A Roma, tra il fumo delle sigarette nel posacenere, il profumo del vino nei bicchieri e il suono di pianoforte che riempiono la stanza, abbiamo ascoltato Umberto Contarello e Danilo Rea mentre parlavano di vita, di cinema e di musica come se fossero una cosa sola. Siamo nell’abitazione del jazzista, quartiere Prati, dove idealmente (ma neanche tanto) ha preso forma L’infinito, il film d’esordio alla regia, a 66 anni, dello sceneggiatore premio Oscar con La grande bellezza (nelle sale dal 15 maggio). Così, per capirci qualcosa di questa pellicola tanto magica quanto enigmatica, ci siamo immersi in un viaggio intimo e filosofico con loro alla ricerca della «melodia perfetta». Perché dietro a quella trama c’è molto di più: una speculazione profonda su cosa muove la loro e le nostre esistenze.
Il film, prodotto da Paolo Sorrentino, nasce da un incontro casuale, ma destinato a lasciare un segno: una telefonata in cui il regista dice allo sceneggiatore che, stavolta, avrebbe dovuto girarlo lui. E così, tra il racconto di un passato ricco di riconoscimenti prestigiosi e il desiderio di mettersi alla prova, Contarello si butta verso l’ignoto. Ma lo fa con un compagno di viaggio che sembra conoscerlo meglio di lui, in grado di “cantarlo” con un tema musicale che alimenta le arterie di questa storia. Mentre il pianoforte accompagna i pensieri, le sigarette si spengono nel posacenere e i bicchieri di vino si svuotano, ci hanno spiegato, divertendosi nel divagare, che la melodia per loro è la chiave di tutto e, fra le mille definizioni, la più affascinante sembra questa: «È l’eco di milioni di altre, dalle caverne a oggi, e quando la senti è come se esalasse l’ultimo respiro». Tra un messaggio vocale e un video che documentano la genesi di un’amicizia, tra aneddoti incredibili con Adriano Celentano e Gino Paoli, quella che leggerete è molto più di una semplice intervista. È un dialogo tra due artisti sensibilissimi che, pur muovendosi in mondi apparentemente diversi, condividono lo stesso amore per la bellezza suprema. Quella che sa parlare al cuore e che, in un modo o nell’altro (anche sghembo) arriva a lambire l’universale.
Umberto Contarello e Danilo Rea, com’è nato il vostro rapporto?
Umberto Contarello: Il mio sogno era, prima di tutto, diventare sassofonista. Poi lui, che mi è testimone, sa che sono l’essere umano, insieme alle begonie, più stonato della Terra.
Danilo Rea: Ti ritieni stonato, però sfatiamo un mito. Massimo Urbani, che è stato un tuo idolo come sassofonista, e probabilmente il più grande nella storia del jazz, era stonato. Non significa nulla. Se non hai il controllo della voce, non vuol dire che tu non sappia suonare.
UC: Se me l’avessi detto 35 anni fa, non ti avrei reso la vita un inferno quando ti ho conosciuto. Io ho visto evacuare il cinema di Padova quando ho suonato la quinta nota al sassofono. Tutto il mio liceo è fuggito dalle porte di sicurezza, come se fosse scoppiato un incendio. Non sono soltanto stonato, dicono che possa provocare un vero dolore fisico.
DR: È il motivo per cui non c’è più traccia di un sassofono in casa tua?
UC: Avevo il Grassi e l’ho regalato!
Quindi chi dice che con l’esercizio tutti possono essere intonati dice il falso?
UC: Chi sostiene questa tesi è un criminale!
DR: Io sostengo un’altra tesi. Abbiamo sentito Tom Waits cantare, no? La maggior parte degli interpreti più famosi, se fossero andati al Conservatorio, non li avrebbero neanche ammessi al primo corso di canto. Anzi, il difetto si può trasformare in una caratteristica unica. Chiaramente bisogna capire cosa e come puoi cantare. Se provi a farlo come Claudio Baglioni o Barbra Streisand, e vai appresso alla loro tonalità, ti sentirai l’ultima ruota del carro. Ma se qualcuno ti cuce addosso la canzone giusta, allora la puoi cantare.
