Intervista a Terry Gilliam against the machine
Cover Story

Terry Gilliam Against the Machine

Il conformismo di Hollywood, le storture del #MeToo, la dittatura del politically correct, l'essere un 'old white man' (cit.) nel mondo di oggi. E, ovviamente, il cinema: quello dei Monty Python e le sue distopie (before it was cool), che non si sono mai piegate alle regole dell'industry. Più che un'intervista, un manifesto

Foto: Fabio Serino

Terry Gilliam dice che di solito i giornalisti trascrivono le sue parole, ma non quando ride mentre le pronuncia: «E, ovviamente, l’intervista così non è la stessa cosa». Quindi cercherò di segnalare religiosamente le sue risate, acute, fragorose, sguaiate qua e là (ma pure le mie, inevitabilmente, mentre ci parlo) e anche i suoi gesti, altro dettaglio da non sottovalutare per raccontare qualcuno che ride da sempre, incessantemente, di tutto: «È come se sui giornali si dimenticasse l’ironia. Ma l’ironia e le sfumature sono essenziali nel modo in cui io vedo il mondo», afferma più o meno a metà della nostra chiacchierata virtuale, a cui lui si è presentato con largo anticipo perché «se fossi arrivato puntuale non avrebbe funzionato niente e sarebbe stato un casino». God save Terry Gilliam, l’americano dei Monty Python, il pioniere della distopia al cinema con Brazil, Il barone di Münchhausen, mister Esercito delle 12 scimmie e Paura e delirio e Las Vegas, l’alieno del cinema, l’anarchico temuto dall’industry (ci arriveremo). 82 anni against the machine.

L’occasione è la sua presenza all’ORA! FEST, festival di cinema che si tiene ogni anno in Puglia, con un focus particolare su ambiente, sostenibilità e giustizia sociale: «Il mio problema è che passo poco tempo in Italia, sono rimasto un po’ bloccato in Inghilterra, ma avevo visto le foto di Monopoli (si incarta un paio di volte, e ridiamo, nda) su Google Earth e mi è sembrata fantastica. Confermo. E poi, quando mi hanno invitato, mi ha entusiasmato l’idea che personaggi “famosi” andassero a consegnare premi a persone sconosciute ai più, che però hanno fatto cose interessanti e importanti. Poi andrò a un’altra manifestazione a Montone, ho una casa in Umbria e finalmente potrò tornarci».

Foto: Fabio Serino. Direzione creativa: Alex Calcatelli per LeftLoft

Com’è essere invitato a tutti questi festival?
È quello che succede quando invecchi e tutti dicono che la tua carriera è finita, che è ora di andare in pensione (ride forte). Quando gli ho spiegato che sarei stato ospite a diversi festival nei prossimi giorni, Jeff Bridges mi ha detto: “Insomma, stai facendo il tuo giro d’onore”. Ma la gara mica è finita, sono ancora in pista. Spero (ridacchia).

Ecco, dicci che dirigerai un altro film, per favore.
Domani ho un incontro con un possibile finanziatore per il mio prossimo film.

Puoi anticiparci qualcosa?
Si chiama The Carnival at the End of Days: Dio decide di spazzare via l’umanità, colpevole di aver rovinato questo bellissimo giardino in cui viviamo.

C’è già qualche nome di attori in trattativa?
Sì, ma non posso dirlo finché non saremo certi di avere i soldi e tutti i contratti firmati.

L’anno prossimo i Monty Python compiranno 55 anni: sarebbe possibile oggi quello che avete creato allora?
Be’, non è impossibile, ma probabilmente non avremmo convinto la BBC a salire a bordo (ride di gusto). Però ci sono diversi modi di fare rumore, far riflettere e ridere la gente e guardare all’assurdità del mondo, come abbiamo sempre fatto noi.

Chi prendereste di mira oggi? I politici? Le corporation?
I Millennial (aspetta che io rida, e poi ride pure lui).

Perché?
Perché sono intrappolati in un sacco di teorie limitanti sul mondo e sulla vita. E per loro è tutta una questione di chi opprime e di chi viene oppresso, eppure il mondo è più equo ora di quanto non lo sia mai stato. Il vero problema semmai è che pochissime persone hanno in mano i soldi e tutti gli altri sono fottuti (ride).

