Tomas Alfredson: «Il mio thriller silenzioso a 20 gradi sottozero» | Rolling Stone Italia
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Tomas Alfredson: «Il mio thriller silenzioso a 20 gradi sottozero»

Il regista di 'Lasciami Entrare' racconta il suo nuovo film, 'L'uomo di neve', la storia di un serial killer molto particolare. Con un certo Martin Scorsese alla produzione

Tomas Alfredson: «Il mio thriller silenzioso a 20 gradi sottozero»

«Il silenzio, così come le pause e le esitazioni, è uno strumento utile al cinema. Se un personaggio evita di rispondere a una domanda, aumenta il mistero e spinge il pubblico a chiedersi che cosa sta succedendo in scena. John Hurt, con cui ho lavorato ai tempi de La talpa, mi diceva sempre che i pensieri si “vedono” sullo schermo. Se un attore pensa intensamente a qualcosa, riuscirà a comunicarla anche senza parlare». Secondo Tomas Alfredson, il regista di Lasciami entrare e della spy-story La talpa, il silenzio può essere interessante esattamente quanto le parole. Lo dimostra anche nel corso della nostra intervista: posato e dai modi gentili, il cineasta svedese, 52 anni, si prende lunghe pause prima di esprimere un concetto, scegliendo con cura le parole e, talvolta, scuotendo semplicemente la testa per assentire o meno.

«In Scandinavia il silenzio è una forma attiva di comunicazione» dice con un sorriso quando lo incontriamo a Londra per parlare della sua ultima fatica: L’uomo di neve, atteso adattamento del bestseller di Jo Nesbø, in sala dal 12 ottobre. Nonostante si tratti del settimo capitolo nella serie di libri incentrati sul tormentato detective Harry Hole (nel film lo interpreta Michael Fassbender), L’uomo di neve porta al cinema per la prima volta il personaggio e apre la strada a possibili sequel. Al centro della storia, ambientata a Oslo, un serial killer che firma ogni omicidio lasciando dietro di sé un pupazzo di neve.

Cosa l’aveva colpita del libro?
Mi interessa confrontarmi con tutto ciò che mi spinge al di là delle mie competenze. Prima di girare questo film non avevo mai girato un thriller, ad esempio. L’uomo di neve è ben scritto e, tra l’altro, è ambientato in una parte del mondo che penso di conoscere bene.

Ha dichiarato che per lei è fondamentale avere una reazione quasi fisica rispetto alla sceneggiatura. Le è capitato, in questo caso?
Sì, mentre leggevo il copione sentivo il cuore battere a mille. È un buon segno: se la suspense traspare già dalle pagine, le possibilità di fare un buon lavoro aumentano. Inoltre si tratta di un romanzo particolarmente disturbante.

Da quale punto di vista?
Sarebbe stato poco interessante raccontare le indagini di un agente di polizia sulle tracce di un assassino che uccide senza motivo. Nel nostro caso, invece, il killer colpisce solo le donne che hanno avuto figli illegittimi. Mi interessava esplorare la psicologia del personaggio.

Ha mai pensato di iniziare dal primo romanzo della serie, piuttosto che dal settimo?
Non è stata una mia scelta, il film mi è stato offerto tre anni e mezzo fa. Prima di me avrebbe dovuto dirigerlo Martin Scorsese, che oggi è produttore esecutivo.

Che influenza ha avuto sul film?
Ha seguito tutto il montaggio e mi ha suggerito alcune idee. Lavorare con lui è stato come avvicinarmi a una divinità: stiamo parlando di un filmmaker che ha realizzato alcune delle pellicole più eccezionali della storia del cinema.

C’è stato qualcosa di particolarmente complicato da adattare?
È sempre rischioso cercare di infilare 600 pagine di libro in due ore di film. È una bella sfida, ma bisogna trovare un proprio punto di vista. Provare a replicare il romanzo sarebbe assurdo e, francamente, senza senso. Il libro esiste già.

Ha fatto qualche modifica?
Abbiamo deciso di non dare a Harry un cellulare. Questo mi obbliga, in quanto regista, a trovare dei modi meno meccanici di raccontare la storia: i personaggi devono saltare in auto per raggiungere un posto, non possono semplicemente alzare il telefono e scoprire tutto. L’unica volta che Harry utilizza un telefono, infatti, se lo fa prestare da un collega.

La colonna sonora è di Marco Beltrami. È vero che avrebbe dovuto essere composta da Jonny Greenwood, il chitarrista dei Radiohead?
No, la verità è che i Radiohead stavano lavorando alle musiche de La talpa. Purtroppo rinunciarono perché erano impegnati con un tour.

Nel film ci sono molto ghiaccio e neve. Hanno rappresentato una sfida?
Sì, perché è complicato rispetto all’attrezzatura da portare sul set. È difficile trasferire il freddo sullo schermo, perché spesso non sembra affatto freddo. Hai bisogno delle giuste condizioni atmosferiche e di una certa umidità. Di certo non volevo alcuna neve finta.

Quanto freddo faceva?
Il primo giorno di riprese abbiamo girato la scena in cui Michael si risveglia su una panchina, dopo essersi addormentato ubriacato la sera precedente. La temperatura era 20 gradi sottozero. Credo che si sia preoccupato un po’, a dire il vero. Il prologo ha un ritmo forsennato, mentre il film si prende del tempo per introdurre i vari personaggi. La premessa fa capire agli spettatori cosa devono aspettarsi. Il prologo è veloce come quelli dei film di James Bond: si apre con un caso di cui non sappiamo ancora nulla e con un colpo di scena che destabilizza da subito il pubblico.

007 è mai stato una fonte di ispirazione?
Quando sono sul set cerco di pensare il meno possibile ad altri film: più vado avanti con gli anni e più mi preoccupa l’idea di iniziare a copiare dalle cose che vedo, pur non volendo. Cerco l’ispirazione altrove.

Dove?
Nella fotografia, nell’arte, nella musica. Di solito mi ispiro ai dipinti per quanto riguarda colori e toni. In questo caso si trattava di un’opera di Edward Munch, un paesaggio invernale. La cosa interessante è che, nella maggior parte dei dipinti, c’è sempre una luce calda che proviene dal basso. Ho provato a replicarla. Inoltre la neve ha un colore lavanda, fateci caso.

Sono trascorsi 6 anni da La talpa. Quanto dovremo aspettare per il suo prossimo film?
Non so mai cosa fare dopo aver portato a termine un progetto. Di sicuro, per il momento, mi prenderò una pausa.

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