Oppure, Umberto, potresti provare con l’Auto-Tune…
UC: Dici che con quello potrei farcela?
DR: Stai toccando un terreno minato. È utilissimo per i musicisti, ma va usato con cognizione di causa. In fondo Herbie Hancock usava il vocoder, che era una versione preistorica dell’Auto-Tune. Lui suonava una nota, ci parlava dentro, e la sua voce veniva filtrata e prendeva la tonalità della nota che aveva suonato. Gli aggiustava così la voce.

Umberto Contarello sul set del film. Foto: Addis Rossi
Tornando al vostro primo incontro…
DR: Scusa, ma prima sono attirato da questa meraviglia. Cos’è? (Indica col dito un gilet in lana cotta che indossa Contarello)
UC: È un buco di sigaretta. Sai, se fossi Pino Daniele ti manderei affanculo!
DR: Perché anch’io ho un maglione simile in lana cotta e si buca facilmente.
UC: Questo è noto! Infatti in Alto Adige molte persone hanno preso fuoco. La lana cotta è molto infiammabile. Adesso racconta tu come ci siamo conosciuti.
DR: Prima citavo Massimo Urbani. In pratica, prima di una serata all’Alexanderplatz Jazz Club, dove tutti i musicisti avrebbero suonato in onore di Massimo che è morto a 36 anni, c’era anche Umberto, che aveva conosciuto Urbani quando andò a prenderlo in stazione a Padova. Anch’io lo conoscevo bene, siamo stati in America insieme. A un certo punto qualcuno mi dice: “Si è aggiunto anche Contarello sul palco, un pazzo scatenato che ti vuole conoscere”. Ero al bancone del bar per i fatti miei e lui arriva come la classica spia dei film che ti offre da bere. Quando ha visto che non attaccava, mi dice questa frase: “Oh, guarda che io ho vinto un Oscar!”.
UC: La battuta precisa era questa: “Tu sei Danilo Rea, ma io ho vinto un Oscar!”
Umberto, questa frase quante volte l’hai usata per ottenere qualcosa?
UC: Milioni di volte!
DR: Io gli ho risposto qualcosa del tipo: “Uhhh, che paura…”. Poi siamo diventati amici.
UC: Ho replicato: “Adesso tu suoni e io… racconto”. Aggiunsi soltanto l’indicazione che, a un certo punto, avrei detto la parola “estate”, quindi di cercare di onorarla.
DR: È sempre molto simpatico quando dà delle indicazioni, bisogna leggere cosa c’è dietro.
UC: Io ero ubriaco e il racconto è venuto benissimo. Ho parlato dell’episodio di un Natale con Massimo Urbani con Chet Baker insieme in una casa a Padova. Alla fine Danilo ha suonato meravigliosamente bene e onorato la parola “estate”. E così sono riuscito a spiegare la storia, che è la mia ossessione, di uno che vuole assolutamente stare insieme ai musicisti per capire cosa si dicono e qual è il loro linguaggio.
E di cosa parlano i musicisti quando sono tra loro?
UC: Desideravo ardentemente imparare il gergo dei musicisti. Ovviamente era tutto fantastico, perché non parlano davvero di quello che fanno. Suonare per loro è come respirare. Io pensavo che dicessero: “Questo passaggio è A-B-A”. Oppure termini come l’inciso o lo special, volevo capire a cosa si riferissero. È stato il mio incubo per dieci anni.
DR: Pensa che io, di questo linguaggio, non ci ho mai capito niente.
UC: Lui invece lo rifiuta. Anche altri amici musicisti mi dicono: “Ma che ti frega di queste menate”. Invece io sono assetato dell’etimologia musicale. Insomma, in sintesi, volevo essere un musicista senza saper suonare.

Rea e Contarello al lavoro sulle musiche. Foto: Luigi Ceccon
Danilo, però a questo punto va raccontato anche cos’è successo sul palco quel giorno.
