Tom Cruise, fuoriclasse: la storica intervista di Rolling Stone | Rolling Stone Italia
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Tom Cruise, fuoriclasse: la storica intervista di Rolling Stone

Gli inizi, gli intoppi, la perseveranza e un gran cuore d’oro. Nel 1986, l’anno di ‘Top Gun’, era già tutto previsto: l’attore non poteva che diventare una di quelle star che (non) ci meritiamo

(da USA) Tom Cruise

Tom Cruise sulla copertina di Rolling Stone US

Foto: Herb Ritts

Questo articolo è stato pubblicato su Rolling Stone US il 19 giugno 1986..

Lo stesso giorno, anni fa, i suoi genitori chiamano i quattro figli Marian, Lee Anne, Tom e Cass per comunicare ciò che Tom ha sempre sospettato: il loro matrimonio è finito. Nella stanza, le lacrime sgorgano incontenibili. Tom, in seguito, avrebbe ricordato quel momento come se fosse morto qualcuno.

Più tardi, il papà porta fuori Tom a fare qualche lancio a baseball. Ma come può dimenticare quello che è appena successo? Tom piange così forte da non riuscire nemmeno a respirare. Suo padre se ne sta andando, questa volta per sempre, e una grande paura si fa strada nella sua mente: “Cosa ci succederà ora? E dopo?”.

Ora un Jerry Lee Lewis sfinito, con l’aria di chi è appena tornato da una visita nel laboratorio di un imbalsamatore, canta una Great Balls of Fire sorprendentemente vitale sul palco del Lone Star Cafe di New York. Tom Cruise, che si esibisce in una sua versione scatenata del pezzo nel suo nuovo film, Top Gun, ondeggia seguendo il ritmo, sulla balconata affollata. Alla fine dello show, Cruise si siede rapidamente a un tavolino in disparte per sorseggiare una Diet Coke. Anche se è sempre gentile ed educato, non ama la folla. Inoltre sono le 11 di sera, e domani ha una giornata densa: Good Morning America, una session fotografica, cose così. Quindi, forse, è meglio che se ne vada…

«Ehi, Tom», gli dice un impiegato del club. «Stai dando nell’occhio qui. Vuoi vedere l’iguana?» (sul tetto del club svetta la scultura di un’iguana).

«Ci sto», risponde Tom, alzandosi dal tavolo e salendo le scale. È alto poco più di un metro e 70, ma la sua muscolatura è prodigiosa, grazie a un programma di allenamento rigoroso e a un’autodisciplina fortissima. Il suo bell’aspetto (capelli neri e sopracciglia folte che incorniciano un viso ampio e vivace) è accentuato dall’abbigliamento: bomber, maglietta, jeans neri e stivali, con i quali sale le scale facendo tre gradini alla volta. Dai camerini che si affacciano sul tetto esce una piccola folla che inizia ad accalcarsi intorno a Cruise. Lui risponde a una serie di «Come va?», poi qualcuno gli chiede: «Poseresti per una foto con l’iguana?». Certo. Con il bicchiere di Coca ancora in mano, si arrampica sui montanti che sorreggono l’iguana, salta su una piccola sporgenza, si gira e… oddio! Cade a faccia in avanti sul tetto: fa un volo di circa un metro e mezzo e si schianta con un tonfo terribile.

All’improvviso, si tendono verso di lui una dozzina di mani che lo tirano in piedi, chiedendo come sta. È scosso, ma tutto intero: «Sto bene, sto bene». Si intuisce che quello di cui ha più bisogno è andarsene, quindi scende le scale, esce in strada e… «Ehi, Tom, mi autograferesti questo, per favore?». E lui ovviamente lo fa.

«Grazie. A mia figlia è piaciuto molto quando hai ballato su quella cosa di Bob Seger».

