The Greatest
Willem Dafoe
Il divo non divo, una rockstar della recitazione con quella faccia lì, il prim’attore e il supporting di lusso, il preferito dagli autori di ieri e di oggi, che però vive lontano da Hollywood. E ora il Direttore artistico di Biennale Teatro: «Nel teatro evochi, nel cinema catturi». Dalla New York del Wooster Group a una fattoria fuori Roma con gli alpaca «che è davvero casa»
Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Giorgio Armani
Ci sono un paio di frasi che mi sono rimaste costantemente in testa di Willem Dafoe. La prima me l’ha regalata qualche anno fa a Venezia, commentando il (magnifico) lavoro in Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel, per cui vinse la Coppa Volpi: «Non ho mai pensato a essere Van Gogh, ho soltanto pensato a dipingere». La seconda l’ho letta in una sua intervista a Vulture di qualche mese fa: «Recitare può essere stupido, egoista, narcisistico, ma può anche essere un ottimo modo per imparare a vivere e cercare di essere utili». Ecco in due mosse chi è Willem Dafoe. No, aspettate, ce n’è una terza (e una quarta e una quinta): durante il nostro collegamento su Zoom per questa intervista, fuso orario italiano, il suo ufficio stampa avverte che il tempo sta per scadere. Io protesto e lui cavallerescamente salva la situazione: «Che ne dici se facciamo cinque minuti in più?». Alla fine mi presenterà pure uno dei suoi cani, Ateo, un levriero salvato da un camion in Irlanda, e mi saluterà con un: «Sarai alla Biennale, vero? Se passi, vieni a salutarmi».
Willem Dafoe the greatest, come abbiamo scritto in questa cover story dal mood wesandersoniano, scattata in un palazzo storico di Roma, il divo non divo, una sorta di presentissima eppure sfuggente rockstar del cinema con quella faccia lì: «Penso che la cosa bella sia che le persone mi vedono in modi diversi. So di avere un volto particolare, io non ci faccio nemmeno troppo caso, ma me lo dicono gli altri. Per me fa semplicemente parte dell’essere un attore. Mi faccio crescere i baffi (si tocca i baffi e si spettina i capelli). Se ho i capelli in un certo modo, mi sento come se fossi appena uscito da un film di Fassbinder». Willem Dafoe, il prim’attore e il supporting di lusso. Willem Dafoe, il preferito dagli autori di ieri e di oggi. E ora Willem Dafoe, Direttore Artistico del settore Teatro della Biennale di Venezia 2025-2026 (quest’anno il festival si svolgerà dal prossimo 31 maggio al 15 giugno).

Foto: Ilaria Ieie; Art Direction: Alex Calcatelli per LeftLoft; Total Look: Gucci
Quando ho accennato a un po’ di amici che ti avrei intervistato, ognuno ha citato un personaggio e un film diverso: God di Povere creature!, il guardiano di The Lighthouse, il villain di Spider-Man, Van Gogh, il manager di Un sogno chiamato Florida, e la lista continua: mi pare la testimonianza di una carriera pazzesca e della varietà incredibile dei ruoli che hai interpretato. Come sei riuscito a muoverti tra cinema d’autore e blockbuster con tanta facilità?
Mi piace la varietà e in realtà non ci penso molto né lo faccio troppo di proposito, è più forse quello che mi attrae… E lì non c’è un modello, però ci sono aspetti che ritrovi sempre, come un regista che ha una visione forte. Mi attirano molto gli autori e cerco di mischiare un po’ le carte, di fare uno sforzo consapevole in questo senso, pure se poi succede anche in maniera naturale. Le mie scelte non riguardano tanto quali personaggi interpretare, ma più le situazioni e le persone con cui lavorare. Forse mi sbaglio, ma credo sia diverso rispetto a molti attori e attrici che fanno più riferimento al copione e al personaggio. Invece io penso che un personaggio tu non possa conoscerlo davvero finché non ne vesti i panni e che le sceneggiature siano flessibili, possono sempre cambiare, non sono necessariamente il nucleo di un film. Capire cosa fare proprio sul set, cosa usare, come trasformarsi… è questo il vero cuore del cinema.
C’è chi è rimasto sorpreso quando ti hanno nominato Direttore Artistico di Biennale Teatro, forse perché non tutti sanno quanto il teatro sia stato fondamentale nella tua carriera. Iniziamo da qui: cosa significa questo ruolo “insolito” per te?