DR: Giusto, perché accettai di fare quella cosa insieme per un unico motivo: mi ricordò Massimo in due parole, ricordandomi di quando si presentò in maglietta a maniche corte alla stazione di Mestre senza nient’altro che la custodia del sassofono.
UC: Era il 24 di dicembre e sulla maglietta c’era la scritta “estate”.
DR: A quel punto la situazione diventò talmente familiare che non riuscii più a rifiutare. Tra l’altro fece un racconto straordinario, raccontando questo episodio che fu molto commovente. Tanto che i presenti, alla fine, ci dissero che fu il momento più emozionante della serata.
Per tornare al film L’infinito, questo tra voi è un turning point?
UC: Più che il nostro incontro, se vuoi, per me un turning point, che corrisponde a uno dei miei massimi momenti di gioia, corrisponde a questo frammento video di quella serata. Che adesso ti faccio vedere. Non eravamo sobri, ma non pensare che siamo due alcolizzati.
Contarello sguaina lo smartphone, con lo schermo completamente crepato, e fa partire un video che, anche per le condizioni del cellulare, non restituisce le vibrazioni di quei momenti. L’unica cosa percepibile è che i musicisti stanno intonando Innamorati a Milano.
UC: Lo ossessionavo con questo brano: avete suonato ogni canzone italiana possibile e immaginabile, perché non entra negli standard un capolavoro del genere e voi lo snobbate? Vedi, a un certo punto, come sognavo, Danilo mi ha fatto il cenno di salire sul palco.
Torniamo a osservare lo schermo crepato di Contarello mentre è la voce narrante sulle note di Innamorati a Milano, solo che dal cellulare la qualità non soddisfa Rea, che propone di collegare lo smartphone a un maestoso impianto stereo che troneggia nel salotto. Una volta trovato il cavo giusto, tra gli improperi di Contarello, possiamo finalmente godercelo.
UC: Guarda in che stato ero io, e con dietro tre colossi della musica. In questi casi si vede che merda umana che sono. Fa anche ridere, però si nota il mio atteggiamento del cazzo.
DR: Tieni così tanto a questa cosa che mi fai tenerezza…
UC: Sei tu ad aver offerto un salto qualitativo con lo stereo. Io, che notoriamente sono modesto, mi accontentavo del telefonino.
Mentre vediamo l’esibizione, però, Contarello ci fa anche la telecronaca.
UC: Sentilo, sentilo (riferito a Rea). Mi strappa il cuore per come suona.
Dopo un momento del genere, potremmo anche chiudere qui l’intervista.
DR: Il problema è sempre toglierglielo il microfono, a Umberto.
UC: La verità è che chi ride delle stesse cose ha un mondo comune. Noi due abbiamo delle comunanze. Una è il non prendersi troppo sul serio e, appena possibile, ridere di tutto. L’altra è questo struggente amore per la melodia e le canzoni. Ma soprattutto per la melodia.
Perché proprio la melodia?
UC: L’ho capito durante il periodo del Covid, che ero su un’isola con mio figlio. E mi ero messo in testa di scrivere delle canzoni e le mandavo a Danilo per messaggio. Io, che non so niente a livello tecnico, spedivo dei pensierini e lui mi rispondeva con dei temi melodici. Me la cantava anche come provino. Una volta finito il periodo Covid, come uno da TSO, cioè da vero spostato di mente, ho trovato i numeri di vari cantanti famosi e gli ho proposto di cantarle. Solo che poi alcune non mi è piaciuto come le hanno cantate, e gliel’ho detto.
DR: A quel punto l’ho fermato, perché mi stava facendo litigare con tutta la scena musicale.
Mi sembra di capire che il progetto è sfumato.
UC: Ma sì, li chiamavo e dicevo: “Ciao, io non sono nessuno, però…”
DR: Gli avrai detto che sei un premio Oscar…
UC: Sì, certo, mi atteggiavo come se io fossi Cole Porter e tu Johnny Hodges. “Ciao, io e Danilo Rea abbiamo scritto quattro cosette, se le vuoi sentire te le mando”.
