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Un regista esordiente italiano ha girato uno degli horror americani più apprezzati dell’anno

Lui si chiama Edoardo Vitaletti, nato in Brianza e formatosi alla NY University. Il film è ‘The Last Thing Mary Saw’, che in tanti hanno paragonato alle visioni di Robert Eggers. Questa è la prima intervista a un giornale italiano di un giovane autore da tenere d’occhio

Foto press

Si può uscire dalla retorica dell’inevitabile titolo (pure il nostro) “regista esordiente italiano firma uno degli horror americani più apprezzati dell’anno”? Sì, se dall’altra parte c’è un ragazzo sveglio, dreamer a inizio carriera ma insieme molto realista, pronto a quello che accade (e a interpretarlo nella maniera giusta). Lui si chiama Edoardo Vitaletti, ha 26 anni, è un brianzolo di Monza con studi da filmmaker alla New York University; il suo primo film è The Last Thing Mary Saw, ottime recensioni in patria (la produzione è USA), inevitabili paragoni con opere di maestri del genere come M. Night Shyamalan e, in particolare, il Robert Eggers di The VVitch. È, difatti, la storia di una ragazza indagata, nell’America dell’800, per una morte che pare nascondere qualcosa di occulto. La ragazza è una strega? O è diversa perché diversi (si permetta l’aggettivo) sono i suoi sentimenti, perché non è conforme alla norma identitaria e sessuale? Il film ha un bel giovane cast (le brave Stefanie Scott e Isabelle Fuhrman e il più noto, non solo per ragioni onomastiche, Rory Culkin), un’ottima regia, bella tensione, per ora non ancora una distribuzione da noi.

Però è uscito, negli Stati Uniti, direttamente in streaming. Mi chiedo cosa voglia dire, per un regista esordiente, debuttare con un film che piace pressoché a tutti, ma che non si può vedere al cinema.
La genesi del film ha radici lontane, lo stavo preparando già mentre completavo gli studi, e poi l’ho girato nel dicembre del 2019, quindi un attimo prima che cominciasse il disastro del Covid. E quindi c’era tanta adrenalina, le aspettative erano molto alte. Il Covid ha un po’ spento quell’entusiasmo, dopotutto questo business è fatto anche di incontri, bisogna conoscere la gente, parlarsi. È stata una doccia fredda, ma, tra le persone simili a me, mi ritengo una di quelle fortunate. Uscire direttamente su una piattaforma di streaming fa sì che molta più gente ti guardi.

Edoardo Vitaletti sul set di ‘The Last Thing Mary Saw’. Foto press

Per un giovane regista oggi è dunque normale pensare allo streaming come destinazione del proprio lavoro.
C’è un enorme vantaggio, indubbiamente. E poi c’è naturalmente la parte emotiva, quella per cui mi sarebbe piaciuto comprare il biglietto per andare a vedere il mio film al cinema. Ma diciamo che la discussione si ferma un po’ lì. Lo streaming ha democratizzato moltissimo la fruizione di film e contenuti. Qui a New York un biglietto del cinema può costare anche 20 dollari, perciò, oltre al discorso della comodità, c’è ormai anche quello su chi può permettersi certi prezzi, su chi può realmente vedere un film. Se lo vedono solo quelli che vivono a Manhattan o a Los Angeles, be’, è una bolla che non ha molto valore. L’esperienza della sala è piacevole, ma il punto per un emergente è farsi conoscere, essere visto, e in questo momento la sala purtroppo non lo consente. Sono sicuro che prima o poi l’esperienza di portare un film mio in sala la farò, ma ora come ora non la invidio. Per me che entro adesso in questa industria, dire che i film “veri” escono solo al cinema lascia un po’ il tempo che trova. I film, ripeto, devono essere visti.