Semplice.
La vita è sempre più semplice di quanto non lo siano le moderne teorie di genere e razza. Sono molto complesse e rendono sempre più facile sentirsi schiacciati e incapaci di raggiungere degli obiettivi, è pazzesco. La vita è sempre stata difficile. Ci sono quelli che decidono che non possiamo farci nulla e altri che pensano: “Aspetta un attimo, facciamo qualcosa!”. Questo però non significa che avranno fortuna. Ecco, la fortuna è molto importante, ma tutte le grandi teorie non la includono mai nell’equazione.

Foto: Fabio Serino

Credo che con i Monty Python abbiate dato una delle migliore interpretazioni di diversity di sempre con quella scena di Brian di Nazareth in cui la folla dice: “Siamo tutti individui!” e uno alza la mano e replica: “Io no”.
(ridacchia) Brian di Nazareth è il nostro film migliore perché in un certo senso già allora diceva tutto del mondo in cui viviamo. Eravamo parecchio avanti e per me quella scena è totale: non è vero che siamo tutti uguali, la cosa bella di noi esseri umani è che siamo tutti diversi. In realtà con i Monty Python non attaccavamo nessuno nello specifico, mostravamo l’assurdità del mondo e quanto fosse buffo. Se impari a guardare le situazioni con il giusto approccio, il mondo è molto divertente. Puoi anche arrabbiarti, ma il modo migliore per affrontare quello che non ti piace è ridere. O almeno, io la vedo così (e, ovviamente, ride).

È questa l’eredità dei Monty Python?
Lo spero. Ora siamo anziani, non siamo più divertenti, dovremmo mollare. Tizi come me e John Cleese vengono cancellati perché siamo old white men e la gente pensa: “State zitti, avete fatto il vostro tempo”.

Qual è la storia più divertente, il ricordo più bello con i Monty Python?
È stato un periodo meraviglioso. Noi sei avevamo un programma sulla BBC in un periodo in cui esistevano solo tre canali da guardare, quindi avevamo la grande opportunità di raggiungere molte persone e la completa libertà nel farlo. Se qualcosa ci faceva ridere, la includevamo e abbiamo trovato milioni di persone che ridevano con noi. Non sapevamo se sarebbe successo, perché anche allora ci spingevamo sempre oltre i limiti: “Questa cosa fa ridere”. “No, non possiamo riderci sopra”. E noi dicevamo: “Ecco come si fa” (ride).

Come raccontereste la realtà oggi?
Non credo che potremmo farlo, non ci piacciamo più tanto. Ognuno è andato per la propria strada. Ci siamo divertiti, poi ci siamo lasciati e basta. Siamo ancora in contatto e bla bla bla. Ma siamo tutti cambiati in modi molto diversi e non reggeremmo l’intensità del lavorare insieme e dover produrre materiale per uno show ogni settimana. C’è una grande libertà nel non avere abbastanza tempo.

La satira è davvero morta?
La satira non è affatto morta, è solo che le persone – soprattutto i comici – sono più nervosi rispetto a quello che dicono e al modo in cui provano a farlo. Il mio prossimo film è una satira. In realtà il titolo è proprio A Carnival at the End of Days. A satire.