DR: Ma tu avevi già scritto un brano che aveva cantato un grande cantante italiano, no?
UC: Ah cavolo, che ricordi!
Questa è una parentesi che non potete non aprire.
UC: Io ho fatto l’autore, per motivi ancora misteriosi, del Fantastico del 1987 di Adriano Celentano. Lo ricordo come fosse ieri, prima di andare in scena in un inferno disumano, perché Celentano non aveva una scaletta e il Teatro delle Vittorie all’epoca era coordinato da quella che sembrava una squadra di Marines, perché bisognava provare tutto prima della diretta: ho assistito a cose assurde, come gente che vomitava dall’ansia. Il motivo principale era che Adriano non sfornava la scaletta fino all’ultimo giorno. A parte questo, l’altro autore era Giorgio Calabrese, un grandissimo. E capita che, gli ultimi giorni, Adriano chiama Giorgio e gli dice: “Non mi piace la sigla finale, bisogna farne una nuova”. Ecco dove mi ha assalito la malìa della canzone. Calabrese, a me che avevo 24 anni ed ero al massimo la mascotte del gruppo, mi dice: “Umberto, butta giù una roba che poi la mandiamo a Celentano”. Ma cosa? “Basta che ci sia dentro ‘sabato sera’”. Così ci ho provato.
E come è andata?
UC: Calabrese ha letto il foglietto, fatto due segni, e esclamato: “Dài, andiamo”. Dove? “A farla sentire ad Adriano all’Hilton”. Abbiamo preso il taxi, siamo saliti nel suo albergo, e io nel tragitto sentivo il cuore che quasi mi si fermava. Mi sono ritrovato nella sua suite, con degli enormi finestroni panoramici su Roma e un cielo grigio calante e di fronte a un enorme pianoforte Steinway. Prima che arrivasse Adriano, Calabrese puntualizzò: “Tu che non sei iscritto alla Siae, sai che non prenderai una lira, vero?”. E io: “Ma figurati, scherzi?”. Eppure, mi ripeteva che quel testo non era male. Arriva Celentano, con gli occhiali, prende in mano il foglietto, Calabrese al piano accenna quattro accordi e Adriano comincia a cantare.
E tu?
UC: Ero rannicchiato in un angolo e allibito vedevo Celentano con in mano il foglietto sul quale avevo scritto quel testo un po’ scarabocchiato, ed era come se mi trovassi di fronte a Frank Sinatra. La naturalezza fra Calabrese che accennava la melodia e Adriano che la cantava per la prima volta, come se fosse stato tutto ovvio, era veramente sbalorditiva.

Umberto Contarello con Carolina Sala in una scena del film. Foto: PiperFilm
Per la cronaca, stai parlando della canzone È ancora sabato. Oltre a essere tra le canzoni della colonna sonora di Fantastico ’87, è compresa nel disco La pubblica ottusità.
UC: Poi Calabrese ci ha messo mano, ha spostato qui, aggiunto là, però era rimasto colpito dall’idea del testo, cioè che si basava sul concetto di promiscuità, che allora era innovativo.
Rea, che intanto ha ripreso possesso dello stereo in salotto, fa partire la canzone.
UC: Ho scritto quei versi ispirato da una mia relazione dell’epoca, che era un gran rottura di coglioni.
DR: Si sente, hai scritto: “Prova a tirarti su, prova ad uscire un po’”. Praticamente invitavi a spegnere la Tv e a non seguire Fantastico. Probabilmente questo è piaciuto a Celentano.
UC: Da lì è nata la mania della melodia nelle canzoni. Che è aumentata da quando ho incontrato Danilo, che è melodia assoluta e ne ha fatto quasi una religione, come me. Non sono molte le persone che sentono la melodia come se fosse il canto delle sirene. In ogni musica, in ogni racconto o poesia, a me l’unica cosa che arriva è se c’è o non c’è la melodia. E se è bella.