È una grande opportunità. Biennale ha una struttura fantastica, dei bellissimi spazi. Sono venuti da me e mi hanno chiesto: “Pensa a un programma che sia interessante e che rifletta il tuo interesse nel teatro”. È proprio quello che ho fatto, e loro sono stati di grande supporto. Nel mio primo anno ho voluto sottolineare un concetto, che avrai letto nella mia dichiarazione d’intenti, perché è il mio mantra.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Dior
Theater is body – Body is theater. Ti cito: “Un’indagine sull’essenza del teatro e sulla presenza del corpo”.
Volevo parlare di quello che conosco. Prima di tutto per una questione pratica, perché lanciare un progetto e arrivare alle persone nel tempo di un solo anno è impossibile. Non puoi commissionare dei lavori e metterli in scena in così poco tempo, alcuni artisti hanno delle schedule pienissime, è difficilissimo poterli scritturare. Quindi volevo chiamare delle persone con cui ho lavorato e che ammiro. È questo che ha dato forma al mio programma. E ovviamente nel 2026 voglio fare qualcosa di diverso, perché il mio incarico dura due anni.
Ecco, da attore a curatore: come sta andando?
L’ho presa molto seriamente perché di solito non mi trovo in questa posizione. È una sfida per me, a volte il bello di fare l’attore è che sei responsabile di quello che fai, ma c’è una parte di te che è anche irresponsabile, come un bambino, visto che l’organizzazione non ti compete. Qui invece sento parecchia pressione, anche perché è tutto finanziato con soldi pubblici: non voglio insistere troppo su questo, ma insomma… hai capito. È una nuova avventura che mi ha dato la possibilità di ritornare a bazzicare il mondo del teatro. Non succedeva da un po’ perché sono stato impegnato su molti set negli ultimi anni, anche dopo che ho lasciato il Wooster Group ho continuato a fare pièce qua e là, ma non era la mia quotidianità, come invece è stato per 27 anni quando vivevo a New York.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Paul Smith
E ti è mancato il teatro in questi anni?
Sì, ho sempre continuato a cercare opere da mettere in scena, ma sono molto viziato perché quando lavori in una compagnia è tutto molto organico, hai una sorta di famiglia creativa, vai al lavoro ogni giorno e fai tutto in prima persona. Mentre di solito adesso mi propongono opere o riallestimenti in un’arena più commerciale o istituzionale. E non è lì che mi sono fatto le ossa, che ho vissuto artisticamente. È difficile non prendersi una pausa, soprattutto quando ci sono opportunità così allettanti in ambito cinematografico. Ma mi manca il teatro perché adoro recitare live, è la ragione per cui faccio questo lavoro, penso che sia speciale, ancor di più adesso che è tutto così distante, così virtuale, tutti stanno nella loro bolla. E il teatro è incontro pubblico, creare una comunità in un istante, far succedere qualcosa.
Torno un attimo alla tua mission dichiarata, dove parli anche del rituale dell’azione teatrale. Pensi che il discorso del rito e della comunità valga anche – almeno in qualche modo – per il cinema? O non più?
Non più se le sale continuano a scomparire, perché il bello del cinema sono le persone che si ritrovano per sentire pronunciare quella battuta sul grande schermo insieme. E quando invece le persone guardano i film a casa hanno anche il controllo e di conseguenza prestano meno attenzione. L’attenzione è tutto, soprattutto in questo mondo, che si parli di relazioni personali, amore, cibo (ride)… E tutti stanno perdendo l’abilità di prestare attenzione a causa di una certa fluidità e di una connettività che pare un dragone a molte teste, le persone vanno solo dove vogliono andare e il teatro in questo senso non ha mai avuto successo. Il dono più bello che qualsiasi arte possa farti è un nuovo modo di vedere, che possa rivitalizzarti, riconnetterti a un nuovo senso di meraviglia. Ok, non voglio fare il vecchio saccente parlando di Internet, ma, diciamocelo, questa è la più grande rivoluzione nel modo in cui pensiamo alle nostre relazioni interpersonali che sia accaduta, certamente nel corso della mia vita e forse pure in un arco temporale più ampio.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Gucci
E il ruolo sociale e politico sia del teatro che del cinema si sta tristemente e piano piano perdendo.