Ecco, sì, meglio specificare.
Sì sì, lo so e non penso che Hollywood mi darà un centesimo. Hollywood ha molta paura di dire e di fare qualsiasi cosa, è incredibile quanto siano spaventati. Ormai qualche anno fa ho fatto dei commenti sul MeToo (in sostanza: aveva detto che gli sembrava una sorta di caccia alle streghe e che, da maschio bianco, era stanco di essere incolpato per tutto quello che non andava nel mondo, nda), quando tutto sembrava un po’ fuori controllo e molte persone anche innocenti, e che magari davano fastidio, venivano condannate. Quello che ho detto non importa, però mi ha chiamato una delle attrici con cui avevo lavorato in un film anni prima, che ora è molto affermata a Hollywood, e mi ha confessato: “Sono d’accordo con quello che hai detto, Terry”. E io ho replicato: “In quanto donna, parleresti? Perché io, da uomo, devo tenere la bocca chiusa ora, ho già detto troppo”, e lei ha risposto: “Non posso”. “Cosa vuol dire che non puoi?”. “Ho troppa paura, temo che poi se la prendano con me”. Ed è quello che è successo con tanti movimenti di questi tempi. Le persone intelligenti hanno paura di dire la loro perché gli attivisti sono così brutali, violenti e arrabbiati. Non c’è spazio per la discussione o il contraddittorio perché loro hanno ragione e tu hai torto. Ormai è qualcosa di religioso. Odio questo approccio fondamentalista, penso che la gente debba essere in grado di parlare, discutere, litigare, è ciò che rende la vita interessante. E solo così impariamo qualcosa.

Foto: Fabio Serino

Cosa ne pensi della cancel culture e della vicenda di Johnny Depp? So che siete molto amici. E sì, c’è stato un lieto fine per lui, ma immagino sia stata dura.
È stata molto dura, penso che ne risenta ancora adesso e il processo, che è stato una sorta di show televisivo, è stato noioso, ma guardarlo creava dipendenza perché era così terribile vedere due persone che si sono infilate in un tale casino, guarda cosa si sono fatte l’un l’altro. Johnny è fantastico, è un caro amico, ha vinto e penso che per molti versi ci sia riuscito perché ha tanti fan che hanno combattuto per lui online. Non sono sicuro di quello che Hollywood pensi di Johnny, è molto difficile capire quale sarà il suo futuro, ma al momento è il re di Francia (sorride, riferendosi al ruolo in Jeanne Du Barry di Maïwenn, che ha aperto il Festival di Cannes e dove Depp interpreta Luigi XV, nda).

In un momento in cui il politicamente corretto è tutto, come fai a essere così godibilmente politicamente scorretto?
Perché chiaramente sono un maschio bianco con un potere estremo, come tutti i maschi bianchi (ride fortissimo). Abbiamo il potere di continuare a sopravvivere e controllare, opprimere tutte le persone che la pensano diversamente. No, davvero, credo che sia perché non mi interessa, perché non ho mai avuto una carriera. E questo ha reso tutto più facile.

Vabbè, no.
No, ascolta: ho fatto molti film e qualcuno ha avuto successo, ma non ho mai pensato a una carriera. Non può essere distrutta, perché non ne ho mai avuta una. Mi piace ridere delle cose e, dato che dico quello che penso, vengo messo a tacere, cancellato. Perdo dei lavori ma… (alza le spalle, allarga le mani).

Pensi che Hollywood ti tema in qualche modo?
Non lo so, davvero, ho perso tutti i contatti con Hollywood. So che le persone che lavorano ancora a Hollywood si sentono così limitate in quello che possono pensare o dire…e quindi camminano in punta di piedi tutto il tempo, terrorizzate. Ed è pazzesco, è come stare sotto un regime autocratico. Quando hai paura, devi avere il coraggio di dire quello che pensi e subirne le conseguenze.

Te l’ho chiesto perché mi è capitato di pensare che fossi perfetto per dirigere qualche film Marvel.
Be’, nessuno me lo ha mai chiesto… Se i film Marvel fossero esistiti quando ho iniziato, li avrei girati eccome, perché amo quel tipo di film, ma da quando sono diventati egemoni… io non voglio fare cose così dominanti. Voglio testare i limiti, spingermi un po’ oltre e vedere dove si può arrivare, come si possono cambiare le cose.

Foto: Fabio Serino

Il mondo ha necessità di più persone come te, che si spingano un po’ al limite?
No, perché altrimenti sarei senza lavoro (scoppiamo in una risata entrambi).