Mi racconti la tua storia, al di là di quella retorica cui accennavo?
Sono nato a cresciuto a Monza, in Brianza, e non sono di quelli – e nel mio gruppo a scuola ne ho conosciuti tanti – che dicono: “La prima cosa che ho preso in mano da piccolo è stata una videocamera”. Il mio desiderio di fare cinema non nasce da lontano, è arrivato verso la fine della scuola superiore. Lì ho iniziato a pensare che potevo esprimere i miei pensieri e “scriverli” attraverso il linguaggio cinematografico. Tra i 17 e i 19 anni ho pianificato, insieme alla mia famiglia, l’idea di andare a studiare cinema, e l’opzione praticamente da subito è stata quella di non rimanere in Italia. Ho fatto l’application alla New York University e mi hanno preso. E lì sono stati, insieme, salti di gioia e un tonfo nello stomaco, perché questa romanticizzazione dell’andare all’estero è diventata un: “Cazzo, fra pochi mesi dovrò prendere un aereo con un biglietto di sola andata”.

Possiamo anche rivedere la retorica di quel “le scuole di cinema americane sono le migliori del mondo”, oppure non è affatto una retorica?
Dopo aver fatto la mia, mi piace pensare che sì, c’è una certa retorica. Non penso che quello che ho fatto io a New York abbia più valore a livello educativo di quello che uno potrebbe fare al Centro Sperimentale o alla Civica di Milano, o in Francia, o in Nord Europa. È più una questione di posto in cui ti trovi. Nell’ambiente newyorkese è molto più semplice trovare il tuo posto nell’industria, c’è un giro economico più grosso, è più facile addentrarsi. Sono partito pensando “Avrò un’educazione molto migliore”, ma non credo sia andata così. Ho solo trovato un ambiente più dinamico, aperto, nel quale anche uno straniero ha valore.

The Last Thing Mary Saw è una storia molto americana, e per raccontarla hai scelto un genere – l’horror – molto americano.
Il fatto interessante è che, quando parlo con gli americani, mi dicono che è un film dal gusto molto europeo, e invece gli europei che lo vedono dicono che è molto americano. La mia formazione artistica è un po’ ibrida. Dopo quattro-cinque anni passati qua, la sfida era raccontare una storia che si addentrasse in questa cultura che ho assimilato. Ma mi porto dietro il mio passato fatto dell’essere cresciuto in un posto molto religioso come l’Italia. Ho avuto una famiglia aperta, ma nella scuola pubblica c’è il crocefisso, e l’ora di religione… Con gli anni, e con l’esperienza maturata qui, ho avuto una sorta di rigetto. Quindi sì, è una storia americana, ma c’è il mio portato culturale molto italiano. Sono un ibrido che mi piace, ma che ogni tanto mi lascia perplesso: non so dove collocarmi, per ora sfrutto la ricchezza del viaggio. Di sicuro ora sono un po’ più americano, professionalmente parlando. Questa è la mia prima intervista con un giornale italiano.

Rory Culkin in una scena del film. Foto press

Il paragone con The VVitch è più lusinghiero o ingombrante?
Direi lusinghiero. Robert Eggers è un regista fenomenale, lo ammiro molto. Ma ogni paragone è complesso, e anche riduttivo: vedi un film in costume, un po’ di candele e la presenza dell’occulto e metti insieme i puntini. Io cerco di lasciarmi influenzare il giusto. In questo film, come ti dicevo, ho messo soprattutto la mia riflessione su quanto la religione condizioni noi italiani a livello culturale, sulla maniera in cui secolare e sacro diventano una cosa sola: tutte riflessioni che ho fatto dopo essermene andato. Quando ti allontani, è difficile non vedere certe contraddizioni, certe frustrazioni che hai con i princìpi dell’essere cattolico, una religione che dovrebbe essere inclusiva che passa il tempo ad escludere. La distanza ti permette di chiederti: qual è la differenza tra la spiritualità e una cultura che impone certe regole e una certa intolleranza? Questo film è il mio modo di rigettare la mia rabbia. E poi ci sono i discorsi sull’identità, il tema della queerness, che in Italia non sono mai affrontati a livello educativo. Nascere in Italia non ti aiuta a capire chi sei, ti fa continuamente pensare a quello che devi fare e che devi essere. Venendo qua – e per “qua” intendo New York, non l’America in generale – ho trovato un ambiente molto più aperto. Ho imparato tante cose, ho abbandonato certi dogmi, sono entrato in una discussione ad ampio raggio che mi fa felice. C’è un canone dentro il quale abbiamo sempre vissuto: quando devi scrivere di una relazione amorosa, sarà quasi sempre tra un uomo e una donna; se c’è un personaggio che esercita il controllo, la forza, l’intelligenza, probabilmente sarà un uomo. Adesso c’è in atto una discussione che ti fa chiedere perché questo canone sia così monolitico, e perché non possiamo invece raccontare altre storie. Mi piace pensare di poter contribuire a costruire l’industria del futuro, un sistema che sia più in grado di affrontare questi temi per quello che sono.