Già, la cosa di Bob Seger. Ron Reagan Jr. ne ha fatto una parodia al Saturday Night Live. La Campbell’s l’ha copiata per uno spot pubblicitario. Tutto è partito da una frase nella sceneggiatura di Risky Business – Fuori i vecchi… i figli ballano di Paul Brickman: “Joel balla in mutande per tutta la casa”. Ma quando il Joel Goodsen di Cruise ha alzato il volume dello stereo e si è messo a ballare in camicia e boxer sulle note di Old Time Rock & Roll di Bob Seger, ha dato vita a una scena memorabile: un minuto pieno di air guitar sexy e di comicità in salsa finto macho che ha reso Cruise famoso presso il pubblico del cinema.

Risky Business, un film sulla perdita della verginità stranamente molto stiloso, ha incassato 65 milioni di dollari al botteghino. La pellicola è andata benissimo anche sulla Tv via cavo e le sue prese di posizione sagaci sull’imprenditoria e su Princeton l’hanno fatta diventare l’Easy Rider della generazione MTV. Dopo il suo ruolo da protagonista successivo, nel Ribelle, Cruise ormai poteva chiedere le cifre che voleva, anche un milione di dollari a film. Invece, nell’84 e nell’85 è scomparso. Che cosa è successo?

Una sola parola: Legend. La favola rococò del regista Ridley Scott ha trattenuto Cruise a Londra per più di un anno, per interpretare (bleah) Jack, un ragazzo buono dai capelli lunghi con la stessa profondità emotiva di Luke Skywalker; Cruise stesso ha descritto il suo ruolo come «solo un altro colore in un quadro di Ridley Scott». Le grosse difficoltà di produzione sono aumentate drasticamente a metà lavorazione, quando il set è andato distrutto da un incendio, ma alla fine la pellicola è uscita negli Stati Uniti in aprile. Il film ha rubato un anno di vita a Cruise e 89 minuti al suo pubblico.

È chiaro, no? Legend è stato uno di quegli errori in cui un attore può incappare (Tom dice: «Non voglio mai più fare un altro film del genere») e Top Gun era la mossa giusta per tornare in carreggiata: una storia epica sui piloti di caccia della Marina Militare. Forse non è un film adatto ai critici, che probabilmente saranno turbati dall’atteggiamento del film stile “facciamoli fuori” nei confronti dei velivoli di altri Paesi, ma se Cobra di Sly Stallone non lo straccerà al botteghino, Top Gun è pronto a incassare un bel po’ di soldi quest’estate. Semplice.

Ma non esattamente. Cruise ha faticato a spiegarlo, ma l’anno passato a Londra per girare Legend è stato davvero importante per lui. L’isolamento del set, lo stravolgimento della sua vita personale, persino la profonda innocenza del personaggio che interpretava: ognuno di questi elementi sembrava rievocare parte di quel dolore e di quella paura provati da bambino e gli ha permesso di sviluppare una nuova forza. Ha imparato a essere paziente; a non preoccuparsi se qualcosa non viene fatto quel giorno, o quel mese, o quell’anno. Ha scoperto come fare le stesse domande che si poneva quando suo padre se n’è andato («Cosa ci succederà adesso? E dopo?») e a non farsi prendere dal terrore, ma a nutrire speranza. Ha acquisito la capacità di dire addio a qualcosa di prezioso (una storia d’amore, un’opportunità di carriera, persino un genitore) e di uscirne più forte.

È tutto piuttosto difficile da spiegare, vero? Quindi forse non è il caso di tornare a casa. Forse è meglio fare una lunga passeggiata nei quartieri alti e parlarne un po’.

Don Simpson e Jerry Bruckheimer, i produttori di Beverly Hills Cop – Un piedipiatti a Beverly Hills, hanno iniziato ad appassionarsi al progetto Top Gun dopo aver visto un articolo su California Magazine che parlava della scuola di volo d’élite della Miramar Naval Air Station di San Diego. «Questi ragazzi erano dei rocker che volavano nel cielo», dice Bruckheimer. «Sembravano degli Sting americani: erano ragazzi con ciocche di capelli bionde e nere e soprannomi come Yogi, Possum e Radar. Ed era tutto vero». Secondo Bruckheimer, il casting del protagonista è stato un gioco da ragazzi. «Fin dalla prima volta che siamo andati a Miramar, ancora prima che la sceneggiatura fosse scritta, ci siamo detti: “Questi ragazzi sono dei Tom Cruise”».

