‘The End’, cantando su quel che resta del mondo | Rolling Stone Italia
Tutti insieme disperatamente

‘The End’, cantando su quel che resta del mondo

Dopo una doppietta di documentari di culto, Joshua Oppenheimer passa alla fiction con un musical-horror che parla del nostro tempo. Feat. Tilda Swinton, George MacKay e Michael Shannon. L’abbiamo intervistato

‘The End’, cantando su quel che resta del mondo

Da sinistra: Michael Shannon, George MacKay, Tilda Swinton e Bronagh Gallagher in ‘The End’ di Joshua Oppenheimer

Foto: Neon

Ogni film post-apocalittico è un po’ più vicino alla realtà, visti i tempi che corrono. L’idea di vedere un domani Jeff Bezos e gentile consorte invece che sull’isola di San Giorgio in una lussuosa casa a centinaia, migliaia di metri di profondità, speriamo almeno un posto molto meno affascinante della miniera di salgemma di Petralia Soprana, in Sicilia, per sopravvivere in una terra morente non sembra più fantascienza. The End (nelle sale italiane dal 3 luglio, distribuito da I Wonder Pictures), il primo film di finzione del regista del bellissimo dittico documentario formato da The Act of Killing e The Look of Silence, esce in un momento che vede l’umanità alle prese con ghiacciai che si sciolgono, guerre un po’ ovunque, fascisti pure, idioti sparsi a presiedere vari governi. Insomma, una strada in discesa, che Joshua Oppenheimer vuole rendere solo apparentemente più piacevole cantandoci sopra.

«The End è ispirato ai musical di Rodgers e Hammerstein», mi dice il regista citando, per chi non lo sapesse, il duo di Tutti insieme appassionatamente, ma in realtà questo film con protagonisti Tilda Swinton, George MacKay, Michael Shannon e Moses Ingram assomiglia più a un’opera lirica tragica e grottesca, e naturalmente anche molto politica, perché il messaggio è che il capitalismo è veleno per la Terra e per l’umanità tutta, e non c’è scampo a questo. «Nell’epoca d’oro di Broadway, i protagonisti dei musical usavano le canzoni, brani sin troppo solari e ottimisti, per svelare le loro verità più profonde. Qui ho voluto fare il contrario, creare un negativo, un musical dell’età oscura in cui la canzone veicola la menzogna, mentre è il silenzio a urlare la verità. Quando un personaggio non riesce più a cantare e si scontra con la verità, è lì che emerge la verità assoluta, e noi riusciamo a superarla».

Il musical come forma di autoanalisi, ma anche di pentimento o, come in questo caso, di autoindulgenza, quella di un padre (Shannon) convinto di essere stato un grande uomo nella vita precedente, di avere difeso la famiglia e uno stile di vita contro le aggressioni di ideologie pericolose come il socialismo. O quella di una madre (Swinton) che per la sicurezza e il lusso ha rinnegato tutto. C’è molto dolore nelle viscere della Terra, e ce n’è ancora di più fuori, Joshua lo sa, perché ne è da sempre un attento osservatore. Ma soprattutto c’è una costante menzogna nei confronti di noi stessi, e questo è uno dei temi più importanti di The End.

THE END | Trailer italiano ufficiale HD

«Il problema dell’autoinganno è stato amplificato dai social media, dove ci troviamo consapevolmente in contatto con conoscenti, amici e familiari. In questo spazio, tendiamo a offrire un’immagine idealizzata di noi stessi, alla costante ricerca di approvazione e conferme. Si è creato un percorso collettivo intorno all’idealizzazione delle nostre vite. Nei momenti di crisi, cerchiamo rassicurazioni da parte degli altri che ci confermino di essere davvero quella versione idealizzata di noi stessi. Stiamo così costruendo una realtà parallela fondata sulla negazione, anziché approfondire in modo autentico la nostra connessione con gli altri. Allo stesso tempo, distogliamo l’attenzione dalle crisi, sempre più gravi, che, come specie e società, dovremmo affrontare».

«Ogni volta che scorriamo le notizie e leggiamo di migliaia di persone che annegano nel Mediterraneo, proviamo dolore solo per un istante», continua Oppenheimer. «Subito dopo passiamo alla foto perfetta della cena della sera prima. Stiamo attraversando quella che chiamo la fase delle tre lacrime. Milan Kundera parla delle “due lacrime”. Dice che, di fronte a qualcosa di veramente triste, si versa una prima lacrima, che è un atto etico: un obbligo morale verso ciò che ci sconvolge. Subito dopo, ne segue una seconda, perché sentiamo che il mondo intero sta piangendo con noi. E, secondo lui, è in quel momento che nasce il sentimentalismo. Kundera parla di kitsch, ma il concetto è lo stesso. È l’inizio dell’evasione dalla realtà, il momento in cui spostiamo l’attenzione dal nostro dovere verso gli altri al conforto dato dall’idea di far parte di una comunità che soffre con noi. Ma nel farlo, perdiamo il legame con la prima lacrima, e con essa l’intero obbligo morale».

E allora, come si risponde creativamente a tutto questo? «Nel mio lavoro, cerco sempre di accompagnare le persone alla terza lacrima, che non si versa solo per ciò che accade ai personaggi, ma per le terribili conseguenze del loro rifiuto della realtà. È quella lacrima che ci fa riflettere sul prezzo da pagare per aver scelto la via della negazione. Ogni volta che ci lasciamo sconvolgere, anche solo per un attimo, e poi, subito dopo, permettiamo a noi stessi di tornare alla normalità, entriamo, volontariamente o senza rendercene conto, nella nostra piccola versione del bunker di The End».

Insomma, siamo prigionieri di noi stessi e non lo sappiamo. Certamente lo siamo di un sistema che ci costringe a scelte obbligate, che potremmo chiamare acquisti, a indignarci senza potere fare niente, a subire l’orrore facendolo sembrare normale, e non solo, anche ineluttabile. The End è un musical-horror, perché orribile è la vita che ci circonda. Purtroppo, fuori da un cinema, se ti metti a cantare per strada per condividere il tuo dolore, il massimo che ottieni è un TSO.

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