Per il teatro è ancora diverso, perché sei lì in carne ed ossa con le altre persone e c’è quel tipo di bellezza dello stare in quel momento, l’assoluta temporaneità. Ovviamente il cinema può imitare alcune cose, ma non è lo stesso. Dico sempre che nel teatro tu evochi, richiami qualcosa dal regno dei morti (ride), mentre nel cinema catturi quei momenti.
Ma com’è iniziato il tuo percorso nella recitazione, anche prima del Wooster Group?
Sono cresciuto in una famiglia borghese in un posto, il Wisconsin, in cui non nascono molti artisti o attori. Quindi non avevo modelli, non è mai stata una scelta di carriera, non mi sono mai formato seriamente, ma ho sempre imparato facendo, lavorando con piccoli gruppi. Già da bambino mi piaceva l’idea di progettare qualcosa, un evento, e realizzarlo. Quindi da piccolo scrivevo opere teatrali, e poi, da più grandino, sono stato un ragazzo normale, facevo atletica e cose del genere. Ho iniziato a recitare in teatro, e, da adolescente, è cambiato tutto. Avevo molti fratelli e sorelle più grandi, ho vissuto il fuoco dei grandi cambiamenti sociali e politici degli anni ’60 e, anche se in quegli anni non ero ancora adulto, credo che mi sia stato trasmesso molto. Essendo cresciuto in quella zona piuttosto conservatrice degli Stati Uniti, credo di essere stato un po’ alla ricerca del mondo. E anche se non ho mai pensato di potermi guadagnare da vivere con la recitazione, ho iniziato a legarmi a persone che lavoravano a progetti in modo molto umile. Alcuni mi avevano visto a scuola, che ho lasciato per poi unirmi a loro… Pensavo che sarebbe stato temporaneo, ma siamo stati scelti da un produttore europeo per iniziare a fare spettacoli. Era il mio sogno perché viaggiavo e creavo, frequentavo persone che ne sapevano molto più di me e questo mi ha gasato. Poi sono finito a New York con il Wooster Group, e quella è diventata tutta la mia vita.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Saint Laurent
E com’era la scena newyorkese in quel periodo?
Me lo chiedono spesso e non voglio essere troppo nostalgico, ma dal mio punto di vista è stato un periodo molto speciale, perché io sono cresciuto nella middle-class e poi sono arrivato lì, vivevo in quartieri malfamati con persone con orientamenti politici diversi e roba del genere. E tutto questo mi ha radicalizzato, anche l’idea di essere un artista era un concetto nuovo per me. È stato educativo perché New York era una città in bancarotta, pericolosa, i livelli di criminalità erano alti, i servizi sociali erano scarsi, era un posto davvero difficile. E quando mi sono trasferito mi piaceva stare lì perché pensavo che quello fosse tutto il mondo. C’erano molte persone che creavano, non per costruirsi una carriera, ma semplicemente per motivi sociali, per stare con altri con cui si divertivano, per esaltarsi insieme… ed è fondamentalmente quello che ho fatto io. Era un momento in cui c’era gente che entrava nei palazzi e ci faceva dentro dei teatri. E poi c’era molta contaminazione: registi che facevano danza, ballerini che facevano film, attori che facevano i musicisti, musicisti che facevano gli attori. Era un periodo emozionante… e quando hai 22 anni non pensi alla carriera, non pensi ai soldi, ma pensi alle persone che ti circondano, alle persone di cui sei innamorato, alle persone con cui vai a letto, capisci?

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Paul Smith
Poi è arrivato il tuo debutto cinematografico: I cancelli del cielo (1980). Ma è vero che Michael Cimino ti ha licenziato dal set? Cos’è successo?
Sì, è stato umiliante perché ero una sorta di comparsa importante. Ma Cimino stava facendo qualcosa di rischioso e molto interessante. E aveva un gruppo di persone che non erano attori veri e propri, ma perlopiù persone reali, immigrati negli Stati Uniti. Avevano l’aspetto e l’accento giusto per quel ruolo. Io ero una delle eccezioni perché ero profondamente americano, ma forse con un aspetto abbastanza diverso da essere scritturato in quel progetto. Parliamo di un film che doveva costare otto milioni di dollari e di un set che doveva durare due mesi ed è finito per costare 40 milioni e durare otto mesi. Il mio primo giorno eravamo indietro di una settimana sulla tabella di marcia perché Michael inventava sempre cose anche per me. Era una grande produzione con molte risorse, ed è stato davvero divertente. Dopo circa tre mesi, però, Cimino ha iniziato a ricevere molta pressione dallo Studio: arrivavano in aereo a esaminare quello che faceva e lui ha iniziato a innervosirsi. Un giorno stavano sistemando le luci, eravamo in costume, tutti truccati, dovevamo stare fermi ma non avremmo mai girato quel giorno. È stato molto noioso e ci è voluta molta disciplina. Qualcuno mi ha sussurrato una battuta per passare il tempo, e io ho riso. Forse un po’ troppo forte. Cimino mi ha sentito e mi ha chiesto di uscire. Sono stato preso un po’ come esempio. Sicuramente è stato un modo interessante per iniziare (ridiamo). Ma ero felice di tornare a teatro, pensavo: “Forse il cinema non fa per me, o forse non riesco a gestire questo tipo di struttura”. Ma non è durata molto.