I due poi sono andati al Pentagono e hanno incassato la totale collaborazione della Marina. Hanno commissionato una sceneggiatura e l’hanno inviata a Cruise, che era ancora impegnato con Legend.

«Mi piaceva», ricorda Cruise, «ma aveva bisogno di grossi aggiustamenti. Ero preoccupato». Dopo un faccia a faccia con Simpson e Bruckheimer, però, ha trovato la giusta spinta: «Sembravano avere anche loro quello spirito da pilota di caccia, da top gun: il meglio del meglio».

Cruise ha fatto una proposta insolita ai due produttori: voleva lavorare alla sceneggiatura con loro, prima di decidere se impegnarsi o meno nel progetto. «Ho detto: “Se dopo due mesi decido che non voglio farlo, la sceneggiatura sarà comunque abbastanza buona e voi avrete un’idea più precisa di quello che volete fare. E ci sono altri attori sulla piazza”. Credo di averli presi alla sprovvista, almeno all’inizio, [ma] dopo Legend volevo solo assicurarmi che tutto andasse davvero secondo i piani».

Simpson e Bruckheimer hanno accettato, e oggi Simpson ha solo parole di elogio per Cruise. «È stato fantastico», dice. «Tom si presentava a casa mia, prendeva una birra e lavoravamo cinque o sei ore sulla sceneggiatura. A volte recitavamo le scene. Quel ragazzo non vede le cose solo da un paio di prospettive, è davvero capace di esaminarle da tutte le angolazioni. Ci siamo divertiti molto».

Cruise è andato a Miramar per studiare e volare con i piloti («Quei ragazzi mi hanno lanciato un’occhiata e hanno detto: “Ti faremo il culo”») e ha passato molto tempo a lavorare sulla sceneggiatura. Uno dei problemi era l’interesse amoroso di Cruise, interpretato da Kelly McGillis. In origine, il personaggio doveva essere una ginnasta, ma tutti erano d’accordo sul fatto che avrebbe dovuto essere parte integrante del mondo dei piloti, per cui è diventata un’istruttrice della scuola.

Ma il problema principale era il personaggio di Cruise: Pete “Maverick” Mitchell, uno scavezzacollo con i capelli a spazzola che fa follie troppo spericolate per i suoi colleghi piloti. Fin dall’inizio, il ruolo ha esaltato l’energia inarrestabile di Cruise e, a sprazzi, il suo bel viso (i piloti indossano dei respiratori per gran parte del film). La preoccupazione più grande era il fattore stronzaggine: come era possibile che Maverick fosse ultracompetitivo e risultasse comunque simpatico? Per questo, Cruise e la produzione hanno creato delle scene in cui Maverick confessa i propri dubbi al suo compagno di volo. Inoltre, è stato creato un background per giustificare le azioni di Maverick: il suo desiderio di dare prova di sé stesso e di scoprire qualcosa sul padre, scomparso misteriosamente durante una missione nel Sudest asiatico negli anni Sessanta. Un uomo che ha perso il padre? Sì, Tom Cruise poteva interpretarlo.

Tom Cruise ora vuole un gelato, ma non è facile trovarlo a quest’ora della notte, nemmeno al Greenwich Village. Si avvicina a un chiosco che ha appena chiuso e sventola una banconota da un dollaro, mostrandola alle persone che stanno pulendo all’interno. «Guardate!», grida con un sorrisone sul volto. «Ho dei soldi». Ma non c’è niente da fare.

Alla fine trova un Häagen-Dazs, prende un cono al caffè e iniziamo a camminare verso il suo albergo nei quartieri alti.

Anche se sono passati mesi dalla fine delle riprese di Top Gun, lui è ancora carico per l’esperienza. «Ho percepito un supporto totale da parte di Simpson e Bruckheimer: qualsiasi cosa non andasse bene, l’avremmo sistemata», dice. «Non importava se avrebbero dovuto mentire, imbrogliare e rubare i soldi alla Paramount: il film si sarebbe fatto».

