Sempre più blu, sempre più Rino Gaetano | Rolling Stone Italia
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Sempre più blu, sempre più Rino Gaetano

Nel suo nuovo doc (dopo quelli su Daniele, Conte e Jannacci), Giorgio Verdelli evita l’agiografia e ritrova un Rino autentico, malinconico, inclassificabile: un artista che continua a parlare alle nuove generazioni. Al cinema

Sempre più blu, sempre più Rino Gaetano

Un'immagine di Rino Gaetano nel doc 'Sempre più blu' di Giorgio Verdelli

Foto: Sudovest Produzioni Indigo Film

«Per me il blu, il blu che concepisco di Rino, è proprio quello del colore della tristezza, della malinconia. Se vogliamo, proprio quello del blues. Il blu può assumere vari significati nel contesto in cui viene usato, però è innegabile che sia anche un colore molto musicale e cinematografico». Così Giorgio Verdelli mette subito le cose in chiaro spiegando il senso profondo, emotivo e simbolico della scelta del titolo per il suo nuovo documentario Sempre più blu, dedicato a Rino Gaetano (al cinema il 24, 25 e 26 novembre).

Un titolo, come spiega ancora il regista, suggerito dai produttori per ovvie ragioni di marketing e che cita il brano più celebre del cantautore crotonese, ma che allo stesso tempo va a sottolineare il colore cardine della scrittura di Rino. Amori blu, auto blu, notti confidenzialmente blu, magari con Katmandu all’orizzonte. E pensare che, come per molta della discografia di Gaetano, il suo brano ancora oggi più celebre ebbe successo tardivo, per lo più postumo: «Ma il cielo è sempre più blu, che oggi è una canzone arcinota, in realtà quando uscì fu sì un successo, ma non di quelli enormi: io me lo ricordo bene, perché iniziavo a fare radio in quel momento, e il pezzo aveva venduto 60-70mila copie. Non fu un boom. Lisa dagli occhi blu», dice ironicamente, «ha venduto molto di più. Ma Lisa dagli occhi blu non è rimasta nella Storia, mentre quella di Rino, come dice giustamente Brunori Sas nel film, è una canzone popolare per sempre. Sono canzoni che hanno questa caratteristica, tuttora in voga come quella di Novaro e Mameli, per citare Sfiorivano le viole».

Questa scelta – non solo di titolo, ma di mood – orienta tutto il film: «Il blu di Rino è una componente psicologica, è la malinconia travestita da allegria. Anche in ciò che sembra leggero, c’è una profondità che fa quasi male». Verdelli si discosta da ogni tentazione agiografica e confeziona un ritratto che parte proprio dalla dimensione umana e ambivalente di Gaetano: «Il mio goal, il mio obiettivo, era cercare di raccontare Rino Gaetano in modo diverso da tante cose che ci sono su di lui, anche recenti – francamente non belle – che sono tutte riduttive. Tutti si buttano sulle stesse cose: non è stato compreso, aveva anticipato i tempi, oppure su tutte le varie teorie complottistiche legate alla sua morte. Quest’ultima poi è una cosa tremenda, che ho voluto proprio sorvolare». Il cuore della sua ricerca è ricostruire invece il musicista attraverso chi ci ha lavorato davvero – non solo gli amici di quartiere o l’aneddotica fine a se stessa.

Rino Gaetano - Sempre più blu | Trailer Ufficiale | 24, 25 e 26 novembre al cinema

«La ragione per cui sono andato a scavare e a trovare i musicisti che hanno collaborato con Rino è proprio per vedere cosa c’era dietro dal punto di vista compositivo. Ad esempio Arturo Stalteri, pianista eccezionale: nessuno lo cita mai, io invece l’ho convocato e mi ha illuminato la scena, perché ha raccontato delle cose nuove. Soprattutto quando parla dell’introduzione di piano di Ma il cielo è sempre più blu: sono dettagli che fanno capire la grandezza di certi arrangiamenti». Verdelli abbraccia il consiglio del grande D.A. Pennebaker: «Il regista di documentari musicali deve fare il detective. Pennebaker diceva che il vero documentario mette insieme quello che tutti sanno e quello che nessuno sa. Se racconti solo cose ignote, non soddisfi il pubblico, che vuole anche riconoscere quello che già conosce. Ma se ti limiti al noto, non hai fatto un documentario, hai fatto uno speciale televisivo. Il documentario si trova nell’equilibrio tra questi due poli e quella, per me, era la vera mission». Ecco perché il film cerca «quelle chicche di Rino, come il pianismo di Danilo Rea, allora giovanissimo, certe esecuzioni radiofoniche, le storie dei sideman che l’hanno accompagnato e di chi lo ha vissuto davvero in studio e nei locali».

Uno dei punti più forti, e su cui Verdelli insiste, è la scelta di proporre interi brani. Il regista si sofferma ancora soprattutto su Sfiorivano le viole, spesso lasciata ai margini delle antologie: «Se uno non sente Sfiorivano le viole per esteso, non capisce la capacità di scrittura di Rino Gaetano. Per me è un capolavoro, prende queste immagini poetiche e le trasforma in qualcosa di epico. Poi ci sono due cose geniali quando dice “il marchese La Fayette ritorna dall’America importando la rivoluzione e un cappello nuovo”, quello è puro Battiato, e quando aggiunge la cosa di Novaro e Mameli: quella cosa lì sta tra Jannacci, Battiato e Battisti, è quasi metafisica…».