Foto: Ilaria Ieie
Qualche anno (e film) dopo hai girato Vivere e morire a Los Angeles di William Friedkin, che molti considerano il tuo ruolo della svolta. Cosa ricordi di quel periodo?
Billy Friedkin era una figura importante a Hollywood ma, negli ultimi tempi, non aveva girato un film che avesse avuto successo dal punto di vista economico. E lui ha sempre avuto uno spirito ribelle: voleva fare un film che gli piacesse e basta. Prendere un romanzo, qualcosa che gli interessasse, scritturare degli attori praticamente sconosciuti, girare il film down and dirty. Ed è quello che ha fatto. Non aveva un distributore, ma un amico di quelli che chiamano “four-wallet“, che in pratica affittava dei cinema e proiettava la pellicola. E quando il film uscì – forse perché era un titolo outsider, anche se era di un regista insider – fu giudicato piuttosto severamente. Continuavo a sentir dire che non era ben fatto perché un bel film ha bisogno di un personaggio buono, una brava persona con cui il pubblico possa relazionarsi. E non ci sono buoni in questo film. Sono tutti cattivi. Ed è successo anni prima di Quentin Tarantino! (ridiamo) Ma col tempo Vivere e morire a Los Angeles è stato molto rivalutato ed apprezzato. Ed è stato un bene per me perché mi hanno detto che, a quanto pare, sia Oliver Stone che Martin Scorsese hanno visto qualcosa che li ha spinti a scegliermi per Platoon e L’ultima tentazione di Cristo. Insomma, è stato cruciale per l’inizio della mia carriera cinematografica.
E com’è cambiata l’industria cinematografica da allora a oggi?
Non sono un esperto perché non mi sono mai considerato un membro dell’industria cinematografica. Ovviamente lo sono, ma è il tipo di negazione di cui a volte uno ha bisogno. Penso che l’aspetto principale sia come vengono finanziati i film e anche il fatto che ora solo un certo tipo di film tende a essere proiettato nelle sale.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Giorgio Armani
Hai lavorato con alcuni dei più importanti registi della storia del cinema e stai lavorando con i nuovi autori più interessanti, tra cui Sean Baker. Cosa pensi della sua vittoria agli Oscar per Anora e di lui come regista?
Adoro lavorare con Sean e lo farò di nuovo. Parliamo spesso e sono molto felice per lui. Non è solo un bravo regista, è un vero cinefilo ed è anche molto generoso. Ha un gusto molto eclettico, ama il cinema ed è una di quelle persone che ammiro tanto perché è coerente con le sue idee, dedica davvero la sua vita al cinema. Il suo modo di lavorare è più o meno questo: va da qualche parte, si inserisce in quel luogo e impara dalle persone che lo aiutano davvero a costruire la storia. Vive proprio l’esperienza, trova una sorta di verità, qualcosa che accade in una comunità o in una situazione e poi inizia a creare da lì. È un metodo molto organico, autentico e onesto. E anche dopo questa vittoria agli Oscar manterrà l’assoluto controllo dei film che fa. Ti faccio un esempio, per capirci. Viaggiavo molto quando uscì Anora e gli chiesi: “Sean, sono un po’ in imbarazzo, ma muoio dalla voglia di vedere il tuo film. Potresti mandarmi un link?”. Lui mi rispose: “Non esiste un link, mi rifiuto di mandarli. Ti organizzo una proiezione”. È un duro e puro del cinema, un vero professionista.
E, parlando sempre di nuovi autori, cosa ti piace del cinema di Yorgos Lanthimos?