E quale è stato il suo ruolo nella definizione della storia, in particolare dei dettagli legati al background famigliare? Cruise ci pensa un attimo. «Ovviamente mio padre non era un pilota di caccia e non è morto da eroe, ma credo di avere sperimentato molte delle sfaccettature emotive e interiori [di Maverick], come l’amore per il padre e la presenza di un conflitto interiore. E anche l’amore per mia madre».

Suo padre, Thomas Cruise Mapother III, è un ingegnere elettronico, una specie di inventore nato nel Kentucky e laureato all’Università di Louisville. Sua madre, Mary Lee, è una donna vivace, estroversa, religiosa e anche un’attrice di talento. «Mi ha sempre interessata il teatro, ma non ho mai fatto nulla», ricorda la donna. «Quando ero ragazza, andare a Hollywood era davvero rischioso. Avrei perso la mia fede, la mia morale: erano tutte cose di cui le ragazze di allora si preoccupavano».

Thomas e Mary Lee hanno avuto quattro figli: Tom, il terzo, è nato a Syracuse, New York, il 3 luglio 1962. La famiglia si è spostata in un bel po’ di città, ovunque il lavoro di papà lo richiedesse. Ogni volta che si trasferivano, Mary Lee trovava il modo di entrare in qualche compagnia teatrale locale. Secondo lei, il giovane Tom mostrava già un’attitudine precoce verso il teatro. «Da piccolo inventava delle scenette e imitava Paperino, Woody Woodpecker e W.C. Fields. Credo di essere stata il suo più pubblico più entusiasta. Aveva la stoffa per queste cose, ma quando è cresciuto si è dedicato di più allo sport e ha smesso del tutto».

Per Tom, lo sport è stato una valvola di sfogo per la sua aggressività naturale, gli ha dato modo di farsi rapidamente degli amici ogni volta che arrivava in una città nuova e gli ha regalato un po’ di quell’autostima che di solito gli mancava a scuola per via della sua dislessia. Ha iniziato fin da piccolo a giocare a baseball e, quando la sua famiglia si è trasferita in Canada, il padre ha notato che Tom sapeva pattinare all’indietro come i ragazzi canadesi che lo facevano da una vita. Lì, poi, Mary Lee con un piccolo aiuto da parte di Thomas III ha contribuito a fondare un gruppo teatrale amatoriale in un quartiere di Ottawa.

Ma quel quadretto di felicità famigliare è durato poco; Mary Lee oggi parla del suo divorzio definendolo «un momento di crescita e di conflitto». Ma è stato anche un periodo di ristrettezze. Con pochissimi soldi, lei e i bambini sono tornati a Louisville, dove hanno cercato di ricominciare la loro vita. «Sai, le donne sognano di fare carriera e di fare un sacco di cose», dice Mary Lee. «Io sognavo solo di crescere i bambini, di godermeli e di avere una bella famiglia».

Mary Lee ha accettato una serie di lavori di ogni tipo per tenere a galla la famiglia: ha presentato convention di elettronica, ha venduto elettrodomestici… qualsiasi cosa. Un Natale non c’erano soldi per comprare regali, così i membri della famiglia si sono scritti e dedicati delle poesie da leggere ad alta voce.

La passione di Tom per lo sport continuava. Giocava a hockey oltre il confine del Kentucky, in Indiana, con ragazzi più grandi e grossi di lui. «Era così veloce che non riuscivano a stargli dietro», ricorda Mary Lee. «Un ragazzo, una volta, era talmente esasperato che ha preso Tom per la collottola e per i pantaloni e l’ha buttato fuori dal campo. Mi sono messa a ridere!».

Tom dava il suo contributo alle finanze consegnando i giornali (a volte rubando l’auto della mamma per farlo) e in altri modi. «Tutte sere le tornavo a casa, mi lavavo i piedi e mi sedevo in salotto: Tom mi massaggiava i piedi per mezz’ora», ricorda Mary Lee. «L’ha fatto per sei settimane, poi è arrivata la Pasqua, e il lunedì dopo sono tornata a casa dal lavoro aspettandomi lo stesso trattamento. Lui mi ha detto: “Mamma, la Quaresima è finita”».