Vero, però credo che ce ne sia un gran bisogno.
Ho una campagna in corso, si chiama The Great Unwokening. Lo slogan è: “Riappropriarsi di ciò che è inappropriato” (ride). C’è un grosso problema: anche nelle università gli studenti non vogliono ascoltare le lezioni di chi la pensa diversamente da loro, si sentono a disagio davanti a idee differenti, devono tornare sempre nel loro posto sicuro a tenersi per mano con altri colleghi. E la parte peggiore di tutta la faccenda è che chi amministra le università sta dalla loro, vogliono che gli studenti si sentano a proprio agio. Ma questo tipo di istituzioni non dovrebbero essere così: dovrebbero invece ospitare tsunami di idee nuove, pensieri complessi, cose strane in modo da espandere la tua visione del mondo anziché tenerti al sicuro e proteggere la tua concezione ristretta. Le persone ai vertici – che si parli delle università, di Hollywood o di qualunque altra organizzazione – sono le più spaventate, vogliono stare, e qui cito: “dalla parte giusta della storia”. Ma è un modo di pensare senza senso, dobbiamo essere più intelligenti di così. Io sono stato cacciato dall’Old Vic Theatre. In pratica hanno assoldato un gruppo di ragazzini, che sono lì per renderlo “un posto sicuro”, appunto (ride). Ma io sono inoffensivo, non attacco nessuno, fisicamente o mentalmente, faccio soltanto battute, scherzo.

Direi che è un po’ diverso, no?
In realtà non è affatto sicuro permettere a un bambino di 80 anni come di me lavorare tra i più giovani, ma è quello che è successo (sorride). Il problema erano i ragazzi, reagivano in modi ridicoli. Cercavano di trovare dei motivi per sbarazzarsi di un vecchio maschio bianco. Ma il vero problema sono soprattutto le persone che gestiscono il teatro: le prevendite del nostro musical (Terry co-dirigeva una nuova versione di Into the Woods di Stephen Sondheim, nda) erano andate alla grandissima, e loro si sono schierati dalla parte dei ragazzi contro lo spettacolo. Io sono stato eliminato e hanno dovuto restituire tutti quei soldi. Parliamo ovviamente di un teatro in difficoltà finanziaria, che ora è in condizioni peggiori rispetto a prima. Dai, è stupido.

Qual è il lavoro di un comico oggi?
È sempre stato far ridere la gente (ride lui), semplice. E mi è sempre piaciuta l’idea che la commedia allarghi anche la mente delle persone. Amo canzonare qualcosa per far riflettere la gente su quella stessa cosa. Ma, alla fine, un comico deve far ridere.

Ed è dura far ridere la gente adesso?
Non lo so, sono senza lavoro da sei anni (ride forte).

Sai qualcosa della situazione politica italiana?
Ah, miss Meloni! Sembra che stia facendo un lavoro migliore dei leader in Inghilterra (ride).

Fa parte di quell’ascesa dell’estrema destra, di quel nazionalismo che ha vinto in un certo senso in gran parte dell’Europa, dopo aver dominato nel mondo fino a pochi anni fa, vedi Bolsonaro e soci.
Bolsonaro è ancora vivo? Lula è tornato tra noi (ride). Trump ha aperto il vaso di Pandora, da cui sono usciti tutti i mini Trump: Boris Johnson, Bolsonaro, Orban… ed è stato orribile, penso ci sia un ritorno al nazionalismo quando i leader hanno finito le idee. La Meloni veniva bollata come fascista, ma da quello che leggo si sta spostando più al centro, quindi sembra una donna intelligente. È stata eletta, non so se stia facendo un buon lavoro, ma penso che sia pragmatica. Ed è quello che ci si aspetta da un leader politico: che sia pragmatico, non che sia un ideologo.

Foto: Fabio Serino

Qual è la cosa che ti diverte di più in questo momento?
(Si tocca la faccia) Il mio problema è che non rido più tanto, ora tu ed io ci stiamo divertendo a chiacchierare ma la maggior parte delle mie giornate sono decisamente più tristi. La mia nipotina di sette anni è l’unica ragione per cui penso valga la pena continuare a vivere. Quando vedo come cresce, è la sua primavera. Di recente ho imparato che il cervello di un bambino fino a sei anni ha molti più neuroni di quanti ne possa avere io. Perché i neuroni muoiono man mano che invecchiamo: in pratica quando abbiamo più intelligenza esperienziale, spariscono. Amo il mondo che si crea attorno a lei, come reagisce. E la cosa più bella è che ha un gran senso di umorismo. Un bambino nato con quello humor non potrà che fare bene nella vita.