Più che una mania, una vera e propria ossessione.
UC: Sì, che mi porta alla ricerca della melodia, non perfetta, ma che ti può emozionare di più.
Ma che cos’è che rende bella una melodia?
UC: È il veicolo che accarezza l’anima e non te la infilza. Una carezza di seta. E come Danilo Rea non c’è nessun altro al mondo che riesce a raggiungere questo risultato.
Danilo, un complimento così da un premio Oscar è da incorniciare.
DR: Fa parte del personaggio.
UC: Ognuno ha il suo repertorio.
Arrivati fino a qui, come si torna al film?
UC: Ecco, quando mi è capitata l’occasione del film gli ho detto: vorrei che fosse intimo, fragile e soprattutto ingenuo. E Danilo mi ha risposto: “Ci vuole pochissima musica”. Ma ha aggiunto anche che era necessario partire da un tema.
E poi?
UC: Per qualche giorno non si è fatto sentire. Poi, senza anticiparmi nulla, mi arriva sul telefonino il tema che ha realizzato.
E lo fa partire sullo stereo, ora perfettamente collegato al suo cellulare.
DR: Io ho pensato a te. Alla tua fragilità.
UC: Ogni volta che lo sento è come un balsamo spalmato su un corpo dolente.
Tu, Umberto, come hai risposto al messaggio con questo tema musicale?
UC: Ti faccio sentire il vocale. E non ero ubriaco!
Parte, nel solito stereo, la risposta a Danilo Rea da parte di Umberto Contarello, che urla: “Sei un maledetto assassino. Lama della mia anima. Nota del mio cuore. Un essere spregevole. Mi devasti sempre. Come fai, tu, a cantare me? Che tu sia stramaledetto. Ho appena finito una riunione per il film e… mamma mia. Facciamo una roba meravigliosa!”.
UC: Questo tema mi ha aperto la testa dai pensieri nebulosi iniziali. Il protagonista è come se fosse un bambino, un orfano che ha perso un sacco di cose, anche per colpa sua, che non si sa bene dove si trova e dove vuole andare, ma che, non sai perché, alla fine gli auguri che le cose vadano bene. Il tema era una consolazione, come una ninna nanna che gli risuonava dentro da quando era piccolo. E non a caso è nata anche la scena con la suora, nel film.
Tu e Paolo Sorrentino, con le suore, avete un certo rapporto.
UC: Sì, perché è facile con la melodia essere retorici. La melodia bella è quella ingenua, ma nello stesso tempo ineluttabile. Che, in qualche modo, non ti terremota. Ti fa sentire al tuo posto nonostante le emozioni. Che, traslato, è la stessa relazione che instaurano le suore.
In che senso?
UC: Non accorciano mai una distanza, mentalmente cantano sempre. Quando rivolgono la parola, lo fanno nello stesso modo accogliente con tutti. Mantenendo questa distanza, mantengono l’assoluta eleganza. Così la melodia elegante, non è quella che accorcia la distanza, perché altrimenti diventerebbe enfatica e triviale, ma rimane un canto di suora.
Uno specchio nel quale riflettersi.
UC: Ma certo, infatti poi ho scritto il copione in una settimana, dopo aver sentito il suo tema. E, dopo quel messaggio vocale, ho aggiunto un altro messaggio: “Questo è il film”.

Umberto Contarello sul set con Paolo Sorrentino. Foto: Addis Rossi
Effettivamente, dopo questo racconto, benché frammentato, tutto magicamente torna.
UC: Perché io e Danilo ci passiamo un lazo. Io voglio sapere da lui le definizioni musicali, come lo special, che mi ha fatto sentire qualche volta, ma non me l’ha mai spiegato.
DR: Che cos’è lo special? Esponi un pensiero, aggiungi un’elucubrazione sopra il pensiero espresso, e ottieni lo special. Almeno per me. Ma è soggettivo.
