Sonia Bergamasco, eleganza ribelle | Rolling Stone Italia
La valigia dell’attrice

Sonia Bergamasco, eleganza ribelle

Perché i veri ribelli sono coloro che resistono alla lusinga dei cambiamenti epocali. La serie Sky ‘Io e lei’, di cui è protagonista insieme ad altre quattro colleghe, il pianoforte, la commedia pop che l'ha conquistata, il rapporto con Battiato, i conflitti con Carmelo Bene e Giorgio Strehler. E il teatro, ovviamente

Sonia Bergamasco, eleganza ribelle

Foto: Alberto Terrile

Botta e risposta. Con Sonia Bergamasco il ritmo è da punteggiatura serrata: periodi brevi e risolutori. Anche quando ride sembra metterci un punto, alla fine. E non è che conceda risate gratuite, però se succede lo fa con gusto. È una di quelle persone in via di estinzione: non ha la minima voglia di partecipare al gioco del compiacimento reciproco. Prima di rispondere si assicura di aver capito cosa le stai chiedendo davvero, o almeno che sia una provocazione intelligente. E infatti capita che alle domande ribatta con un’altra domanda. È difficile che ti regali una virgola in più, anche quando senti di aver colto nel segno. Te ne accorgi tu e se ne accorge lei, però, anziché lasciarsi andare, fa calare una pausa silenziosa: sta valutando se abbonarti due parole extra oppure, con eleganza, svignarsela.

E se la svigna praticamente sempre. Come quando le dico che ho visto la nuova stagione di Io e lei (serie Sky – da martedì 14 febbraio su Sky Arte e in streaming su NOW – in cui le attrici italiane di oggi raccontano le grandi artiste del passato, con Carolina Crescentini che incarnerà Gabriella Ferri, Camilla Filippi Giulietta Masina, Cristiana Dell’Anna Tina Modotti, Valeria Bilello Elsa Schiaparelli; la puntata di Sonia andrà in onda il 7 marzo) e l’impressione è che attraverso l’incontro con Isadora Duncan lei abbia fatto i conti con se stessa. Ma proprio con i massimi sistemi, con il mestiere d’attrice e la drammaticità della vita umana. Perché sembra spesso che stia tentando di contenere un’emozione, oltre che interpretarla. «Le ferite sono materia umanissima per tutti, anche per me», si concede e poi indietreggia, «ma io preferisco affrontarle nel gesto artistico, senza ulteriori riflessioni o spiegazioni». Eclissarsi con tanto stile è roba da étoile o da pianista, c’è poco da aggiungere.

E in effetti è grazie a questo savoir-faire che Sonia Bergamasco diventa spiazzante, irresistibile. Perché da una parte è come se ti stesse dicendo che tu e lei mica siete amiche, vi trovate qui solo per lavoro, ma dall’altra, i famosi punti che usa per trincerarsi sono morbidissimi, perfino appassionati. Parla di rivoluzioni personali in epoche indecenti, del pianoforte da cui torna sempre (e non solo quando è di scena), di come la commedia pop l’abbia conquistata anche se lei ha provato a sottrarsi, del rapporto con Franco Battiato (che se l’ha scelta c’è un perché), dei conflitti con Carmelo Bene e Giorgio Strehler (non rimpiange nulla, anzi, rivendica ogni moto di dignità) e poi, va da sé, del sacro culto del teatro. «Quello rimane dalla notte dei tempi: è la tradizione», sancisce lei. E forse è proprio nello spirito di conservazione, suo e del teatro, il segreto da cui dipende la sopravvivenza di entrambi. Resta una domanda in sospeso: i veri ribelli sono coloro che resistono alla lusinga dei cambiamenti epocali?

Foto: Alberto Terrile

Mi hai dato un numero fisso. Dove ti sto chiamando?
A casa, ma non prende bene qui.

Credevo fosse una scelta di privacy un po’ rétro. Sei in montagna?
Sono a Roma, però al quarto piano. Sto lavorando al Teatro Argentina, questa è l’ultima settimana dello spettacolo Chi ha paura di Virginia Woolf? È una ripresa, lo abbiamo già portato in scena l’anno scorso.

Nessun set in questo momento?
Eh no. Il teatro non prevede intersezioni.

Disse con una punta di disciplina estrema.
(Ride) Non sarebbe comunque possibile, è uno spettacolo di tre ore. Compreso l’intervallo, però.

