Un’altra imperdibile chiacchierata con Enrico Vanzina | Rolling Stone Italia
Interviste

Un’altra imperdibile chiacchierata con Enrico Vanzina

La scusa è il suo ultimo film ‘Tre sorelle’, appena arrivato su Prime Video. Ma si parla, come sempre, di tutto: Čechov e Tolstoj, e le donne, il cinema, il tempo, Instagram. Rolling lancia una petizione per Vanzina influencer

Un’altra imperdibile chiacchierata con Enrico Vanzina

Un ritratto di Enrico Vanzina

Foto press

Con Enrico Vanzina ormai c’è questa tradizione che ci si sente quando esce una cosa delle sue (tante), e anche fuori pista, perché è sempre una gioia. E niente, c’eravamo lasciati alle precedenti sortite pandemiche – Sotto il sole di Riccione, che ha scritto; Lockdown all’italiana, che ha diretto – e siamo ancora qua, «in questo tempo sospeso», attacca subito dal suo ufficio ai Parioli. «Poi io che c’ho una certa età vivo questa situazione ancora più drammaticamente. Dicono che rubano il futuro ai giovani, ma a me lo stanno rubando proprio definitivamente. Quando arrivi a una certa età vedi il traguardo, prima non lo scorgi neanche. E siccome il traguardo si avvicina, uno si dice: le tante cose che avrei voluto fare in questi due anni non le ho fatte. E io ne ho fatte tante perché mi sono dato da fare, ma con un grande sforzo su me stesso. Vedo altri che invece si sono lasciati un po’ andare, che hanno veramente perso due anni di vita».

Vanzina lavora tantissimo, e il lavoro è la cosa che lo tiene vivo, un po’ come Woody Allen. Ride: «Ma è una specie di riflesso automatico. Faccio un tipo di lavoro per cui, come diceva Conrad, “non riesco a spiegare a mia moglie che anche quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando”. Perciò lavorare non è mai stato un problema. Dentro questo tempo sospeso mi sono riappropriato di tante letture, i film meno perché non sono uno che s’incolla davanti alla televisione. Ho approfondito tante cose che avevo lasciato in sospeso, ho scritto un libro che uscirà tra poco, ho fatto due film, insomma ne ho fatte di cose…».

L’ultima è Tre sorelle, commedia balneare (che esce a gennaio: cos’è il genio) disponibile su Prime Video con ovvia citazione čechoviana nel titolo e un impianto da pochade classica. Le sorelle (sorellastre) sono Serena Autieri, Giulia Bevilacqua e Chiara Francini, rispettivamente cornuta, cornificatrice e zitella. Si ritrovano in una villozza del Circeo per le vacanze con masseuse (Rocío Muñoz Morales) al seguito, finiranno per far fronte comune contro uomini che sono variamente coglioni (il favoloso scrittore di Fabio Troiano), mitomani, omo, deboli, fuggiaschi, bambini, c’è di tutto.

Rocío Muñoz Morales, Giulia Bevilacqua e Serena Autieri. Foto: Amazon Studios

Pochi minuti di film e si sente citare prima l’atteso Čechov, poi anche Tolstoj: mica tutti fanno commedie popolari così. L’ispirazione sta in quella riappropriazione dei libri avvenuta in questo tempo sospeso?
In realtà la sceneggiatura l’ho scritta prima che cominciasse il Covid, e il soggetto l’anno prima ancora. Era un film che dovevo fare per il cinema, e che poi ho molto modificato. Perché il tempo, appunto, è cambiato, e io volevo fare un film sui sentimenti, e ho pensato che quello che manca di più adesso sono proprio i sentimenti. Il pubblico che oggi sente parlare di sentimenti riscopre delle cose che magari si è dimenticato.