UC: Me ne sono accorto lavorando insieme a lui, come da quando ho cominciato a scrivere con Paolo [Sorrentino], con il quale non abbiamo mai discusso di strutture o di atti, non per snobberia ma perché a noi prima di tutto interessava realizzare una melodia. Come il canto delle sirene, come fai ad analizzarlo?
DR: Una bella melodia può essere di due note come di mille.
UC: Infatti ci sono le musiche che hanno una predominanza melodica, come anche i film. Non armonica, cioè strutturale. Allora, non avendo mai capito questa cosa dei tre atti, ho pensato: ecco che cosa faccio io, scrivo in una libertà controllata per preservare una melodia.
DR: Infatti il tuo film è una melodia.
UC: Dai primi film di John Ford a Licorice Pizza, passando per generi diversissimi, ti posso dire per ognuno quelli che avevano una melodia e quelli che non ce l’avevano.
Devo ammettere che questo tuo amore per la musica e per i musicisti è commovente.
UC: A me, un musicista, mette più in soggezione di un cardiochirurgo.
Toccando l’anima, toccano qualcosa di delicatissimo.
UC: Una volta gli è uscita di bocca questa cosa e ho pensato che fosse meravigliosamente perfetta. Loro, i musicisti, per dire che un tema è bello, non dicono “è bello”. Avendone sentite e suonate migliaia, dicono: “Cammina”. La melodia cammina, per dire che è bella.
DR: Pino Daniele diceva: “Gira”.
UC: Qualcosa di stupendo, perché non ha a che fare con niente di concreto. Ma contiene una dinamica. Nel senso che passa da te a te. Non funziona perché serve. E quando qualcosa ti arriva all’anima, infatti, non ne parli. Semmai piangi. Così, invece di badare all’architettura di una storia, io da anni scrivo il canto. Come se mi dessero uno spartito con le armonie, di cui non me ne frega niente, e io ci cantassi sopra. Per me un copione o canta o non canta, non c’è altro metro di giudizio. Licorice Pizza è uno degli ultimi film che cantano.
Provo ad andare oltre. Da dove arriva, secondo voi, la melodia?
UC: La bella melodia, da qualsiasi lato tu la senti, è sempre nostalgica. Ti richiama qualcosa di passato. Non esiste una melodia che ti richiama il futuro. E quello che mi stupisce costantemente di Danilo è che è in grado di compiere un ossimoro. La sua vera perla, che ha solo una tipologia di immensi, è che riesce a essere contemporaneamente estemporaneo, come me che conosco soltanto il qui e ora, e improvvisare una melodia che vuol dire essere in ascolto del sentimento di quel momento ed estrarne la spremuta.
DR: In questo caso è stato più semplice, perché nel film L’infinito eri sceneggiatore, regista, protagonista, ed è chiamata in causa la tua vita. Quindi, conoscendoti, ho cercato di raffigurarti attraverso una melodia, ma pensando solo a te. Per me rappresenti quella melodia. Mi è capitato qualcosa di simile con Gino Paoli.
Non vorrete farmi andare via senza conoscere questo aneddoto?
DR: Un giorno, a ogni membro della band, chiese di scrivere una melodia, e lui ci avrebbe aggiunto sopra il testo dedicato a chi l’aveva composta. Quando leggemmo i testi che aveva realizzato per noi, qualcuno rimase deluso. Io no, mi piacque molto. Ma altri invece rimasero male. E lui gli rispose: “Se io scrivo un testo per una canzone che non ho scritto io, devo pensare di essere te”. In un certo senso, era l’idea del musicista stesso attraverso il testo.
UC: Per questo adoro Gino Paoli!
DR: Chiaramente ognuno di noi avrebbe voluto un testo dedicato “alla Gino Paoli”. Invece scrisse quello che Paoli, immedesimandosi nel musicista, avrebbe potuto scrivere.
UC: Questa storia è quasi una parabola. Perché chi aveva scritto la musica gli chiedeva una porcheria. Volevano Il cielo in una stanza dedicata a loro. Invece lui sembra avergli detto: la materia sulla quale devo inventare sei tu, non posso appiccicarci quello che sono io. Con l’onestà, chiaramente, di chi se lo può permettere.