Il pubblico è caldo anche dopo tre ore?
È tutto esaurito da due settimane. Ci sono moltissimi ragazzi, il Teatro Argentina ha una bellissima politica pensata per i giovani. È una gioia.

Il teatro lo avevano dato per morto, come la sala. Poi che è successo?
Spero che anche per la sala ci sia ancora una possibilità. Io ci vado al cinema, e continuo a pensare che sia importante. Grazie ragazzi, l’ultimo film che è uscito a cui ho partecipato, è nelle sale da settimane. Ma il teatro a casa non lo vedi. Ci devi andare per forza, in qualsiasi posto lo si faccia. E si può fare ovunque. Per questo si continuerà a fare sempre. È questa la magia.

La magia anche di aver protetto il suo aspetto più conservatore?
Perché dici conservatore?

Perché mentre subentravano il 3D, le piattaforme e tutto il resto, per un momento il teatro ci è sembrato démodé. Non trovi?
Sì, è una storia diversa rispetto al cinema. Che poi ci sono anche tanti modi di fare teatro e di affezionarsi. La scena italiana, così come quella europea e internazionale, è colma di idee e di innovazione. Però sempre con un dato essenziale: il teatro si fa in presenza e si fa insieme. Quello rimane dalla notte dei tempi, è la tradizione. È un rito laico, e penso sempre più che abbia a che vedere con il gioco sacro dell’infanzia, quello dei bambini, che è soprattutto uno strumento per la conoscenza.

Quindi crescendo sta aumentando anche la voglia di giocare?
Assolutamente. Vado sempre più incontro al desiderio di togliere cose che non servono. Da giovane giustamente cresci, accumuli e riempi. Poi a un certo punto arriva il desiderio di scoprire quali sono le cose che ti servono davvero. Quelle essenziali. E io con quelle voglio combattere, lottare e divertirmi.

Sonia Bergamasco è Isadora Duncan in ‘Io e lei’. Foto: Sky

Il tuo episodio di Io e lei inizia con te che dici: “Questo percorso va incontro anche a quello che sto cercando come attrice”. Cos’è che hai trovato lì e non altrove?
Sono in preparazione di un film che affronta proprio il tema dell’essere attrice attraverso la figura leggendaria di Eleonora Duse, unicamente come strumento per parlare del presente del nostro mestiere. Quindi sono domande che mi pongo da anni, quotidianamente: cosa stiamo facendo? Come lo stiamo facendo? Chi è un’attrice, un attore? Cosa mette in moto?

Del film su Eleonora Duse sarai anche regista?
Sì. Sarà un film per il cinema, poi se vorrai ne riparleremo. Inoltre il 21 marzo esce un libro che ho scritto sul mestiere dell’attrice, per Einaudi.

Davvero trovi ancora un senso profondo nell’interrogarti sul mestiere d’attrice?
Sì. Perché credo che il gesto gratuito dell’arte sia un gesto essenziale. È un gesto che fa bene alla vita e alla comunità. Non penso che risolva nulla né che sia una risposta a nulla. Però credo che abbia un potere, un’energia e certe potenzialità che non vanno sprecate. Nel disastro della nostra epoca, ritengo siano sempre più importanti il dovere e la dignità di andare fino in fondo a questo mestiere. L’arte è viva se parla del presente. L’arte come specchio, diceva Shakespeare, da sollevare e da porgere di fronte all’altro, per permettere al pubblico di vedersi. E, possibilmente, di riflettere.

Parli come una che non ha mai avuto crisi esistenziali.
Invece ne ho in continuazione. Ma le crisi sono feconde se vengono affrontate in maniera vera.

In questa serie voi attrici vi prestate anche a un lavoro di ricerca, la riscoperta delle grandi artiste del secolo scorso viene affidata a voi. Hai potuto metterci del tuo?
Quello con Massimo Ferrari è stato un bellissimo incontro. Ho trovato un gruppo di lavoro molto affiatato, persone agili e simpatiche. Non mi interessa solo che il lavoro sia bello, ma anche che sia pieno di energia positiva. In questa occasione mi sono perfino divertita. E poi è stato un lavoro aperto, come il progetto, nel senso che apre con un coltello questa materia carnosa e cerca di scoprire cosa c’è dentro. Massimo mi ha detto subito di condividere con lui qualsiasi idea o suggestione, e così è stato. Ho messo il mio – come sono certa lo avranno messo tutte le attrici coinvolte – anche perché era un tema che mi interessava particolarmente. Isadora Duncan è un’artista che è stata amica di Eleonora Duse, quindi per me si intrecciavano mille percorsi.

