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Tarantino Unchained, l’intervista esclusiva

Il direttore di “Rolling Stone” incontra il regista più pulp degli ultimi 30 anni. E, davanti a una Diet Coke, parlano del suo ultimo film, “The Hateful Eight”. Spoiler!
«Be the hateful ninth!» Foto: Massimo Coppola

«Be the hateful ninth!» Foto: Massimo Coppola

Ouverture

The Hateful Eight, dal punto di vista strettamente cinematografico, è il miglior film di Quentin Tarantino. Non avrà probabilmente l’impatto dirompente di Pulp Fiction, ma è un film che contribuisce a ridefinire il concetto di “classico”, qualsiasi cosa voglia dire. E bastano pochi minuti per intuirlo. Alla fine, dopo la proiezione alla Guild of Directors di Los Angeles, è una certezza; tre ore di immagini praticamente perfette in 70mm, genialità di scrittura, sia come plot che come dialoghi, recitazione straordinaria e l’uso della musica di Morricone, che, grazie a Tarantino, torna a livelli che non toccava da tempo. È uno spettacolo, colto e divertente, raffinato e paraculo, messo in scena da un gruppo di filmaker eccezionali. Le chiappe fanno fatica a staccarsi dalla poltrona e riaffrontare il mondo “reale”, che, si sa, ormai è un film in digitale.

Il giorno dopo la proiezione, in una suite al centomilionesimo piano del Four Season di Los Angeles, incontro Quentin Tarantino. Ha la giacca di pelle che vedete nella foto di copertina, è rilassato e sembra molto felice. Ci sediamo su un divano. Sul tavolino accanto c’è una quantità infinita di bibite analcoliche, che ritagliano di mille colori lo sfondo di downtown L.A. che se ne sta lì inquadrato in verticale dalle finestre aperte. Tarantino ha appena bevuto una Diet Coke – scelta molto vintage. Quel che segue è quanto ci siamo detti in un’ora circa di conversazione. Ah, prima che me ne dimentichi: ho una certa nausea per l’isteria dilagante sugli spoiler e per di più i veri Tarantiniani conoscono già la sceneggiatura, che era stata diffusa sul web oltre un anno fa. Ma sarò di buon cuore: nel testo tutte le parti che contengono spoiler sono scritte in bianco. Per leggerle, basta evidenziare le parole.

Prima parte

Cominciamo dalla cosa più geek. Perché hai deciso di imbarcarti nell’impresa di girare in 70mm? Hai addirittura preso delle lenti degli anni ’60 e le hai fatte riadattare alle macchine da presa di oggi per proiettare in 70 mm, quando ormai la maggior parte dei cinema proietta solo in digitale.

Io soffro letteralmente di crepacuore al pensiero che la ripresa e la proiezione digitale abbiano conquistato il mondo. Ho lavorato troppo a lungo nell’industria del cinema per accettare standard più bassi di quelli cui ero abituato. Io credo che il digitale dia risultati minori rispetto alla pellicola. Non può diventare l’unico standard per il cinema. E quindi ho semplicemente pensato: se giro in 70mm e ne faccio un caso, allora gli studios, che hanno investito molto nel mio film, saranno costretti a trovare un modo per proiettare in 70mm. E gli europei dovranno seguirli, magari non con la stessa capillarità che possiamo ottenere qui, ma dovranno farlo. Quindi se vuoi vederlo in pellicola, bene, io ti do questa possibilità! Puoi farlo! Poi naturalmente ho pensato che sarebbe stato perfetto per la sceneggiatura. Avrei potuto farne uno spettacolo teatrale e penso che sarebbe stato piuttosto efficace anche a teatro. Ma se devo farne un film, beh allora voglio andare a girare in Colorado, aspettare la tormenta e filmarla come si deve. In 70mm.

