In generale, cerco sempre di essere molto lucido: mi chiedo puntualmente se io sia davvero giusto per quel ruolo, se un altro non lo farebbe meglio, se sono capace…

Sei quindi l’unico attore con i piedi per terra?
Questo lo dici tu. Non io. Semplicemente cerco di coltivare un’opinabilità di – e su – me stesso.

Negli ultimi tempi sei una presenza ricorrente a Propaganda Live: hai iniziato con i testi di Mattia per poi proseguire con quelli di Makkox. Sbaglio o la stand-up comedy ti diverte parecchio?
Molto! Ecco, attorialmente esistono diverse discipline: quella del monologo o dello stand-up è per me la più congeniale. Forse è lì che risiede il mio specifico attoriale.