Il primo incontro con Isadora Duncan?
È stato precedente a questo progetto, perché la sua figura e la sua storia mi avevano già affascinato. Avevo letto alcuni libri e visto il film con Vanessa Redgrave (di Karel Reisz, 1968, nda). Mi continuavo a chiedere cose su di lei, perché Isadora è un personaggione. È una rivoluzionaria, una che ha rotto, che ha avuto coraggio per ingenuità e candore creativo. Ecco, io in lei sento un candore assoluto nel proporsi nella nudità del suo desiderio. Lei voleva questo e l’ha fatto: non è da tutti.

C’è qualcosa che le invidi?
Cerco sempre di mettermi in ascolto degli artisti e delle artiste che hanno un’energia tale da passare attraverso le generazioni. Quando questa energia arriva fino a noi, vuol dire che c’è qualcosa che devi ascoltare, perché ancora ti guida al di là della loro presenza fisica. Sono stati veicolo di qualcosa di più grande. Non c’è un’agiografia del personaggio, non è che c’ho un santino di Isadora Duncan o di Eleonora Duse. Piuttosto è il percepire che si sono fatte abitare da un’idea, incondizionatamente. Ne hanno sofferto, hanno vissuto ed esultato per questo. Perché hanno anche esultato, sì, e i momenti di grazia sono momenti divini di cui poi beneficiano tutti.

Credi davvero che oggi sia possibile lasciarsi abitare incondizionatamente da un’idea?
Io penso che viviamo in un’epoca tragica, è evidente. Però ottocento anni fa dicevano la stessa cosa, in altri modi e con un altro linguaggio. È l’essere umano che è tragico come creatura, nella sua bellezza e nella sua totale inadeguatezza. Mi dispiace che te lo chieda tu che hai trent’anni, ma capisco che lo senti, perché giustamente una donna della tua età ha la possibilità di percepire l’ampiezza dello scempio e delle difficoltà a cui le vostre generazioni sono sottoposte. Però allo stesso tempo penso che resistere e lottare sia quello che ci salva e che ci fa comprendere quanto la storia si ripeta. Nessuno di noi impara nulla dalla storia, ma io non mi stanco di provarci.

Però non pensi che la costante della tragicità umana abbia smesso d’essere una questione tra esseri umani?
Forse. Ma uno può sempre scegliere. Cosa fare, quanto fare, darsi dei limiti. Decidere dove l’altro può e non può entrare. Io per esempio non ho i social.

Ho visto e ho apprezzato. Un po’ meno quando ho dovuto costruire quest’intervista.
(Ride, di gusto)

È questione di autodisciplina?
Sì. Nessun giudizio però, tutti i miei amici li hanno, così come le mie figlie e mio marito (Fabrizio Gifuni, nda). Ma io sto bene così, e perché non dovrei? Lavoro comunque e faccio comunque le mie cose. Ci sono dei ragazzi bravissimi che mi curano la pagina Facebook e il sito, giusto per fornire informazioni. Poi quel qualcosa in più, sinceramente, a oggi non mi serve. È una necessità di silenzio e di spazio solo mio.

Be’, la tua carriera ha preso il via prima dell’era social. Un attore di oggi non potrebbe permetterselo.
Che è anche un po’ triste, no?

C’è una frase di Isadora Duncan che reciti nella serie: “Soprattutto, dimentica. Come una bambina senza tempo, dimentica, danza e dimentica”. Perché è stata così importante per te?
(Pausa) Perché lei è una donna che ha sofferto moltissimo. Ha perso due figli bambini in un incidente assurdo, e poi anche un terzo figlio. Non riesco a immaginare niente di più doloroso, nell’esistenza di una persona. E la danza è stata la sua unica possibilità di linguaggio in un momento così devastante. Sicuramente non c’è stata una rigenerazione, però un attraversamento di ferite che non riescono a rimarginare. Le ferite sono materia umanissima per tutti, anche per me. Poi io preferisco affrontarle nel gesto artistico, senza ulteriori riflessioni o spiegazioni.