Ho l’impressione che l’industry abbia sempre fatto fatica a definirti: ti hanno chiamato anarchico, alieno. Ma chi è Terry Gilliam?
È solo un vecchio che non riesce a trovare lavoro (ride). Non credo di essere cambiato molto. Sono più stanco, la mia resistenza non è più quella di una volta, ma il mio cervello funziona ancora più o meno allo stesso modo. Mi sono sempre definito un “assurdista”, un teorico dell’assurdo. Sto cercando di mantenere vivo l’assurdo nel mondo, quando ti guardi intorno è ovunque ed è sempre più difficile da definire perché l’assurdo moderno è talmente brutto (ridacchia). Anche Trump è un predicatore dell’assurdo, ma è un mostro. Boris Johnson, stessa cosa, ma è pericoloso perché non si assume le sue responsabilità. Ed è importantissimo che ognuno lo faccia, e non importa se abbiamo successo, falliamo o finiamo per scendere a compromessi, è nostra responsabilità e non perché siamo stati oppressi, non perché siamo una minoranza, è perché abbiamo fatto una scelta, e quindi è colpa nostra. Non vorrei parlarne, ma ti faccio un esempio: I banditi del tempo diventerà una serie adattata da Taika Waititi. Più o meno un anno fa ho partecipato a una call su Zoom con i produttori. Erano in 10 e ho chiesto se potevano farmi uno schemino su come funzionasse: chi sta in cima, chi sta sotto, con chi devo parlare. Be’, la piramide non esisteva: erano tutti responsabili, il che significa che nessuno è davvero responsabile. Lo vedo accadere sempre più spesso e mi dà davvero fastidio. Anche se poi personalmente magari non ci vado d’accordo, mi piacciono le persone quando dicono: “Io sono il capo, si fa così, quindi: o lavori in questo modo o niente”.

Che poi è un po’ quello che fa un regista, no?
Esatto, anche se in realtà, come regista, preferisco abbattere le gerarchie, sul set non mi piacciono, cerco di sbarazzarmene. Quando stavamo girando Il barone di Münchausen in Italia con una super troupe, c’era un grandissimo direttore della fotografia, Peppino Rotunno. Discutevamo parecchio perché volevo che tutti potessero venire a parlarmi e a lui questa cosa proprio non andava giù, voleva essere l’unico tramite con me. Gli dicevo: “Peppino, io sono protestante e tu sei cattolico. In quanto cattolico, tu sei il Papa e tutti devono passare attraverso di te per arrivare a Dio. Io invece sono protestante, e tutti possono parlare direttamente con Dio” (ride). Quando fai un film è molto facile che le persone si pieghino al tuo volere, ma io voglio che tutti siano coinvolti. Sono disposto a discutere con chiunque, ma voglio che tutti abbiano la possibilità di dirmi: “Terry, è un’idea stupida”. Mi aiuta perché mi fa concentrare su quello che è veramente importante.

Se ti guardi indietro, qual è il film di cui sei più soddisfatto?
Il film più bello che ho fatto probabilmente è La leggenda del re pescatore, perché avevo un cast fantastico, una sceneggiatura splendida e, be’, in pratica, sono riuscito a non rovinare tutto (ride). È stato meraviglioso, ma il più divertente è stato senza dubbio Paura e delirio a Las Vegas. Ridevamo sempre, costantemente. Giravamo in strada senza assistenza, lo facevamo e basta. Ho riso tutto il tempo.