«Dopo un divorzio ci si sente davvero vulnerabili», dice Tom, gettando via il suo cono gelato mentre attraversa la 14esima Strada. «E poi viaggiando come è capitato a me si è parecchio chiusi con gli altri. Non ho mai confidato molto alle persone nei posti dove mi sono trasferito. Non avevano avuto un’infanzia come la mia, pensavo che non mi avrebbero capito. Ma ero sempre lì, pronto a fare conoscenza con tutti. Dopo il divorzio ho passato un periodo in cui volevo solo essere accettato, desideravo amore e attenzione dalle persone. Ma sentivo sempre fuori posto, ovunque andassi».

La scuola era diventata una storia dell’orrore fatta di insegnanti dalla mentalità ristretta e di gruppi chiusi, un luogo dove si doveva solo cercare di scontare la pena nel modo più indolore possibile. Ricordo che una volta, andando a scuola con le mie sorelle, ho detto: «Superiamo questa cosa. Cerchiamo di lasciarcela alle spalle in qualche modo…».

«Ripenso alla scuola e non vorrei mai tornarci. Nemmeno tra un milione di anni».

Qualche tempo dopo, a una convention di elettronica, Mary Lee ha conosciuto Jack; lui lavorava nel settore della plastica. Si sono sposati quando Tom aveva 16 anni. «All’inizio mi sentivo minacciato dal mio patrigno», ricorda Tom. «Perché una parte di te è sempre innamorata di tua madre. Ma lui è un uomo davvero saggio e intelligente. Amava così tanto mia madre che ci ha accolti tutti, quattro ragazzi. Scommettevamo sulle partite di football e lui era un pessimo scommettitore, così io facevo un sacco di soldi».

La famiglia si è poi stabilita a Glen Ridge, nel New Jersey. All’ultimo anno di superiori, però, Tom non aveva ancora le idee chiare: dopo il diploma, aveva intenzione di viaggiare per qualche anno, prima di mettersi a pensare all’università. E quando, durante l’inverno, un infortunio al ginocchio ha stroncato la sua carriera da lottatore, sembrava che ci fosse ben poco da sperare.

Non aveva mai davvero brillato in nulla, nemmeno nell’atletica: era iperattivo per compensare la sua mancanza di abilità e tendeva a passare da uno sport all’altro. Si diceva: «Se solo riuscissi a concentrarmi su qualcosa, so di avere l’energia e la creatività per diventare bravissimo». Poi, su consiglio del direttore del suo coro, Tom ha deciso di fare un’audizione per la produzione del musical Guys and Dolls del suo liceo e ha avuto il ruolo principale di Nathan Detroit.

Mary Lee ricorda ancora la sera della prima: «È impossibile descrivere quella sensazione. È stata un’esperienza incredibile vedere emergere all’improvviso quello che ci sembrava un grande talento. Era rimasto dormiente per tanti anni, senza che ci si pensasse, se ne parlasse o se ne discutesse in alcun modo. Poi vederlo su quel palco…».

Ma la sorpresa più grande doveva ancora arrivare. «Dopo lo spettacolo», racconta Mary Lee, «Tom è tornato a casa e ha voluto parlare con me e mio marito. Ci ha chiesto dieci anni di tempo per provare a farcela nel mondo dello spettacolo. Nel frattempo, mio marito pensava: “Quanto mi costerà? Dieci anni di cosa?”». Lei lo ulula ridendo. «Ormai è una specie di scherzo in famiglia. In ogni caso, Tom ha detto: “Fatemi provare. Sento davvero che questo è ciò che voglio fare”. E noi eravamo entrambi d’accordissimo, perché pensavamo che avesse un talento donato da Dio e che avrebbe dovuto coltivarlo perché ne era così entusiasta. Quindi, per farla breve, gli abbiamo dato la nostra benedizione. Il resto è storia».

Tom non si è diplomato, si è accorciato il nome e si è trasferito a New York, dove ha iniziato la vita dell’attore che lotta per sopravvivere: di notte faceva il cameriere, di giorno andava ai provini e, se gli restava del tempo, frequentava i corsi della Neighborhood Playhouse.

