‘Sulle nuvole’, al cinema e di cinema con Tommaso Paradiso | Rolling Stone Italia
Interviste

‘Sulle nuvole’, al cinema e di cinema con Tommaso Paradiso

Dal suo modo 'cinematografico' di fare musica ai suoi riferimenti sul grande schermo: conversazione con il cantautore romano a partire dal suo debutto da regista (in sala dal 26 aprile). Che potrebbe essere solo l'inizio

‘Sulle nuvole’, al cinema e di cinema con Tommaso Paradiso

Tommaso Paradiso e i protagonisti del film Barbara Ronchi e Marco Cocci

Foto: Riccardo Ghilardi/Warner Bros.


Sulle nuvole esce nelle sale dal 26 al 28 aprile con Warner Bros. Nei 100 minuti del film è possibile fare l’esperienza di tutto quello che avreste osato chiedere a una produzione cinematografica scritta e diretta da Tommaso Paradiso e molto di più, inclusi anche diversi punti delle due liste di richieste che avreste preferito lasciare nel vostro subconscio.

Marco Cocci interpreta Nic Vega, un cantante di successo che, a causa di una delusione d’amore, si è ritirato in campagna, nella natìa Cecina, e si è dato con eguale determinazione alla coltivazione del vizio dell’alcol e delle virtù dell’orto. Non sta alla canna del gas solo perché glielo hanno già tagliato. Colpisce subito la cupezza dello storyboard, da Passione di Cristo: nella prima scena incede claudicante con barba e capelli incolti, sanguinando dalla fronte, evitando per miracolo di essere investito da una camionetta della nettezza urbana. Nonostante le sue cattive abitudini, scopriremo che è adorato da tutti: dal vicino che nutre sia lui che il suo cane; dall’amico di città che gli dà una seconda chance come fonico di una tv locale, solo per poi scoprirlo causa di una rissa sul set; dalla stessa ex Franca e dai relativi genitori, tra cui un Gigio Alberti in stato di grazia che vorrebbe organizzare con Nic un cimitero-tour sui luoghi di sepoltura delle rockstar; perfino dal marito della ex, con tendenze un po’ cuckold, soprattutto quando, rincasando prima del previsto da un convegno, trova Nic e Franca sul divano e ci regala un F4-basito da manuale.

Barbara Ronchi è Franca: suo il ruolo della musa borghese perduta di questo cantante maledetto ritrovato. Lo sottoporrà a dure prove di resistenza, come pranzi vanziniani con gli amici dei Parioli o sessioni di lingerie a porte aperte. Sarà lei, con la sua sensibilità, il suo affetto e le certezze che, malgrado tutto, riesce a proiettare sul musicista alcolizzato, a contribuire alla rivincita artistica – se non umana – di lui, pur senza cedere mai (anche se il finale è aperto) alle lusinghe di una minestra riscaldata ma saporitissima, come solo quella proveniente dall’orto di Nic potrebbe essere.

Tra questi due poli narrativi troviamo comparsate di Dardust, Max Pezzali, Nicola Savino, Fiorella Mannoia, perfino il cammeo di un vero Gianni Morandi scatenato sottopalco; una finta trasmissione sul calcio intitolata Quattro amici al var; dialoghi brillanti come “Ti sei disinfettato la ferita?” – “Il whisky disinfetta meglio”; passaggi più drammatici come: “Ti sei scopato una ragazzina in venti secondi”; una bellissima scena equestre in cui Nic cavalca sia il cavallo che la tentazione di riprovarci con la ex sposata.

È notevole come, nell’occasione della sua opera prima, il musicista romano abbia saputo dare già vita a un nuovo sottogenere cinematografico: il paradisello, una particolare branca del musicarello. Nel paradisello avviene che il musicista le cui canzoni e la cui immagine sono al centro della produzione, contraddicendo apertamente sia la tradizione di Nino D’Angelo e Al Bano che il detto di Lucien Freud secondo cui “Tutto è autobiografia, anche se si tratta di una sedia”, non compare direttamente sulle scene ma si fa sostituire da un attore che gli somiglia moltissimo, veste come lui, parla come lui, raccontando una storia che, però, non è in alcun modo rintracciabile nel suo vissuto. In altre parole Nic, per Tommaso, funge da ritratto di Dorian Gray semovente. Difficilissimo da replicare, il paradisello potrebbe restare un unicum nella storia del cinema, anche a giudicare dalle intenzioni di esplorare presto nuovi sottogeneri che Tommaso ha manifestato nel corso di questa intervista.

Il tuo modo di fare musica è sempre stato molto cinematografico, e non solo per il grande affidamento che hai fatto, nel corso delle varie fasi della tua carriera, sui videoclip, ma anche proprio per via di caratteristiche della tua scrittura musicale, che è storicamente fatta tanto da immagini quanto da sonorità. Si può affermare che tu sia sempre stato un potenziale regista che finalmente ha fatto coming out?
Io mi arrendo completamente di fronte al grande cinema. Sono un grossissimo fruitore di film. Tendo a riempire parecchie ore della mia giornata guardando film e parlando di film. Vorrei che vivessimo e rivivessimo l’era del grande cinema. Ma non mi sento un regista: mi sento uno che potrebbe sapere scrivere dei film. Sulle nuvole è stato solo un esperimento, spero ben riuscito. Questa mia vocazione andrebbe assolutamente confermata con un altro film.