Sì, ho pensato subito che fosse una pièce teatrale perfetta. Non è facile controllare uno spazio ristretto con 8 personaggi usando un formato 2.75:1 – cioè panoramico, gigantesco, che vede tutto. Vuol dire avere controllo totale sulla scena, girare lunghe sequenze corali, non trascurare in alcun modo lo sfondo. E ci sei riuscito. Quindi ancora una volta, chapeau Mr Tarantino!
Grazie Mr Coppola. È vero, si svolge per la maggior parte in una singola stanza e dovevo riuscire a creare un’atmosfera di suspense, altrimenti la storia non avrebbe funzionato. Devi “sentire” che qualcosa sta per accadere, che c’è una certa quantità di violenza che incombe sui personaggi per tutta la durata del film, una volta che arrivano da Minnies – il rifugio nel quale si ritrovano. E se funziona, beh è divertente. Ho pensato che girare in 70mm fosse perfetto. Per esempio, rende le inquadrature più intime, soprattutto i primi piani. Ho girato centinaia di primi piani di Samuel Jackson, ma nessuno bello come quelli che ho girato in The Hateful Eight. Puoi letteralmente nuotare nel suo sguardo. Poi il 70mm ti permette di mostrare per bene tutta la scacchiera. Hai due livelli: ci sono gli attori in primo piano, ma vedi molto bene anche tutto quello che succede agli attori in secondo piano. Pensa al personaggio Joe Gage, che per metà film sta lì immobile seduto a scrivere. Lo sai che è lì, aggiunge suspense e ti chiedi cosa farà. Puoi tenere sotto controllo tutti i movimenti dei pezzi della scacchiera. Sai sempre dove sono e cosa stanno facendo. Tu non stai guardando il rifugio di Minnie. Tu sei dentro il rifugio di Minnie!

Jean-Luc Godard ha forse fatto per il cinema quello che Bob Dylan ha fatto con la musica popolare

Sì, è vero. Avere uno spazio d’azione così ampio rende più credibile il senso di tragedia imminente su cui si basa la narrazione. Nella scena del veleno, per esempio, ogni personaggio fa qualcosa di diverso. Li puoi tenere tutti sotto controllo e al tempo stesso riesci a nascondere quel che devi per mantenere alta la tensione. Ti sembra di essere lì con loro e come loro senti che qualcosa ti sfugge, anche se dovrebbe essere tutto sotto controllo in una singola stanza. Ci sono molte inquadrature che secondo me saranno ricordate – i perfect shot. Il primo è la sequenza con cui comincia il film. La statua di Cristo lungamente in attesa della carrozza che lentamente si avvicina sullo sfondo fino ad arrivare in primo piano. E poi Jennifer Jason League coperta di sangue. È come se ci fosse una corrispondenza tra le due inquadrature. È una cosa che hai cercato?
No, non nella sceneggiatura. Ma sul set, nella scena finale dell’impiccagione, ci sono questi due attrezzi da neve che sembrano quasi delle ali, come se lei fosse una figura angelica, un cristo, un simbolo religioso. Una cosa importante nell’inquadratura iniziale con la statua di Cristo – e sono felice che tu pensi che io sia riuscito a girarla come si deve, sapevo che avrei dovuto avere un momento di “bravura” (in italiano) – è che abbiamo dovuto fare diverse versioni di quel Cristo scolpito. Non era importante che fosse esattamente un Cristo – ovviamente lo è, ma io avevo in mente più Ivan il Terribile di Eizenstein. Volevo dare la sensazione che magari dei vichinghi fossero arrivati per cesellare quella specie di Cristo nella pietra e l’avessero lasciato lì prima di tornarsene in Norvegia!

Il tuo film è in effetti una scultura, più che una serie di fotografie. Non imita la realtà inseguendo la verosimiglianza, ma si riferisce a essa in modo monumentale, allegorico, terribile e scandaloso. E d’altra parte a te piace farci sapere che stiamo guardando un film – non la realtà. C’è anche un divertente voice over, all’inizio del secondo tempo, che riassume per il pubblico gli eventi accaduti nel primo tempo. Tu stai giocando e non hai paura di mostrarci il tuo gioco, non ti interessa la “verità” e questo paradossalmente ti permette di avvicinarti di più a essa, anche se su un altro livello.
Può essere, ma sai per me non è così importante. Uso tutti gli strumenti utili per raccontare una storia a modo mio. Le regole del gioco le creo ogni volta in base alle necessità. Ho messo quella voce solo in quel momento, perché pensavo che lì fosse utile, non mi interessava ci fosse una coerenza col resto del film. Uso gli strumenti che mi servono quando mi servono e basta. Visto che c’è stato l’intervallo io ti rinfresco la memoria. Non c’è altro motivo.