La tua unica possibilità di linguaggio è stata la musica o la recitazione?
Entrambe le cose. La musica è sempre, sempre presente in ogni mio momento, e mi rendo conto che è la lingua che attraversa tutto quello che faccio. È una lingua primaria, è un respiro, è ascolto. Mettersi in ascolto, prima di tutto: questo è un gesto fondamentale per poter combinare qualcosa.

A volte, quando reciti, mi ricordi una direttrice d’orchestra.
Davvero? C’è stata una definizione che molti anni fa ha dato un critico, dicendo che ero un’attrice musicale (sorride). Mi è piaciuta molto, perché anche laddove non c’è da cantare o da suonare, la musica c’è comunque. Nell’ascolto, nel corpo, nell’attitudine, nel tipo di respiro. Ho cominciato a studiare musica quando ero una bambina, poi a dieci anni sono entrata in Conservatorio. C’è stata un’evoluzione che è andata insieme al mio corpo, sono cresciuta in quella lingua. Quindi in un certo senso poi ti determina, si incastra dentro di te.

Oggi suoni ancora il pianoforte?
Quando mi è richiesto. In questo spettacolo c’è un pianoforte in scena, e io suono e canto ogni sera.

A casa, invece?
Mi succede. Mi va, mi piace, mi fa bene.

È un momento di raccoglimento o di intrattenimento?
In verità è più per me. Mi piace molto Bach. E poi Schumann, John Cage, Mozart.

Te lo chiedi mai se sei nata per suonare o per recitare?
Io sono attrice. Non ho nessun dubbio.

Ho ritrovato una tua intervista molto interessante, in cui venivi provocata e rivendicavi di non essere una ribelle. Non è che tu mi abbia convinto molto.
(Ride) Ho presente quell’intervista. Il giornalista mi aveva parecchio provocata e non me lo aspettavo, però poi è stato bravo. Ma perché tu senti che sono una ribelle?

Perché è come per il teatro: forse conservare un po’ di tradizione è l’atto più ribelle che puoi trovare in giro.
Sì. Forse l’ho detto perché, in un momento in cui tutti sono eversivi e ribelli, tutti si inventano ogni giorno un modo per gridare la loro ribellione, ecco, forse non farlo può essere più forte. In verità cerco di stare attaccata a quello che sento. E a me far rumore non interessa.

Però?
Però non sono disposta a fare nulla contro di me. Per il successo o per un avanzamento di carriera, io non voglio tradirmi mai. Ci tengo, mi voglio bene. Allora conservo un po’ di riservatezza, che può essere anche eversiva, non credi?

Credo, credo. Isadora Duncan era una che, piuttosto che scendere a compromessi, sceglieva di non lavorare e fare la fame. Tu hai mai dovuto scegliere?
No, però io ho sempre vissuto del mio lavoro. Sono uscita di casa prestissimo, a diciott’anni, senza nessun appoggio familiare. Non era possibile, perché non c’erano i mezzi. Quindi ne vado molto orgogliosa, e il mio lavoro è cresciuto in questa determinazione. Ho tanti amici che hanno dovuto fare i camerieri e inventarsi mille cose prima di riuscire a fare solo questo mestiere, e oggi lo fanno benissimo. Può anche essere utile a conoscere meglio la vita e poi tradurla in scena, quando hai più forza e più possibilità. Io però ho avuto la fortuna di continuare sempre a lavorare, e questo mi ha dato modo di concentrarmi su quello che facevo.

Fortuna o bravura?
Be’, non mi ha aiutato nessuno. Dico fortuna perché non è scontato poter fare al meglio il lavoro che ami. Peraltro un lavoro che, quando riesce bene, ti fa provare gioia. Questa per me è l’idea di fortuna, non vincere all’Enalotto. Che poi non ho mai vinto all’Enalotto, ma mi piacerebbe. Non so neanche se esiste ancora.

Foto: Alberto Terrile

Penso di sì, quando compro le sigarette c’è la fila per le giocate. Con le incursioni nella commedia e nel mainstream sei sempre stata a tuo agio?
Io sono felice delle incursioni nel pop. La primissima è stata Tutti pazzi per amore, e pensa che non volevo assolutamente farlo. Non avevo mai girato una serie, e inoltre era un ruolo da antipatica. Mi ci ha proprio tirato dentro Riccardo Milani, e alla fine sono stata contentissima. Ho scoperto la possibilità, in commedia, di raccontare storie in modo diverso.