Come si debutta alla regia già da maturi, con una visione del mondo precisa ed espressa attraverso altri mezzi?
Ti sei già risposto nella domanda (ride). Quello che ha impressionato chi ha lavorato con me al film è stata proprio la mia visione così chiara. Quando uno fa un film ogni giorno ha un programma da rispettare: alle quattro e mezzo del mattino giriamo questo; poi, a una certa, arrivano gli attori. E c’è un orario di fine programma, che tendenzialmente tutti i registi sforano anche di ore. Io facevo finire la giornata anche due o tre ore prima del previsto ed erano tutti parecchio colpiti da questo, che derivava dal fatto che avessi le idee molto, molto chiare. Dicevo all’attore: io non sono nessuno per poterti dire questa cosa, ma fidati. Avevo dentro di me, limpida, la visione della giacca e della piega della giacca: questo film l’ho immaginato dall’inizio alla fine. Ovviamente mi ha aiutato avere una squadra incredibile che mi ha seguito e che mi ha dato tantissimi consigli.

Entriamo nel tema centrale del film. Sappiamo che non si tratta in alcun modo di una storia autobiografica.
No, no, te lo confermo.

Marco Cocci è Nic Vega. Foto: Riccardo Ghilardi/Warner Bros.

Però ci piacerebbe chiederti di quelle che ci sono sembrate, inevitabilmente, delle proiezioni del tuo io reale sul personaggio Nic Vega. Ci ha incuriosito la macchina rappresentativa che hai messo su. Hai preso un bravo attore, che tra l’altro è anche un bravo cantante che canta bene le tue canzoni, che è quasi un cosplay di Tommaso Paradiso.
No, non fa un cosplay, te lo assicuro! L’unica cosa che può trarre in inganno è quando Nic inforca gli occhiali scuri alla ragazzina…

Allora, concedicelo, il tuo è un sorrentinismo deviato: è stata la mano di Tommy. Perché raccontare la storia, così diversa dalla tua, di un ragazzo che ti somiglia tanto, ma solo fisicamente?
L’unica cosa che questo personaggio ha in comune con me – che è l’unico grande motivo per cui ho scritto questo film – è la nostra voglia di urlare, di gridare a tutti quelli che fanno questo mestiere, ai miei colleghi, a chi ascolta la mia musica da tempo, che l’unico vero motivo per cui si produce arte è l’ispirazione che viene da qualcosa di reale, di vero. Non amo le persone che fanno questo mestiere sedendosi a tavolino e dicendo: oggi devo scrivere una canzone; oppure: oggi devo scrivere una storia. No. Quella canzone o quella storia non arriveranno mai al pubblico. Quando nascono le grandi opere, in generale, nella storia dell’arte, è perché c’è stata una botta che hai ricevuto in faccia, sul cuore o nello stomaco che ti ha fatto scrivere, disegnare o pensare una cosa. Il senso di questo film è che questo ragazzo, Nic Vega, ha perso completamente la persona che gli smuoveva l’animo, e dunque la vena artistica. Senza quel motore che incendiava la miccia, lui non scrive più canzoni ed è sparito dalle scene. Ovviamente nel film questo concetto viene un po’ esasperato, come del resto avviene nel cinema in generale, ma il nodo centrale è questo. Ho sempre prodotto qualcosa solo quando il mio animo era sconvolto da qualche parte.

Quando ci avevi anticipato del film, venendo a conoscenza del suo punto di partenza rurale e avendo in mente alcune simboli contenuti nel tuo ultimo album, ci aspettavamo di vedere in azione qualcosa come uno space cowboy rintanato in campagna. Invece abbiamo scoperto la storia di un Bojack Horseman livornese, a lieto fine. Un cavallo di razza che accetta la sua depressione invece che provare ad addomesticarla come in un impossibile rodeo psicologico. Un film su quanto sia importante accettare le proprie debolezze soprattutto quando si ha la capacità di convogliarle in un racconto.
Speravo davvero che questa cosa arrivasse. È un’altra cosa importante che tengo a specificare del film. La sua morale è che nonostante il nuovo incontro con Franca, nonostante tutto quello che succede, Nic non cambia mai, resta quel matto, alcolizzato, intimista, che non perde mai di vista.

Non c’è una redenzione.
No, c’è un’accettazione della sua verità. Più che altro un’accettazione da parte degli altri (ride).

Questa è l’originalità del tuo punto di vista.
Me lo auguro.