E così mi dici che quello che sto guardando è un film e nient’altro che un film. Molto godardiano, se posso dire. Godard è poco citato come tua influenza, quando è invece cruciale nel tuo cinema – a parte le citazioni dirette, la tua casa di produzione che si chiamava “A Band Apart” come un suo film o il rettangolo grafico in Pulp Fiction, c’è anche il disinteresse per la verosimiglianza, la lunghezza dei dialoghi e molto altro…
I film degli anni ’60 di Godard hanno dato una nuova vita al cinema. Ci hanno permesso di guardare i film in un modo diverso. Jean-Luc Godard ha forse fatto per il cinema quello che Bob Dylan ha fatto con la musica popolare. Vedi, Godard ha fatto quello che gli pareva, in un modo molto diverso dagli altri, con una libertà fantastica, ma contemporaneamente sapeva tutto della storia del cinema. Amava il cinema mentre lo faceva a pezzetti.

Un po’ come te, no?
Sì. Ma poi Godard ha smesso di amare il cinema e ha perso la sua arte.

Invece mi pare che tu abbia smesso di amare la contemporaneità. Sei al terzo film di fila ambientato nel passato, dopo Inglourious Basterds e Django Unchained.
Guarda, non vedo l’ora di fare un film in cui qualcuno può accendere una radio! Non mi sono permesso un lusso del genere per molto, molto tempo! Un film con gente che va in un nightclub, con mille luci colorate e schermi giganteschi che proiettano il primo Mad Max, con un bel po’ di disco music e una bella sparatoria! Dio come sarebbe bello. Non sai quanto vorrei farlo, è solo successo che per un po’ non sono riuscito a farlo. È andata così, non ho voltato le spalle al XXI secolo.

Intermezzo

L’intermezzo serve per parlare brevemente di due cose.
La prima: alla fine della conversazione chiedo a Tarantino se posso fargli una foto – è quella che vedete in cover. Ci spostiamo frenetici per la stanza alla ricerca di un punto in cui ci sia una luce decente. Lo troviamo. Tarantino si piazza lì davanti alla mia macchina fotografica, io mi allontano di poco e gli chiedo di levare un po’ di roba che sta alle sue spalle. Lui si volta e butta giù a manate una lampada e un telefono che stanno su un tavolo dietro di lui. Immagino cosa deve essere sul set. Mi guarda, gli chiedo di farmi uno sguardo da bad motherfucker – you’ll be the hateful ninth, gli dico. Lui mi punta il dito contro. Click.
La seconda cosa: uscendo dalla stanza incrocio Samuel L. Jackson. Se ne sta appoggiato a una finestra davanti agli ascensori, guardato a vista da una quindicina di PR, assistenti di PR, vice assistenti di PR, aiuto assistenti di PR, volontarie di PR. Dice solo: Please, release me. Lo ripete a bassa voce come un mantra. Release me, release me, release me. Poi passa un giapponese, lo guarda come se fosse il Colosseo e si infila in ascensore. Jackson lo segue con lo sguardo, e non appena si chiudono le porte dell’ascensore riattacca il mantra. Release me.

Seconda parte

Una volta hai detto che ogni epoca ha avuto un tipo di western diverso e che dal modo in cui venivano fatti i film western si potesse capire molto della società americana contemporanea. Quindi se dovessimo giudicare l’America dal tuo film dovremmo dire che oggi l’America è un posto pieno di gente cattiva con troppe pistole e chiusa in un posto troppo piccolo…
Ah ah ah! Hai ragione in The Hateful Eight parlo di un gruppo di brutta gente con troppe armi, e nessun posto in cui andare. Se aggiungi che è gente senza diritti né legge, e pure un po’ razzista, hai una bella tazza di caffè avvelenato da servire al pubblico. Posso farti una domanda?

Certo.
Pensi che l’elemento mistery nel film funzioni?

Beh molto bene. Il trucco riesce grazie alla trovata del basement – l’ultimo cattivo nascosto e che spunta fuori a sorpresa sbudellando Sam Jackson. Un grande classico che metti in scena molto bene: potrei citare Edgar Allan Poe o Hitchcok, pensa a Nodo alla gola, per esempio, o anche la prima scena di Inglourious Basterds. Sì, funziona. Anche grazie a Morricone che ha composto una colonna sonora eccellente – più giallo o mistery che western direi, no?
O addirittura horror! Quel tema da carillon suggestivo e molto creepy che viene fuori di tanto in tanto contribuisce a costruire la sensazione di orrore imminente. La cosa interessante è che Morricone non ha scritto la colonna sonora partendo dal film finito, ma dalla sceneggiatura. Credo che non l’abbia ancora visto il film! (Ok, in realtà, nel frattempo Morricone lo ha visto. Ha detto che è bello. Ha aggiunto che è rimasto scioccato dalla violenza. Ci dispiace molto per lui). Quindi non ha lavorato “scena per scena”, ma sul film in generale, con grande libertà, libertà che è poi arrivata a me: ho potuto usare la sua musica come un elemento in più con cui costruire il film.