Probabilmente doveva sgrezzarsi, ma era molto bello e chi l’ha visto allora ricorda un’urgenza speciale nelle sue performance. Dopo cinque mesi a New York, Cruise ha avuto un piccolo ruolo nel film Amore senza fine. Nemmeno un anno dopo, ha licenziato la sua agente («Mi mandava a fare le commissioni per lei») ed è stato scritturato per una parte secondaria in Taps – Squilli di rivolta.

Cruise doveva interpretare la spalla del cadetto militare dalla testa calda David Shawn. Ma l’attore che interpretava Shawn non si impegnava troppo. «Cruise era così in palla che l’altro non aveva alcuna possibilità», ricorda Sean Penn, che ha recitato con Timothy Hutton nel film. «Era molto intenso, presente al 200%. Era travolgente e noi ridevamo, perché ci credeva davvero. La sua era una buona recitazione, ma così enfatica da risultare buffa».

Il regista Harold Becker ha anche offerto la parte di Shawn a Cruise, che ha reagito scandalizzato. «Tom ha detto al produttore: “Se non va bene all’altro attore, non voglio farlo”», racconta Penn. «Fino alla fine è stato così. Era davvero un puro di cuore. Parla con Hutton, ti dirà la stessa cosa». Questa sua ingenuità, nel mondo del cinema, ben presto gli è costata carissima con Un weekend da leone, un film per adolescenti sulla prima esperienza a Tijuana, in cui ha recitato con un’altrettanto imbarazzata Shelley Long. «È un film importante per me», dice Tom. «Oggi posso guardarlo e dire: “Grazie a Dio sono cresciuto”. Pensavo che chiunque potesse fare un grande film e tutto quello che dovevi fare era metterti in gioco. Non sapevo nulla di nulla».

Nel frattempo Cruise aveva conosciuto l’agente Paula Wagner e le aveva spiegato i suoi piani futuri: crescere come artista, lavorare con i migliori e non preoccuparsi dei soldi. Lei l’ha preso come cliente e lui è andato a girare I ragazzi della 56ª strada, per la regia di Francis Ford Coppola.

Ed è qui che Cruise (che si era già fatto notare per avere mostrato il culo nudo alla cinepresa durante le riprese di Un weekend da leone e per aver distrutto dei prati con una jeep durante quelle di Taps – Squilli di rivolta) si è fatto una vera e propria nomea da burlone. Ha scarabocchiato “Helter Skelter” sullo specchio della stanza d’albergo di Diane Lane e le ha spalmato del miele sulla tavoletta del water. Per questo gesto è stato ricompensato con un sacchetto pieno di indovinate-cosa appeso all maniglia della porta, per gentile concessione di Emilio Estevez.

Dopo è arrivato Risky Business, e poi tutto il resto. A 21 anni, Tom Cruise era una star del cinema.

Penn ricorda una serata con Cruise in un club di New York dopo l’uscita di Risky Business. «Il gruppo di persone con cui eravamo era pazzesco: De Niro, Mickey Rourke, Joe Pesci. Un sacco di ragazze venivano da noi. Una molto carina si è avvicinata a Tommy e ha cominciato a parlargli. Lui ha capito che se lo voleva portare a letto e le ha urlato: “Ho una fidanzata di cui sono innamorato!”. E lei: “Avresti dovuto dirmelo cinque minuti fa!”».

Quella fidanzata era la sua coprotagonista in Risky Business, Rebecca De Mornay. Nonostante le scene d’amore infuocate che hanno girato, i due hanno preso a frequentarsi solo dopo l’uscita del film, alla fine dell’estate del 1983.

Nei primi mesi della loro storia, De Mornay, anche lei ventunenne, ha notato che lei e Cruise avevano molto in comune. «Abbiamo un passato molto simile, con tutti i trasferimenti e il resto, solo che io ho vissuto tutto in Europa e lui negli Stati Uniti».

«È davvero una persona pura», ha detto all’epoca. «In lui c’è qualcosa di profondo e virtuoso che è piuttosto raro. C’è sicuramente qualcosa di diverso nei bambini che provengono da famiglie problematiche. Hanno questa specie di impulso alla ricerca, perché si cercano amore e affetto se si è stati privati di una quantità sostanziale di tempo con i propri genitori. Credo che questo sia vero per Tom».