Nella tua carriera hai diretto molte star del cinema, ma nei tuoi film è come se quella patina da divi sparisse.
Capisco perfettamente quello che intendi. Voglio lavorare solo con attori che si dedichino al personaggio, non con quelli che recitano per il loro pubblico, per la loro fan base. Credo che il punto sia questo. Penso al Re pescatore: ho rivisto il film un paio di settimane fa perché l’abbiamo restaurato in 4K e Robin (Williams, nda) avrebbe dovuto vincere l’Oscar per quella interpretazione. È straziante e divertente insieme, ci ha messo dentro tutto, ma ricordo che Robin ha sentito la pressione dei fan. Iniziava a improvvisare, ad aggiungere elementi al copione e io gli dicevo: “Ok Rob, ti lascio un take per provarci – e spesso venivano fuori anche cose buone –, ma poi torniamo alla sceneggiatura”. E lui ascoltava, finché poi ha smesso di pensarci. Jeff Bridges poi è stato molto importante: impediva a me e Robin di partire per la tangente, perché altrimenti noi avremmo riso tutto il tempo come ragazzini.

Foto: Fabio Serino

Sei uno dei pionieri della distopia al cinema con Brazil. Credi che ormai sia diventato un termine troppo abusato?
Non lo so, ma ho scritto questo nuovo film perché sono arrabbiato per come è diventato il mondo. Voglio dire la mia. Non siamo capaci di essere pragmatici e il nostro sistema dovrebbe funzionare meglio. Non c’è dubbio che il cambiamento climatico sia il problema più grande per il futuro, eppure nessuno sembra essere in grado di fare qualcosa. Questa è una delle debolezze della democrazia, perché tutti pensano alle prossime elezioni nel giro di un paio d’anni, ma nessuno pensa a lungo termine. L’umanità non è molto brava a risolvere i problemi in anticipo, ma invece lo è a cadere da un precipizio e a rompersi in mille pezzi. E però poi è in grado di ricostruire.

Se rifletti sul tuo Don Chisciotte, che avevi sognato di fare per 30 anni, cosa pensi?
Che abbiamo realizzato un film meraviglioso, ma è stato il titolo peggio distribuito in cui sia mai stato coinvolto, in parte a causa di Paolo Branco, un non-produttore, e delle sue macchinazioni legali, le lettere con cui ha spaventato tutti i distributori migliori. E così siamo rimasti con chi non aveva soldi da perdere (ride) o da guadagnare. È stato terribile perché ero davvero molto felice del risultato, e ci sono state tante persone che l’hanno adorato, ma quando fai un film vuoi che lo vedano tutti. E purtroppo questo non ha avuto una vera possibilità.

Ricordo la standing ovation a Cannes di tipo 20 minuti.
Ma pensa nei cinema, sarebbe stata 20 volte più grande. In realtà quella della standing ovation è stata una sensazione molto strana per me, non sapevo se fosse per il film o solo per la mia perseveranza.

Entrambi!
Ma non me ne frega niente della mia perseveranza, vi è piaciuto il film o no? (gesticola ridendo).

Come scegli i tuoi attori?
Istinto. Capisco subito se la persona mi piace e se sarà bello dirigerla. Ma ci sono attori meravigliosi con i quali ho iniziato a lavorare e che non pensavo fossero davvero giusti per il progetto. Poi però, quando ci siamo incontrati e abbiamo parlato, c’era qualcosa in loro che mi ha convinto: “Voglio che tu faccia parte della nostra spedizione in territori inesplorati” (ride). Ovviamente arruolo molto rapidamente le star perché potrebbero aiutarmi a ottenere i soldi per il film (ride). Dal punto di vista del casting forse L’esercito delle 12 scimmie è stato il film più interessante. L’ho già detto in passato: Bruce (Willis, nda) mi è piaciuto subito e mi ha sorpreso, perché non mi piacevano molto i suoi film, non ero un fan di Die Hard – Duro a morire, ma l’ho incontrato e ho capito che c’era molto di più in lui. E lo stesso vale per Brad (Pitt, nda): non era ancora il divo che è oggi, ma è venuto a Londra e siamo andati subito d’accordo. Mi piaceva, era intelligente e coraggioso: il suo look in 12 scimmie, con gli occhi da pazzo e quei capelli orribili, è stata una sua invenzione. Era come se volesse dimostrare che non era solo “bello”, che era molto diverso da come veniva etichettato. E anche Bruce sembrava voler sottolineare che non era solo un “macho”, ma che poteva anche interpretare un personaggio introverso e sensibile. Ed è quello che amo, dare agli attori lo spazio per mostrare un altro lato di sé.