Come hai già fatto in altri film, ma in questo è molto più evidente, nella prima parte distribuisci le carte ai personaggi e nella seconda li fai giocare a poker.
Ah, sì, sono d’accordo, è un bel modo di descriverlo.

Anche se fin dall’inizio il film si presenta con una certa potenza – l’Ouverture con il disegno nero su fondo rosso e la musica di Morricone è un vero colpo di genio. Ti fa sentire la poltrona sotto il culo. Sei pronto a goderti lo spettacolo. È un setting da Opera!
Ah ah ah. Sì, capisco cosa intendi. È tutto lì il potere del 70mm e l’idea del road show – cioè di presentare il film come una cosa speciale. A me piace molto anche la versione digitale che verrà proiettata nei multiplex. È un buon film. Ma non è un’esperienza speciale. È un film. Vai a vederlo in un weekend con la tua ragazza e pensi già alla cena o al resto della serata. La versione in 70mm è come andare a vedere la Bohème alla Scala o una pièce con Al Pacino a Broadway. Se vieni a vedere lo show, sei mio! Non ha a che fare con la cena cui andrai dopo.

Sei un rivoluzionario nostalgico – in ogni rivoluzione c’è un po’ di malinconia, no?
Sì.

Ma ora sei diventato un “classico”, hai influenzato la pop culture degli ultimi vent’anni come pochi. Pensa solo a quanto la sceneggiatura di Pulp Fiction – un plot non lineare, guidato da personaggi molto forti – abbia influenzato la Nouvelle Vague delle serie tv che d’altra parte senza il digitale sarebbero molto difficili da produrre con standard qualitativi alti.
Sì, è interessante. Non so bene che dire sull’uso del digitale, però è vero che Pulp Fiction ha “liberato” le nuove generazioni, soprattutto rispetto allo scrivere sceneggiature. Dopo Pulp Fiction forse si è capito che si poteva approcciare il modo di scrivere storie per il cinema in un modo diverso da quello che aveva prevalso nei dieci anni precedenti: i manuali, le regole degli studios tipo a pagina 20 deve esserci una “svolta” narrativa, entro pagina 60 deve succedere la cosa X eccetera.

Il manuale perfetto su come fare un film di merda.
Proprio così, giusto. Il fatto è che gli studios pensavano di sapere come si fa e tutti facevano la stessa cosa, la scrittura non era libera. Pulp Fiction ha detto un bel vaffanculo a tutto questo. Io voglio fare quel cazzo mi pare ed è un problema mio riuscire a farlo bene. Se non ci riesco ok, niente, ho perso. Ma se ci riesco: et voilà! Il cinema! Dopo Pulp Fiction, hanno bruciato un bel po’ di manuali di scrittura per sceneggiatori. Hanno iniziato a esplorare. Qualcuno è riuscito a fare cose buone, altri no, ma in qualche modo tutti hanno contribuito a questo cambiamento. Oggi puoi provare a scrivere un film come se fosse un romanzo – non sempre, ma molto più spesso di quanto si potesse fare nel 1989 quando era totalmente impossibile farlo.

Beh, sì. Nessuno saprà mai cosa c’era in quella valigetta, ma a nessuno importa. Non è una cosa che si vede spesso al cinema, gli studios ti fermano e vogliono sapere che cazzo c’è dentro quella valigetta intorno a cui girano tutte le storie del film…

Esatto. Anche in The Hateful Eight non ho risposto a nessuna domanda, se ci pensi. L’idea è lasciare a chi guarda la possibilità di trovare le risposte. E a seconda delle risposte che ti dai, la tua percezione del film cambia. Per esempio: non si capisce mai se il personaggio che dice di essere lo sceriffo di Red Rock lo sia davvero. Tu che dici? Sì o no?