Conoscerlo significa amarlo, cos’altro posso dire? È davvero divertente lavorare con lui. È poliedrico, è molto bravo in tantissime cose. E sto iniziando a riconoscere un filo conduttore nei registi che mi piacciono molto: sono pratici, non delegano. Questo vale anche per Robert Eggers. Sono esperti di tutto ciò che riguarda il film, lasciano la loro impronta su tutto, mettono insieme una squadra e lavorano insieme ai loro collaboratori. È un modo molto personale di fare film. E Yorgos è così, è straordinario. Si intende di danza, musica, performance, sa come parlare con gli attori, ha un occhio fotografico meraviglioso… potrei andare avanti ancora e ancora. Ed è un piacere perché è molto serio in quello che fa, ma l’atmosfera sul set è molto giocosa. Mi prende molto in giro. Non lo consiglio a tutti i registi, ma lui riesce a farla franca.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Dior
Ho letto che hai contattato tu Eggers dopo aver visto The Witch. Cosa ti ha colpito?
È molto facile entrare nei suoi film, comprenderli. Anche se sono in costume. Anche se a volte sono in un linguaggio che non parliamo tutti i giorni. Ci entro molto facilmente perché tutto ciò che è nell’inquadratura è lì per una ragione. Ed è grazie alla sua attenzione ai dettagli, alla sua passione, alla sua intelligenza, alla sua pazienza. Ho visto The Witch ed era come se fossi lì, con i protagonisti. È questo che lo rende fantastico. Ed è – di nuovo –un regista “ossessionato”, che dà tutto al suo lavoro. In un certo senso mi capisce, sa che cosa mi spinge a dare tutto.
Sei riuscito, caso più unico che raro, a rimanere profondamente dentro all’industry stando però fuori da Hollywood. Qual è il tuo segreto?
Non voglio dire che sia un caso, sono semplicemente riuscito a farlo, sempre guidato da quello che amo. Sono qui in Italia per amore e adoro stare qui, amo la cultura, le persone… Quando devo andare da qualche parte posso farlo, ma non devo per forza vivere nella società di Hollywood per lavorare nel cinema. Ovviamente non è certo qualcosa che ho pianificato, è successo e basta. Ero felice a New York, e quello che mi ha tenuto lì è stato soprattutto il Wooster Group, mentre quello che mi ha portato in Italia è stato inizialmente l’amore. E poi ho lavorato così tanto, anche in film americani girati all’estero, che è diventato più pratico stabilirsi in Europa.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Prada
Parliamo un po’ dell’Italia. Sei qui in questo momento o a New York?
Sono in Italia.
Dividi ancora il tuo tempo tra l’Italia e gli Stati Uniti?
Sì, ma ora sto molto meno a New York. Dipende da dove lavoro e da cosa succede nella mia vita. Considero entrambi i posti casa, ma ora sto molto di più in Italia. E mi sento, a poco a poco, sempre meno immigrato e sempre più italiano.
In cosa?
Il modo in cui parlo e gesticolo, i miei gusti in fatto di cucina, il mio approccio al cibo, il mio modo di viaggiare, il mio modo di sentire la natura, le mie idee politiche, tante cose.
E cucini pure?
Sì, ma meno adesso, perché non ho sempre tempo. Però mi piace. Mia moglie [la regista Giada Colagrande] mi ha ingannato, mi ha insegnato a cucinare, quindi, quando siamo da soli, cucino io. Fondamentalmente sono pescetariano. Faccio cose in padella, niente di troppo elaborato.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Paul Smith
Sei venuto in Italia oltre 20 anni fa per girare Le avventure acquatiche di Steve Zissou con Wes Anderson: ma è vero che hai cercato tu pure lui, prima di Eggers?
Sì, sì (ride). È una bella storia perché l’ho contattato e l’ho invitato a uno spettacolo teatrale. Gli è piaciuto e siamo usciti, abbiamo parlato molto e alla fine mi ha detto: “Ascolta, mi piacerebbe lavorare con te, ma vado in Italia a girare questo film e ci vorrà un po’ prima che ne faccia un altro, quindi ci vediamo tra quattro o cinque anni”. E io ho pensato: “Ok, è giusto, peccato. Aspetterò”. E poi, un paio di mesi dopo ho ricevuto una chiamata, era Wes: “Qualcuno ha abbandonato il film e mi piacerebbe che tu interpretassi questo ruolo”. Me l’ha descritto. E io ho detto: “Fantastico”. Poi sono venuto in Italia e ovviamente questo mi ha cambiato la vita perché non solo ho fatto altri film con lui, ma è qui che ho incontrato mia moglie. Anche se c’ero già stato, è come se mi avesse aperto le porte dell’Italia. Giada ed io ci siamo sposati in modo molto semplice in Comune (lo dice in italiano) a New York, poi abbiamo fatto una grande festa in Puglia con gli amici.