Anche perché Gino Paoli, da pittore prima ancora che musicista, non avrebbe potuto dipingere un ritratto migliorando il soggetto, altrimenti sarebbe stato un mero copista.
UC: Esatto! Avevo scritto tre scene dell’Infinito prima di sentire il tema di Danilo, ma poi sono uscito in corridoio, ho ascoltato quello che mi ha mandato e mi sono messo a piangere. Senza consapevolezza ho percepito che, incredibilmente, mi stava cantando.
Dopo tanto filosofeggiare arriva il momento di una pausa, e Contarello, da buon veneto, chiede a Rea se ha qualcosa da bere. Rigorosamente vino bianco. E lo accompagna con una sigaretta, ma è sul posacenere che si riaccende la sintonia celestiale fra i due. In particolare quando Rea esclama: «Non quello, gliene ho comprato uno apposta». E gli porta un enorme portacenere in vetro, di quelli tipici del secolo scorso, spessissimi e indistruttibili.
UC: Questo è il portacenere! Pensare di non portarmene uno qualsiasi, ma uno del genere, è come il tema musicale dove mi hai cantato. Una forma di intimità estrema. Infatti a me fa ridere chi dice di essere omosessuale: l’omosessualità non è sessuale, è condividere la grazia.
Manca solo un sì ufficiale in un matrimonio tra voi.
UC: Ma noi siamo già sposati, infatti Giulia (Venturi, la moglie, nda) è l’amante.
Finita la pausa, e personalmente mi ero convinto anche l’intervista, la coppia si sposta al pianoforte nella stanza accanto. Così, senza neanche chiederlo, mi ritrovo nel bel mezzo di una lezione applicata in musica delle filosofie che Contarello e Rea hanno appena enunciato.
UC: Sentilo suonare (dice rivolgendosi a me), come la melodia meravigliosa è qualcosa che è sempre estemporanea e, nello stesso tempo, contiene qualcosa che hai sempre sentito, ma non sai dire che cos’è. Quindi è un’eco. Cioè, la melodia struggente è l’eco di milioni di altre melodie, dalle caverne a oggi, e quando la senti è come se esalasse l’ultimo respiro.
DR: Quando facevo lezione al Conservatorio, dicevo agli studenti: potete complicare le cose quanto volete, ma la melodia viene da lontano. Per quanti accordi e armonie possiate studiare, non potrete mai considerare semplice la melodia di Let It Be dei Beatles. Ha quattro accordi ed è costruita su una scala di Do maggiore, quindi facilissima da replicare. Hanno costruito una melodia incredibile su una struttura così semplice. Com’è stato possibile che dalla scala di Do maggiore, dopo centinaia di anni, possano venire ancora fuori cose belle? Perché dietro quella melodia c’è qualcosa di Elvis Presley, del canto gregoriano o dei bardi celtici.
UC: Mi hai fatto venire in mente il racconto di come è nata Yesterday. Una mattina Paul McCartney si sveglia, va al pianoforte, la suona, e poi è convinto che si tratti di una melodia già esistente. Certo di questa cosa, va per due mesi a rompere i coglioni a tutti i musicisti che conosceva per chiedergli se era di qualcuno, solo che nessuno gli ha saputo rispondere. Allora la suona a Lennon, mentre si cucinava due uova al tegamino, e John gli canta sopra la ricetta per cuocere le uova. E alla fine gli dice: “Questa melodia dormiva nella tua anima”. Insomma, l’immagine originaria che spiega che cos’è la melodia è quella di Ulisse che, a causa di un canto, cambia direzione. Cos’è, per sintetizzare la melodia? Ciò che incanta.
DR: Ma può avvenire soltanto se quell’incanto è già nelle corde di tutti.
UC: Perché le grandi melodie sono tutte ninne nanne. Ti fanno addormentare facendoti sentire abbracciato da una sorta di protezione. Per questo il mio sogno era scrivere un film così.