La celebrità di Tom e il gossip della sua relazione con De Mornay hanno acceso la fiamma della curiosità del pubblico. People ha chiesto a lui e a Rebecca di posare per una copertina; i paparazzi li pedinavano fuori dal loro hotel di New York; Rona Barrett ha rintracciato Tom per intervistarlo. Il pubblico ha cominciato a scoprire quanto lui potesse essere sincero e gentile. Ma c’erano aspetti della sua vita con cui non aveva ancora fatto i conti.

La voce al telefono era vitale, energica e di buon umore, ma si sentiva che era sforzata. Era la fine del 1983 (Risky Business era stato un successo e Il ribelle era appena uscito) e Thomas C. Mapother III, il padre di Tom Cruise, era molto malato. «Ho appena subìto un’operazione per un tumore», mi ha detto. «Era una cosa piuttosto seria e ho il cancro in altri punti, quindi è ancora un grosso problema».

All’inizio, l’uomo era estremamente riluttante a parlare di suo figlio: «Io e Tom non ci sentiamo mai. Non posso prendermi alcun merito per il suo successo. Ma sono l’ultima persona che lo criticherà. Forse così gli faccio un favore».

Però c’era una cosa che voleva dire. «Tutti e quattro i miei figli sono venuti in ospedale, e io non ho potuto fare altro che piangere. Ecco quanto è stata forte la sofferenza per via del divorzio».

La sua voce si è fatta più profonda per l’emozione. «Non riuscivo a crederci quando è entrato nella stanza. Avevo un po’ paura di non riconoscere mio figlio, perché avevo visto molte foto sui giornali e gli scatti pubblicitari. E quello non era mio figlio. Poi è entrato nella stanza… e ho subito capito chi era». Ha iniziato a piangere. «Ciò che quei ragazzi hanno fatto per me, non potrò mai spiegarlo…».

Tom si trovava a Los Angeles, era in procinto di partire per Londra per girare Legend, quando il telefono ha squillato. «Sai com’è: a volte il telefono squilla e lo sai e basta». Lui lo sapeva. Suo padre era morto.

«Mi hanno chiarito un sacco di dubbi che avevo su di lui», dice Tom dei suoi ultimi incontri con il padre, mentre cammina lungo la Fifth Avenue. «Credo che provasse rimorso per molte cose che erano successe. Non ha avuto una grande influenza su di me, durante l’adolescenza; i miei valori e le motivazioni sono arrivate dal mio patrigno. Ma era importante. Davvero importante. È tutto piuttosto complesso. Sentivo tante emozioni».

Cruise aveva accettato di fare Legend poco prima che suo padre morisse. «Con tutto quello che stavo passando a livello emotivo, affrontando la morte e tutto il resto», dice, «in qualche modo era importante per me cercare di tornare all’innocenza». Sospira. «Sono felice di aver recitato in quel frangente. Non so cosa avrei fatto senza il mio lavoro. Mi ha offerto un luogo in cui affrontare tutte quelle emozioni».

È il 1984 e Tom si trova a Londra, tagliato fuori dalla sua cerchia di supporto: la famiglia, Rebecca, la comunità cinematografica americana. Per ammazzare il tempo passa ore e ore sul set. Fa lunghe passeggiate da solo a Hyde Park.

A metà delle riprese, si fa uno strappo alla schiena e il giorno dopo cammina piegato come Quasimodo. Paula Wagner e suo marito sono in luna di miele e sono venuti a pranzare con lui: è la prima volta che va a trovare Tom sul set di un film. Mentre mangiano, qualcuno dice a Tom che il set costosissimo di Legend, il mondo fantastico al centro della visione elaborata del regista Ridley Scott, è in fiamme. La distruzione è quasi totale. Settimane di lavoro sono vanificate e ne serviranno molte altre per finire il film. Tom si rivolge a Paula. Le dice: «Spero che capirai», dice, «se ti chiedo di non venirmi mai più a trovare su un set».