Lo sai che diranno: Vanzina ha fatto un film femminista. Non so, è un azzardo, ma certo tutti gli uomini in campo fanno una figura barbina.
Non ho assolutamente voluto fare un film femminista: perché sono un uomo, e perché non entro in una logica che era il grande pericolo di questo film. Ho fatto un film sincero. Con Verdone lo dico sempre: siamo due che hanno inseguito e pedinato gli altri per guardarli e poi portarli sullo schermo, ma sempre con affetto. E io, nel corso della mia vita, ho guardato moltissimo le donne, per moltissime ragioni. Le ho guardate perché mi piacciono, perché me ne sono innamorato, e certe volte ci ho litigato, certe volte le ho disprezzate, certe volte le ho ascoltate, certe volte mi sono fatto ascoltare da loro. Ho una consuetudine forte con le donne. Mi sembrava interessante fare un film non femminista nel senso di bandiera, ma un film femminile in cui non fare sconti, perché le donne hanno anche tante fragilità, spesso sono le peggiori nemiche di loro stesse, specialmente tra amiche o tra sorelle. Volevo raccontare tutto questo però con un senso dell’umorismo che solo loro hanno, e che le aiuta moltissimo. Spesso noi uomini pensiamo che le donne abbiano meno umorismo di noi, il che è una stupidaggine terribile. Le donne ce l’hanno eccome, e hanno questa cosa che ho messo nelle parole della canzone che canta Annalisa Minetti alla fine: se riescono ad arrivare al punto in cui vogliono bene a loro stesse, a dire “sto bene io con me”, allora diventano fortissime, quasi imbattibili. Perché hanno quel senso di amore per la vita superiore a noi uomini.

I pedinamenti stavolta dove ti hanno portato?
Il pedinamento è una cosa che ho dentro, è un bagaglio che mi porto da tutta la vita. Certo ho una parte femminile fortissima dentro di me, pur considerandomi totalmente uomo da un punto di vista genetico. Ho un lato femminile che certe volte mi ha reso fragile, certe volte mi ha impaurito, certe volte invece mi ha entusiasmato. E che ora ho ascoltato. È questo che mi rende molto facile il rapporto con le donne, il dialogo con loro.

Chiara Francini in ‘Tre sorelle’. Foto: Amazon Studios

Nel film c’è la letteratura, ma anche tantissimo cinema. Chiara Francini, strepitosa, è una costumista che cita i fenicotteri di Sorrentino e i cerchietti della Archibugi. Si prendono in giro i cinepanettoni, ma Giulia Bevilacqua rivendica la superiorità della commedia popolare. C’è insomma questo gusto di omaggiare e insieme sbertucciare un certo nostro cinema.
Ma non è tanto sbertucciare. Allora, la prendo larga ma poi arrivo a quello che dici. Io potevo fare il regista quarant’anni fa, me l’hanno chiesto tante volte e non l’ho mai voluto fare perché ho sempre pensato che la scrittura è la cosa centrale di un film. Spesso i registi vogliono dimostrare che sono più bravi di certe sceneggiature, io in questo caso ho fatto quello che secondo me va fatto quando un film è molto scritto, e questo lo è, è addirittura quasi teatrale. Ho cercato di fare il guardiano della sceneggiatura, tutto quello che ho messo dentro è pensato di conseguenza. E poi però sì, c’è il tema del cinema, e torno a quello che dicevi tu. Lo sanno tutti, io sono nato e cresciuto in una famiglia di cinema, ho frequentato per tutta la vita persone che fanno il cinema – anche troppo, secondo me. Fin da quando ero piccolo, ho capito una cosa, l’ho capita a casa mia dove venivano tutti – e noi andavamo a casa di tutti. Ho capito che tra cinema d’autore e cinema popolare non c’è assolutamente nessuna differenza. Anzi: che il cinema d’autore è molto bello quando è popolare, non a caso La dolce vita è ancora il più grande incasso del cinema italiano. Una volta i grandi film d’autore erano molto popolari, adesso il cinema d’autore si è confinato in un territorio leggermente diverso. E il cinema popolare è bello quando c’è dentro il punto di vista di qualcuno che ne è l’autore.