Sei molto geloso della tua vita privata, ma so che hai una fattoria fuori Roma.
Sì.
Con gli alpaca: ho visto la foto che Mark Ruffalo ha postato su Instagram.
Gli ho detto che non avrebbe mai dovuto pubblicarla e l’ha fatto comunque! Ma come si fa con questi attori?! (ridiamo) Scherzi a parte, è davvero casa, sono molto legato a quel posto. E mi piace dilettarmi con le cose semplici che la fattoria mi permette di fare. Quindi se ho un po’ di tempo lo trascorro lì. La gente mi chiede: ma non ti prendi mai una vacanza? Quando vado a girare un film in Nepal o in Sud America è una specie di vacanza, perché io faccio una vita diversa. È un invito ad avere pensieri diversi, sentimenti diversi, a relazionarsi in modo diverso con persone diverse, il miglior tipo di viaggio che ci sia.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Saint Laurent
Segui il cinema italiano? Hai qualche film preferito?
Quando sono arrivato qui ho ricevuto una grande formazione sul cinema italiano, perché per tanti anni la mia identità è stata molto più legata al teatro e al mondo dell’arte, non conoscevo il cinema altrettanto bene. Non sono uno di quelli che sono cresciuti guardando la Tv o andando in sala. Ero un tipo che viveva all’aria aperta oppure stava chiuso in un teatro, quindi avevo molto da recuperare. Sicuramente l’età dell’oro del cinema italiano l’ho conosciuta tramite Giada. E ora guardo un po’ di tutto in realtà, cerco di non avere dei preferiti, perché poi inizi a formarti opinioni troppo rigide.
Hai avuto molto più a che fare con il teatro italiano che con il cinema italiano, escludendo ovviamente la collaborazione con tua moglie. L’unico film che hai fatto con un regista italiano è Finalmente l’alba di Saverio Costanzo. Posso chiederti perché?
Ho girato molti film con Abel Ferrara in Italia, quelle sono produzioni italiane, magari sono miste a livello di lingua. Sai, il mio italiano non è un granché.

Foto: Ilaria Ieie; Total Look: Saint Laurent
Non è vero, ti ho sentito parlare prima.
Il fatto è che non faccio parte di nessuna industria in particolare. Sono un cittadino del mondo del cinema e vado dove la gente fa cose che mi piacciono, non ho regole. Devo accettare però che per qualsiasi film in italiano sono limitato dalla lingua. E poi ci sono state anche tante opportunità nei posti più vari. Ma adoro lavorare qui. Mi è piaciuto collaborare con Abel in modo molto down and dirty. Ho girato a Cinecittà molte volte, e anche in altri posti in Italia per vari film. E anche se l’unica produzione italiana al 100% è Finalmente l’alba, mi sento più parte del cinema italiano di quanto pensi.
E c’è un regista italiano con cui ti piacerebbe collaborare?
Sì, ma non te lo dirò.
Ma come!
In realtà ce ne sono diversi, ma ce n’è uno che ho sempre seguito, penso sia davvero bravo, lui lo sa. Però lasciamo che siano i lettori a indovinare.
Magari dacci un indizio.
Mi piacciono molto i cani. È un indizio molto astratto, lo so, ma io ho ben cinque cani. Vediamo se indovinano…

Foto: Ilaria Ieie
***
Credits:
Photographer: Ilaria Ieie
Editor in Chief: Alessandro Giberti
Producer: Maria Rosaria Cautilli
Art Director: Alex Calcatelli per Leftloft
Fashion Editor: Francesca Piovano
RS Graphic Designer: Stefania Magli
Talent Press Office: Narrative Pr.
Palazzo Agency Production Unit: Cristina Mazza
Palazzo Agency Creative & Style Manager: Eleonora Gaspari
Style Assistants: Alessandra Caponegro & Giovannella Calogero
Talent MUA: Claudia De Simone
Groomer: Cosimo Bellomo
Director & Editing: Simone Durante
Camera Assistant: Emanuele Durante
Photographer Assistant: Giacomo Gianfelici
Location: Tano Caruso