Ma è vero che ogni volta che inizi un nuovo film pensi sempre che sia l’ultimo?
Sì, perché penso che nessuno mi darà mai più dei soldi (ride).

No, davvero.
Penso che sia positivo accostarsi a ogni film come se fosse l’ultimo, perché rappresenta un po’ sempre l’ultima possibilità di fare qualcosa di buono e interessante. Passo la maggior parte della mia vita a mentire a me stesso cercando di essere qualcun altro (ride).

C’è un film nella storia del cinema che avresti voluto dirigere?
The Defective Detective, che è la sceneggiatura che Richard LaGravenese e io abbiamo scritto dopo La leggenda del Re pescatore ed è rimasta intrappolata nei meandri della Paramount, che non la molla. Richard era a Londra un paio di giorni fa, ne abbiamo parlato e sappiamo entrambi di aver scritto un copione straordinario, un film fantastico che sarebbe diverso da tutto quello che si vede in giro. Abbiamo cercato di liberarlo, ma è complicato perché agli studios non piace lasciar andare un copione, metti che poi abbia successo… Questo è il film che vorrei girare prima di tirare le cuoia (ride fortissimissimo).

Ma invece hai mai pensato di dirigere una serie?
No, la velocità e la durata di un progetto del genere non corrispondono al mio modo di lavorare. Mi piacciono i film, sono disposto anche a fare film che finiranno su Netflix, vado dove mi portano i finanziamenti. Però guarda anche quello che è successo con Netflix: il numero di film che supera le tre ore… ragazzi, solo perché siete registi di successo e questo è il lavoro dei vostri sogni, non potete fare questo al pubblico (ride). Netflix ne è responsabile perché hanno lasciato che Marty con The Irishman arrivasse a tre ore e 29 minuti (!), e poi c’era chi voleva farne anche di più lunghi. No, non è una buona idea.

Foto: Fabio Serino

Pensi che gli streamer stiano migliorando o peggiorando l’industry?
Penso che la stiano rendendo interessante perché c’è più spazio per gli sceneggiatori, per attori che non sono star, per registi di cui nessuno ha mai sentito parlare. E ci sono dei titoli davvero belli.

Il tuo preferito?
Babylon Berlin, straordinario. Poi di recente ho amato Paris Police 1900 e ora sono diventato un grande fan di Succession, ovviamente (ride). Non ho visto Breaking Bad per tipo cinque anni quando è uscita, ma poi l’ho fatto e mi ha lasciato senza fiato. Ho pensato che fosse meglio di tutti i film che avevo visto negli ultimi due anni: scrittura, regia, è tutto brillantissimo. È stimolante perché adesso ci sono così tanti soldi nello streaming, gli studios invece sono ancora un po’ old-fashioned e nerd. Il denaro ha molto più potere ora e il denaro ce l’ha Netflix. I soldi sono essenziali in tutto ciò che facciamo, io continuo a fare film low budget perché è quello che riesco a raccogliere. Münchhausen è stato l’unico film che ha sforato il budget, è successo ed è ancora il film tecnicamente e visivamente più incredibile che ho fatto, ma (alza il dito) non ha incassato molto. E a quel punto la mia capacità di manovra diventa sempre minore, proprio come i budget con cui lavoro (ride mentre usa le mani per far vedere qualcosa che si rimpicciolisce).

Però i soldi sono sacrosanti per fare un film, ovvio, ma credo che la libertà per te sia più importante.
Certo, ho sempre chiesto di avere il final cut e continuerò a farlo. Non ha senso perdere il controllo di quello che fai, e se questo significa non avere tanti soldi a disposizione e doversi ingegnare… A volte queste soluzioni sono anche più interessanti rispetto a quelle che avrei adottato con tutto il denaro che volevo. That’s it. E adesso corro a pranzo con Michael Palin.

Ahahah, davvero?
Ebbene sì, i Monty Python sono ancora amici, questa è la notizia. E ora come usciamo da qui? Ecco il pulsante, ce l’ho fatta. CIAO (in italiano, nda).

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Thanks to La Peschiera Hotel per la location delle foto

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