Il documentario riesce a mettere in risalto queste chiavi di lettura, anche a costo di interrompere talvolta le canzoni proprio sulla coda, per attirare l’attenzione sulla scrittura e non limitarsi a una sterile playlist. E proprio nel caso di Sfiorivano le viole è ancora Stalteri a spiegare che l’Hammond era stato fortemente voluto da Rino per trasformare l’atmosfera del brano in qualcosa che ricordasse certo cosmic rock tedesco. Verdelli racconta il suo Rino come inclassificabile per indole, riferimenti e contaminazioni: «Era veramente inclassificabile ai tempi, ed è quella stessa inclassificabilità a renderlo paradossalmente attuale oggi. Al contrario di altri che allora sembravano dover spaccare il mondo e oggi, invece, sono nomi che alle nuove generazioni arrivano sbiaditi. La cosa che colpisce di più è che quel seme – i paradossi, la scrittura laterale, il modo sempre nuovo di raccontare la malinconia – continua a germogliare ad ogni nuova generazione».

Foto: Sudovest Produzioni Indigo Film

A spiegare bene il fascino senza tempo della scrittura, ma anche del cantato urlato, sgraziato, quasi grunge di Rino ci sono Brunori Sas, debitore assoluto di un certo modo di intendere l’interpretazione e la forma canzone, e Lucio Corsi, raggiante e quasi commosso ogni qual volta gli rende omaggio (e che ammette di aver accettato di partecipare a Sanremo perché gente come lui, Vasco e Graziani c’erano stati). C’è poi il coraggio di Rino nel non tirarsi indietro di fronte a ruoli più scomodi, nel presentare con nonchalance Gianna in radio pochi giorni prima di portarla a Sanremo o di fare quell’infinita lista di nomi e cognomi che è Nuntereggae più. Tra quelli citati, è bella la testimonianza di Tardelli, contrapposta alla famosissima, bieca, aggressione di Costanzo, che lo invitò in trasmissione in compagnia di Susanna Agnelli: «Ho volutamente utilizzato solo pochi secondi di quello che, a ragione, Andrea Scanzi definisce un vero e proprio agguato da parte di Costanzo. Una cosa degna del peggior Vespa».

Dal film esce poi tutta l’evoluzione musicale e la curiosità di un personaggio che ai tecnicismi che gli propone Maurizio Solieri risponde di preferire ritmi simili a quello de La bamba, ma che di fatto finisce la sua carriera con il Q Concert in compagnia di Riccardo Cocciante e della band jazz dei New Perigeo. Che amava tanto sia Bob Marley che i Tangerine Dream e che se gli chiedevi cosa valesse la pena di ascoltare in Italia faceva subito tre nomi: Pino Daniele, Enzo Jannacci e Lucio Battisti. Che venne portato alla RCA in autostop da Lucio Dalla e che nel comunicato stampa che annunciava la sua partecipazione a Sanremo scrisse che aveva sempre pensato che quello fosse il Santo dei laziali. Secondo il regista, il progetto Q Concert in particolare potrebbe farci intravedere quale avrebbe potuto essere il futuro musicale di Rino Gaetano: «Quella cosa del Q Concert secondo me è bella, perché non possiamo sapere cosa avrebbe esattamente voluto fare dopo, ma di sicuro dimostra che non era fermo, che era in evoluzione continua. Il Q Concert è stato una sorta di laboratorio, indicativo di una apertura mentale e musicale che testimonia il fatto che Gaetano non si fossilizzava mai in una forma unica».

Il Q Concert. Foto: Sudovest Produzioni Indigo Film

«Rino aveva già mostrato un eclettismo e una capacità di spostarsi tra registri che oggi lo avrebbero portato probabilmente verso nuove contaminazioni, nuovi esperimenti, nuove collaborazioni. Quel concerto, quella prova collettiva, fa capire che lui non aveva timore di cambiare pelle, di mettersi in discussione». Il rischio di creare santini, in casi come quello di Gaetano, è altissimo, ma Verdelli è il solito maestro nel far uscire con semplicità l’uomo con tutte le sue sfaccettature. È bello sentire Sergio Cammariere interpretarlo al piano mentre racconta di come ha scoperto la sua parentela con lui, o ancora Solieri ricordare quando il primo Vasco veniva spesso confuso per Rino. Così come è illuminante ritrovarsi a chiedersi quante porte non siano ancora state aperte sulla sua arte: «Il mio obiettivo era quello: aprire continuamente porte, non chiuderle. Portare stimoli, far venire voglia di scoprire, di risentire, di esplorare. Se questa cosa riesce a portare Rino Gaetano all’attenzione di chi già lo ascoltava e soprattutto di quelli che non lo conoscevano, quello per me è un vero successo».

Questo, dice, era già accaduto con i suoi lavori su Pino Daniele e, soprattutto, Jannacci: «Dopo quegli omaggi, c’è stata una riscoperta e in parte una rivalutazione profonda. Oggi con Gaetano spero succeda lo stesso, senza miti da barattare ma con la voglia di vedere davvero la musica come un racconto pieno di chiavi di lettura». In un momento in cui proliferano le celebrazioni, Verdelli vuole evitare la retorica: «Cerco di fare anche una celebrazione, sì, ma soprattutto di aprire delle porte affinché la gente ci si infiltri e poi vada a esplorare. Non voglio solo nostalgia o ricordo, voglio storie nuove. Perché se i documentari non stimolano, restano chiusi in se stessi. E allora il blu di Gaetano diventa un invito a cercare la propria malinconia, a raccontare ancora l’Italia e il mondo che cambia». Con la speranza che qualcuno, ascoltandolo in compagnia di una birra chiara in lattina, decida di prendere ancora il 109 per la rivoluzione.