Le tue origini musicali non somigliano a quelle di Nic. E forse le distanze aumentano anche perché hai lasciato cantare il tuo attore protagonista in tutte le scene musicali, compreso quella del grande concerto finale.
Marco è un bravissimo cantante. Devo dire che questo nostro incontro è stato un bel mix di energie. Ci sentiamo spesso e andiamo molto d’accordo. In effetti siamo diversissimi come percorsi musicali: lui viene dal rock vero. Ma quando stiamo insieme ci troviamo sempre. Anche se io sono ultra-pop e lui è più tormentato.

Se un giorno, malauguratamente, perdessi il controllo della tua carriera, somiglieresti un po’ a questo tuo personaggio, anche se con le dovute differenze?
Se mi dovessi trovare in una situazione del genere solo la mia vita stessa, le mie reazioni a quel contesto, potrebbero rispondere a questa domanda. Oggi non me ne potrei rendere conto. Non posso dire: io sarei più forte o proverei a fare così. Tendenzialmente a me piace molto la natura. E mi ritrovo nella risposta che Nic dà al suo problema: andarsene a fare l’orto, a cucinare. Io credo molto, più che al digitale, ai lavori della terra, che è tanto più lenta di questo nuovo mondo che si muove a duemila all’ora. Io vengo da una famiglia in cui il nonno faceva il vino. Quindi non penso che, un giorno, mi farebbe troppo schifo ritirarmi nella contemplazione dell’orto, della frutta, della verdura. Se non dovessi più scrivere, se dovessi capire che non ho più un cazzo da dire, ecco, non mi darebbe fastidio l’idea di una vita campestre.

Marco Cocci (Nic) e Barbara Ronchi (Franca). Foto: Riccardo Ghilardi/Warner Bros,

Alla base del film ci sono i testi di tre canzoni, integratissime nella trama. Del resto il titolo del film è quello di una delle canzoni del tuo primo album da solista. Come ha funzionato il processo creativo dietro queste scelte? È nato prima il film o la sua colonna sonora?
Prima è nato il film, ovvero la storia che volevo raccontare, e poi gli ho modellato sopra le canzoni. Soprattutto sono riuscito, grazie al lavoro fatto con Francesco Catitti, a scriverne tutti i temi musicali, che per me sono veramente il più di questo film, la grande soddisfazione, a prescindere dalle canzoni. A questo tengo davvero molto.

In Sulle nuvole ci sono due riferimenti cinematografici diretti: Verdone e i Vanzina, anche se con tagli diversi: l’uno è citato direttamente, attraverso le immagini di Acqua e sapone; gli altri sono evocati da una parodia messa in scena dagli amici pariolini di Franca, in cui si raccontano prodezze alpine che sono più enogastronomiche che sciistiche. Chissà quanti altre fonti ancora sono infuse nel film ma meno facilmente individuabili. Ci guidi in un breve percorso dei tuoi riferimenti cinematografici?
Mi sarebbe piaciuto metterne tanti altri. Io amo molto la citazione. Però la storia purtroppo qui era molto definita, non potevo infarcirla di ulteriori ispirazioni. Non ci ho potuto mettere, d’emblée, Tarantino o Scola. Non ce n’era lo spazio poetico. Sicuramente, se avrò qualche altra storia da raccontare in un film, cercherò di allargare ad altre forme espressive.

La nostra scena preferita è quella in cui la piccola Nicoletta, impanicata dalla prospettiva di un saggio di pianoforte, inforca i tuoi Wayfarer per vincere la paura, e si esibisce davanti al resto della classe con un atteggiamento che ricorda il tuo a un concerto. Ti ritrovi in questa immagine di ragazzo non ancora padre, ma complice dei figli dei tuoi amici?
Ho un rapporto molto speciale con gli animali e coi bambini piccoli. È come se in qualche modo facessi parte del loro mondo. Non che non mi trovi bene con gli adulti, ma certamente ho un feeling particolare con bambini e animali. Mi piace molto ascoltarli (i bambini, nda), mi ricordano le mie visioni del passato. In questo modo il mondo del fanciullo che ero non mi sfugge mai di mano. Ai concerti faccio salire i bambini sul palco e cantiamo insieme Non avere paura. E poi dico loro: ora non te ne rendi conto, ma ricordati che tu sei il futuro di questo Paese. Io conto tantissimo sulle nuove generazioni e spero che cambino davvero in meglio il mondo, anche perché noi lo abbiamo distrutto. Speriamo che questa nuova generazione (che non so neanche come si chiami: zeta, effe, 500) si smarchi da TikTok e ricominci a darsi delle priorità per andare avanti.

Al di là del finale lasciato volutamente aperto, rifaresti tutto questo? Il cinema può diventare se non una costante, almeno una cifra del tuo modo di esprimerti?
Sono certo che il cinema mi piace talmente tanto che vorrei sperimentarlo ancora. Mi piacerebbe fare un film puramente violento, un altro tutto sull’estate italiana, mostrando tutta la bellezza della nostra penisola. Le idee sono tante, le storie ci sono, bisogna solo trovare i luoghi e le persone per capire se, da quegli elementi, può nascere di nuovo qualcosa di bello.

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