«Ho dovuto davvero fare una scelta», spiega, con ancora più enfasi del solito, mentre ricorda la sua reazione all’incendio. «Quando il set è bruciato, ho pensato: “Adesso cosa facciamo? Dove ci porterà questa cosa?”. Mi sono detto: “Posso starmene seduto qui, sentirmi di merda e crogiolarmi nella mia frustrazione, oppure posso venire qui ogni giorno”. Invece di sentirsi frustrati e sbattere la testa contro il muro, si può dire: “Ok, è successo: adesso cosa facciamo? Andiamo avanti”».

Lui ha imparato a farlo nel modo più difficile. «Voglio dire, ho sempre avuto questa capacità di affrontare le cose. Tutta la mia vita è stata così: “Ok, cosa faccio adesso?”».

Ovviamente non tutti i problemi si risolvono con la determinazione e la tenacia. A volte, dice Tom, bisogna lasciare andare. Lui e Rebecca hanno tenuto in piedi la loro storia durante i mesi di separazione forzata per via di Legend, per poi lasciarsi definitivamente al suo ritorno in America, quando Tom ha iniziato a lavorare a Top Gun.

«Le relazioni», sospira mentre facciamo l’ultima curva che porta al suo hotel. «Sono difficili. Devi capire quando ti trovi in un posto diverso da quello dell’altro e devi avere la forza di separarti. Le persone tendono più a rimanere insieme per la tranquillità, ma nella mia vita non l’ho mai fatto, né nelle relazioni né nel lavoro. Se qualcosa non funziona, bisogna affrontarlo e andare avanti».

Non è certo di ciò che vuole fare nella sua vita sentimentale. «Non so se potrei sposarmi. In questo momento, nel mio stato d’animo attuale, non credo proprio. Ho bisogno di molto spazio per me stesso e per il mio lavoro. Non si può dire: “Ok, teniamo tutto in sospeso. Torno da te tra un paio di mesi quando avrò finito”. Ma mi piace avere una relazione».

Poi ammette di frequentare «ufficialmente» l’attrice Mimi Rogers. «L’ho conosciuta a una cena più o meno un anno fa, quando stavo lavorando a Top Gun. Usciva con un mio amico e ho pensato che fosse davvero brillante».

Da solo o meno, al lavoro o in relax, le vecchie domande (“Cosa succederà ora? E dopo?”) adesso suonano diversamente, e Cruise le fa con il sorriso.

«Per un po’ di tempo mi sono sentito come se dovessi fare tutto in un weekend», dice ridendo. «Poi, per la prima volta, ho affrontato un lutto. Quando muore qualcuno che ti è caro, ti trovi di fronte al fatto che un giorno morirai anche tu. E lì ho iniziato a capire – in realtà è successo quando vivevo a Londra – che va bene così. Posso prendermi il mio tempo, posso iniziare a fidarmi del fatto che vivrò ancora un po’. Sono maturato molto. Sono un po’ più rilassato».

All’inizio di quest’anno Cruise è stato a Chicago per girare Il colore dei soldi, una specie di sequel dello Spaccone, con il regista Martin Scorsese e Paul Newman. Tom pensa di essere un uomo fortunato: fortunato per aver fatto Top Gun, e ora per aver recitato al fianco di una star davvero enorme. Un giorno, sul set, l’ha detto a Newman: «Caspita, se sono fortunato».

«È buffo che tu lo dica», ha risposto Newman. «Una volta ho detto la stessa cosa a George Roy Hill [il regista di Butch Cassidy]. Sai cosa mi ha risposto? “Essere fortunati è un’arte”».

Un altro giorno, Newman ha portato Cruise in una vicina pista per auto. Dopo qualche giro, l’attore e campione di corse automobilistiche ha chiesto a Cruise se volesse mettersi al volante per fare un giro ad alta velocità. «Puoi scommetterci», ha risposto Tom. «Ok», ha detto Newman, piazzandosi sul sedile del passeggero. «Ma non farmi vedere quanto sei coraggioso, ragazzo». «Ah», ha replicato Tom, «smettila di rompermi le palle». Ed è partito a tavoletta.

Da Rolling Stone US

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