Non avevi in mano una videocamera, ma da ragazzino andavi al cinema?
Ci andavo né più né meno di una qualsiasi persona che non vuole fare questo mestiere. Non sono mai stato un cinefilo ossessivo. Poi, verso i 16-17 anni, ho cominciato a guardare i film con più interesse. Andavo in centro a Monza, alla Feltrinelli, e compravo i Dvd di Fellini, Scorsese, Sorrentino… E di Bergman, che ha una grande influenza sulle cose che faccio.

Si vede anche nel tuo film.
È l’influenza artistica forse più profonda, sta sempre lì, anche a livello inconscio. Bergman è uno dei registi che mi hanno più folgorato, negli anni in cui ho iniziato a pensare di poter fare cinema anch’io. Ha l’abilità di dire così tanto senza dire niente che è veramente la qualità della regia, dello scrivere bene, e lui fa entrambe le cose in una maniera che per me è scioccante.

Mi sembri però di quegli esordienti che sì, hanno dei riferimenti estetici precisi, ma vogliono restare liberi.
Vedo il mio secondo film come una cosa totalmente diversa dal primo, e sono sicuro che il terzo sarà diverso dal secondo. Trovare la tua voce non è una cosa che fai a tavolino, la scopri film dopo film. Ho fatto un horror, magari un giorno girerò una commedia. Mi piace l’idea di mantenere l’apertura, di poter fare cose anche molto diverse tra loro.

Bergman è noto per i film, diciamo così, spirituali, esistenziali, ma ha fatto di tutto, commedie, storie d’amore…
La cosa bella è scoprire che, in ogni regista, c’è una linea rossa che percorre tutta la sua carriera a prescindere dai generi che ha affrontato, dalle trame specifiche dei suoi film. Bergman ha cominciato nel teatro, poi ha girato commedie per la televisione, e poi ci ha lasciato questi grandi film come Il silenzio e Sussurri e grida, molto intensi, molto sommessi. Se devo guardare a dei modelli artistici, il suo è quello che intendo io per crescita artistica. Se fra vent’anni riusciranno a tracciare quella linea tra i film che ho fatto io, allora vorrà dire che sono cresciuto. Poi certo, avendo fatto un primo film che è un film di genere, adesso in tanti da te vogliono un altro film di genere. Ma credo che si possa comunque mantenere la propria individualità.

L’altro modello che mi viene in mente, parlando con te, è ovviamente Luca Guadagnino, molto italiano ma anche internazionale, forse apolide, comunque mai integrato – per scelta sua e miopia altrui – nel nostro sistema.
Lui è un artista con una carriera molto variegata, e perciò molto bella. Io la vedo nella stessa maniera. Come scelta di vita mi piace stare qua, ma mi piacerebbe fare un film in Italia e in italiano. Quando sono arrivato qua ho avuto per anni una certa resistenza, non volevo mai tornare a casa perché pensavo che avrei dovuto addentrarmi il più possibile in questa nuova cultura. Poi, negli anni, ho imparato a rilassarmi. Se adesso ci fosse la possibilità di girare un film in Italia o in Europa, mi piacerebbe tantissimo. Mi piacerebbe che la mia famiglia vedesse un film che ho fatto in italiano.

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