Oggi ti senti più riconosciuto come autore? O non ci pensi, dopotutto sei Vanzina, che ti frega.
Il giudizio degli altri fa parte del gioco, lo so dall’inizio. Papà (il regista Steno, nda) faceva i film di Totò e dicevano che Guardie e ladri era un filmetto, poi però vinceva a Cannes. La commedia in questo Paese non ha mai goduto di haute cote, come dicono i francesi. E sono stati proprio i francesi a stabilire che la commedia italiana era una cosa importantissima. Io, te l’ho già detto, mi sento veramente pop. Il mio difetto maggiore, che poi è la mia forza, è la superficialità. Faccio veramente tante cose. Faccio il giornalista, lo scrittore di cinema, il regista, suono il pianoforte, faccio le fotografie, scrivo i libri. Però tutto sempre con lo stesso spirito. Se mi dicono bene o male mi può far piacere o dispiacere, chi si misura col popolare lo mette in conto.

Ora sei anche instagrammer. E sul tuo profilo ci sei tu che suoni il piano, appunto, ma è anche una specie di album dei ricordi, tuo fratello Carlo, i vecchi film…
Su Instagram ci sono da pochissimo. Ho resistito per anni, non sto su Facebook, non twitto. Poi adesso, per ragioni vagamente professionali, ho cercato di capire. Però resto molto defilato, hai visto? Non faccio la caccia ai 150mila follower, che sono facilissimi da avere. E siccome non lo so usare, rispondo a quasi tutti, per cui la mia vita è diventata un inferno. Mi mandano dei pacchi di orecchiette dalla Puglia, e i parrucchieri mi mandano degli shampoo, e qualcuno mi scrive “Voglio fare la comparsa”, e un’altra dice che è una grande attrice, e uno vuole pubblicare un libro… Mi sono rovinato la vita da solo. Adesso mi tocca prendere qualcuno che mi segua il profilo, perché voglio essere gentile. Anche se ho sempre fatto il cinema popolare e quindi lo so, mi sembra comunque incredibile che ci siano persone che ti seguono, che ti vogliono bene, questo mi emoziona e non resisto, devo rispondere.

Tra tutte le cose, l’influencer di shampoo non la escluderei: chi meglio di te.
(Ride) Eccerto! Va bene, ci penso. Ma non diventerò un malato di social, promesso.

 

 
 
 
 
 
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Sei però malato di contemporaneità, ne parlavamo anche ai tempi di Sotto il sole di Riccione, uscito direttamente su Netflix.
Quello sì, è vero. Mi ricorderò sempre quando nel ’56 a casa mia – io ero piccolissimo – arrivò la crisi del cinema perché era esplosa la televisione. Mio padre era avvilito, poi invece il cinema si è ripreso. Un giorno di molti anni dopo – io ero diventato grande – parlavamo con mio padre e lui mi disse: “Non bisogna mai andare contro la tecnologia. Non c’è niente da fare, bisogna adattarsi”. E io ho visto subito l’arrivo delle piattaforme come una grande opportunità. Certo bisogna prendere le distanze dal punto di vista creativo, non devi mai pensare che sei diventato globale anche tu, non devi immaginarti un pubblico seduto a casa che è globale. Devi pensare che stai comunque facendo un film per la sala, devi farlo esattamente con la stessa libertà, perché la cosa più bella del cinema è che si è liberi.

Ultima cosa. Allora chi vince, chi ha ragione: Čechov o Tolstoj?
Tra i due non saprei chi buttare dalla torre, mi butterei io naturalmente. Čechov non è stato solo un grande commediografo, ha scritto dei racconti meravigliosi, ma Guerra e pace di Tolstoj è il vero grande romanzo di formazione, il vero grande romanzo classico. Credo che il senso di questo film stia nella frase che Luca Ward dice alla fine: “La calma è una vigliaccheria dell’anima”. Che è una frase straordinaria, ed è di Tolstoj. E io lo penso veramente, penso che veramente le vite vengono sprecate quando si rimane calmi ad accettare o a guardare. Poi non so, magari mi sbaglio.

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