Milani è stato un po’ il tuo Marco Tullio Giordana del pop.
(Ride) Sì, hai ragione. E gli sono grata per questo. Con Quo vado? è successa una cosa simile, è stata una proposta e ho trovato il copione ben scritto, con una coppia comica esilarante. Mi sono buttata: dal mio punto di vista poteva essere una catastrofe, e invece quel tipo di commedia al cinema mi ha arricchito professionalmente. Ecco, io scelgo molto, però non sono una snob. Non mi interessa essere sempre la musicista che ha fatto il Piccolo e che ha scritto un libro di poesia. Non ho fatto l’università, lo dico: non sono laureata.

Sì ma tra Tolstoj, Marivaux, Balzac… Se si pensa a te, si pensa a un intrattenimento che pratica l’alta cultura. Non ti pare?
Carmelo Bene, Shakespeare… (pausa) Ecco, a me piacerebbe che il teatro tornasse ad essere pop. Letteralmente popolare, come un bene comune. Shakespeare era popolare, lo andavano a vedere tutti, i salumieri, i ragazzi e i nobili, tutti insieme. Io vorrei un teatro così.

Hai raccontato che Strehler aveva l’abitudine di trattare male gli attori, nel tipico stile del regista demiurgo del Novecento. Ai grandi maestri lo perdoni?
Comprendo il sistema in cui erano immersi, figli di generazioni di padri che avevano insegnato quella linea di predominanza squisitamente maschile. A loro volta vivevano immersi in quella tradizione. Oggi c’è una revisione sacrosanta, che va incontro alla possibilità di lavorare in una condivisione di intenti e nel rispetto reciproco. Perciò comprendo. Poi, perdonare, è un’altra cosa.

Di registi demiurghi te ne sono capitati, di recente?
Non so se darei una definizione di questo tipo, ma Antonio Latella, il regista con il quale ho lavorato a Chi ha paura di Virginia Woolf?, è un artista purissimo. Figlio del Novecento, come lo sono io, ma immerso nel presente. È una figura carismatica, un grande pedagogo che sta allevando generazioni di nuovi registi, registe, attori e attrici. Fa un lavoro straordinario sulla drammaturgia e sulla messa in scena. E se devo pensare a una persona del genere oggi, in Italia, penso a lui.

Sempre a proposito del fatto che negavi di essere una ribelle, è risaputo che hai litigato con Carmelo Bene. Oggi lo rifaresti?
Sì, assolutamente. Per me è un discorso di rispetto profondo per se stessi. Mi piace sempre andare incontro a dei limiti. Senza farmi violenza, però. Quello non lo accetto.

Al supermercato discuti con quelli che superano la fila?
(Ride) Sì, sono quel tipo di persona.

Essere scelta più volte da Franco Battiato: deve aver trovato in te qualcosa di eccentrico o di profondo. Cosa?
Dico una cosa abbastanza assurda, ma forse c’è stata una forma di riconoscimento. Forse ha sentito che c’erano dei valori condivisi, al di là di quello che poteva piacergli. Aveva visto La meglio gioventù e partiva da quello, ma io ero anche musicista, e questo è un link molto importante. E poi forse riuscire a stare insieme nel modo giusto, che per Franco è stato sempre molto importante. Collaborare e circondarsi di persone che amava, con le quali condivideva non solo il lavoro, ma anche delle idee. Seguivo da anni il suo allontanamento e il suo progressivo silenzio, in un certo senso mi stavo preparando. Era come se lui ci avesse già permesso di salutarlo.

Sonia Bergamasco nei panni di Isadora Duncan in ‘Io e lei’. Foto: Sky

Per Battiato la più grande disgrazia degli esseri umani era quella di credersi immortali. Se ho capito bene, questo è un rischio che tu non corri.
(Ride) No, per carità. Non mi interessa proprio credermi immortale, è già tanto vivere il presente. È una cosa difficilissima e in pochissimi ci riescono.

Isadora Duncan è rimasta uccisa da una sciarpa impigliata nella ruota della sua Bugatti: un epilogo irrisorio per chi voleva fare la rivoluzione. Sei tornata a ragionare sull’idea di morte?
Io ci penso sempre. La morte è una presenza e tra noi c’è un dialogo. Anche Franco ci pensava sempre. Credo però che sia una presenza benefica per rimettere in ordine tante cose e ricordarci le relazioni, i limiti, quello che è necessario e quello che non lo è. La morte è un pensiero che mi mette in ordine, sì.

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