Ah guarda, non me lo sono neanche chiesto. Non è importante. Anzi, il divertimento stava proprio nel cadere consapevolmente nel tuo tranello e iniziare a chiedersi: di quali di questi uomini ti puoi fidare? Chi sono veramente? E la risposta è: non ti puoi fidare di nessuno e chi se ne frega, non è importante. Il godimento, oltre che dalla messa in scena, dalla regia, dai dialoghi, dalle interpretazioni, sta nell’attesa che scoppi il finimondo. È sempre una cosa divertente e liberatoria.
Nei miei film un qualche tipo di finimondo arriva sempre…

E a proposito di questo, devo dirti che ho sempre pensato che criticare il tuo uso della violenza fosse totalmente stupido. Nei tuoi film la violenza è spiattellata in un modo così aperto da essere totalmente comica, quasi da cartone animato, senza alcuna relazione con qualsiasi tipo di violenza reale. Tutte stronzate di quei bigotti conservatori che vendono…
…le pistole, quelle vere. Ah ah ah. Sì.

Noi giochiamo, voi no!
Il nostro sangue è sciroppo colorato, puoi leccarlo, è dolce!

Io sarei rimasto per ore sul tuo set a leccare via il sangue finto da Jennifer Jason League in quell’inquadratura fantastica.
Ah beh, penso che le sarebbe piaciuto.

Il nostro sangue
è sciroppo colorato, puoi leccarlo, è dolce!

C’è un film nel film in The Hateful Eight ed è la storia geniale di Samuel L. Jackson e il figlio del generale.
Sì, guarda, la cosa veramente assurda è che poi quella scena finisce per essere una citazione diretta, anche se non lo è per nulla. Ho scritto la scena pensando che sarebbe stata un mix tra divertente e disturbante, ma non surreale come invece è poi venuta. Quando abbiamo piazzato la macchina da presa per l’inquadratura in cui camminano giù dalla collina innevata e ho guardato nel mirino ho pensato: “Oddio. Ma è El topo!”. E anche il tizio che fa il figlio del generale sembra El topo di Jodorowsky!

E ovviamente sembra Gesù Cristo pure.
Esatto!

Classico Tarantino – un aneddoto perfetto, che funziona anche da solo, come una short story. Mi ha fatto ripensare alla geniale digressione sull’orologio di Bruce Willis in Pulp Fiction. Credo che il più grande merito che ti deve essere riconosciuto sia quello di aver gettato un ponte tra arthouse films e cinema di genere…
A dirti la verità ho sempre amato i film di genere più arthouse di Corbucci e Leone e quelli più orientati al cinema di genere di Godard e Truffaut! La cosa che sto provando a fare, una specie di equilibrismo, è tentare di andare oltre il mio amore per i film di genere e fare film che siano a un livello diverso rispetto a quelli di genere, film che si possano guardare in modo un po’ più complesso. Forse quello che sto cercando di fare è trascendere il genere, senza però fare film noiosi che siano solo una riflessione sul genere. Io voglio che la gente si diverta, si spaventi, abbia i brividi e salti sulla sedia quando vede i miei film.

Direi che ci sei riuscito. Se riguardo oggi un po’ di film degli anni ’80, beh, erano girati davvero male…
Sì, quelli sono veramente merdosi. In particolare quelli degli anni ’80. E ti sto parlando di film che mi piacevano un casino quando ero più giovane. I mei preferiti, cazzo!

Mi avevano detto che eri stato tu a comprare il box set dei Wu-Tang da 5 milioni.
Ah ah ah. No, non l’ho comprato io. Oramai si sa chi l’ha comprato, no?

Sì, ma pensavo che avessi in mente di usare quel box misterioso pieno di musica inedita per il prossimo film…
Ah, cazzo, sarebbe stata una buona idea!

Beh, troppo tardi, è stato venduto. Volevo parlarti di un’ultima cosa: tra meno di un anno, Obama finirà il suo mandato. Quale pensi sia il suo lascito culturale, politico e morale? Avremo mai un altro Presidente così figo?
È un’ottima domanda. Che ti devo dire, lo spero. Se, come credo, Hillary Clinton sarà Presidente, avremo una grande donna al comando! Penso che Obama sarà ricordato come il Presidente dei nostri tempi con la statura morale più alta, un uomo che ha fatto moltissimo per l’America, in tempi molto difficili, in cui tutto si muoveva in suo sfavore. Ogni piccola cosa che poteva accadere contro di lui, è accaduta. E lui ha dovuto confrontarcisi. Ma ha fatto cose estremamente profonde e importanti.

Questo articolo è pubblicato in versione integrale su Rolling Stone di gennaio.
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