Se la quinta stagione di ‘Stranger Things’ fosse una canzone: l’ultima playlist dal Sottosopra | Rolling Stone Italia
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Se la quinta stagione di ‘Stranger Things’ fosse una canzone: l’ultima playlist dal Sottosopra

I Duffer, Finn Wolfhard, Gaten Matarazzo, Caleb McLaughlin e Noah Schnapp raccontano la fine di un’era: tra Fleetwood Mac, Bowie e INXS. «È come dire addio a qualcuno e poi continuare a camminare nella stessa direzione»

Foto: Netflix

Ok, c’è il junket con i protagonisti e i creatori di Stranger Things – figata, ma ovviamente non si può dire nulla (e quando dico nulla, intendo veramente NULLA) sul gran finale, e allora per fortuna che lavoro a Rolling Stone Italia: se la quinta stagione fosse una canzone, quale sarebbe?

«Mi fa ridere che ci giriamo tutti verso di te, Finn», attacca Caleb McLaughlin (alias Lucas Sinclair) prima del bagno di folla al Lucca Comics & Games. Ridono, ridiamo tutti. D’altronde Finn Wolfhard (aka Mike Wheeler) è il musicista del gruppo: «Ok, ce l’ho», poi si ferma. «Oddio, ma sarà spoiler?». «Ne ho una io!», interviene Gaten Matarazzo (Dustin Henderson), che alterna la tv a Broadway. «Solo per il titolo e per l’impatto: Under Pressure».

«Io invece direi Never Tear Us Apart degli INXS», dice Finn. «Ok, la tua è meglio», concede Gaten. «Devo sentirmela, ma suona come roba grossa», chiude il siparietto Lucas. Ridono, ridiamo tutti, di nuovo, questa intervista sarà un gran casino, ma ci piace così.

 Faccio la stessa domanda ai Duffer Brothers: «Oddio, non lo so… quale potrebbe essere?», prende tempo Ross. Matt: «Forse Heroes di David Bowie. Ci starebbe, no?». Il fratello annuisce: «È perfetta, ottima scelta».

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Stranger Things infatti non è mai stata solo una serie: è stata un coming of age Eighties sotto forma di playlist, un vero e proprio mixtape dal Sottosopra, una colonna sonora dell’amicizia e dell’apocalisse dove i pezzi non si limitano a creare l’atmosfera, ma diventano parte integrante della storia: «Credo che tutto dipenda dai personaggi, sono loro a dettare quali canzoni inserire nello show», spiega Matt Duffer. «Non partiamo mai da “voglio sentire questa o quella canzone”. Per esempio, per Running Up That Hill sapevamo che Max aveva bisogno di un brano che le appartenesse. Così abbiamo creato una playlist su Spotify: le canzoni di Max. E ovviamente tra quelle c’era Kate Bush».

È proprio in questo modo che i pezzi diventano tanto potenti (e scalano di nuovo le classifiche quasi 40 anni dopo). «Se sono davvero importanti per i personaggi e per la narrazione, allora riescono a emergere davvero, molto più che se fossero solo una “scelta cool” o un sottofondo d’atmosfera», precisa Ross. «Funziona perché le canzoni sono collegate alla scena, hanno un peso emotivo». Matt: «Penso ai Clash o ai Joy Division con Jonathan: ogni brano è sempre molto legato ai protagonisti». Entriamo, si fa per dire, nel minatissimo territorio della quinta stagione (la prima parte dal 27 novembre su Netflix): «Lo stesso vale anche quest’anno: abbiamo, per esempio, Holly Wheeler, che ha dieci anni — che cosa ascolta? Ed è così che capiamo più o meno quali brani finiranno nella serie».

«Pure nei nuovi episodi ci sono un sacco di canzoni, momenti musicali davvero fighi», parola di Finn. «Vabbè ma i Duffer ci azzeccano sempre», esclama Gaten. «Hanno una cura incredibile nel fare in modo che la musica abbia un ruolo importante. Spesso ci chiedono anche cosa ne pensiamo di una canzone che stanno valutando per una scena. Ed è fantastico perché trattano i pezzi con attenzione, con amore».

Ma i ragazzi ascoltano brani specifici per entrare nel mood e nei personaggi?
«Oh sì, sempre», risponde subito Gaten. «Almeno nella prima parte delle riprese di ogni stagione», conferma Caleb. «È una cosa tipo: “Mi ricordo ancora come si interpreta Lucas?”. E appena ritrovo la vibe giusta, allora posso rilassarmi e ridiventare il mio personaggio. Ho la mia playlist anni ’80, quella che mi fa dire: “Ecco, adesso sì che mi sento Lucas”».

Gaten invece sceglie un album: «A volte mi fisso con un disco e lo ascolto per tutta la stagione. Per la quinta, ogni volta che andavo sul set o che avevo del tempo libero, mettevo sempre un pezzo: Dreams dei Fleetwood Mac». Attenzione, carrambata in arrivo: «Sul serio? Anch’io! Non lo sapevo, stavo per dire la stessa cosa!», lo interrompe Finn. Di nuovo Gaten: «Davvero? È pazzesco! È stato il mio pezzo di riferimento per tutte le riprese. Ma come abbiamo fatto a non parlarne mai?!». Eccoci, siamo qui per questo. E forse è proprio il segreto della serie: un gruppo che suona insieme da dieci anni, e ancora si stupisce di avere lo stesso brano in cuffia.

Stranger Things è nata come una dichiarazione d’amore agli anni Ottanta, ma è riuscita a superare le proprie influenze e a trasformarsi in qualcosa di unico, un fenomeno über pop: «Forse un po’ ingenuamente, all’uscita della prima stagione Matt e io siamo rimasti sorpresi da quanto l’attenzione si fosse concentrata sulle nostre influenze», racconta Ross Duffer. «Ovviamente non eravamo stati sottili, ma a un certo punto devi mettere da parte tutto e lasciare che siano i personaggi e la storia a decidere dove andare. Non puoi continuare a guardare indietro ai vecchi film». Poi aggiunge: «Più che le citazioni, per noi contava quel tipo di racconto che amavamo da bambini: una narrazione piena di speranza e avventura, in un periodo in cui andavano solo gli antieroi e il disincanto. È questo aspetto, più di ogni altro, che abbiamo preso dai film degli anni Ottanta e dei primi Novanta che amavamo. Stranger Things nasce da lì: dal desiderio di riportare in vita una forma di storytelling più luminosa, piena di cuore».

E il cuore, in fondo, sono sempre stati loro: i ragazzi di Hawkins. Quindi come si fa a pensare un capitolo finale che suoni insieme epico e personale per gli ormai amatissimi protagonisti? «Quando scriviamo, cerchiamo di isolare il più possibile il rumore esterno», spiega Matt. «Nella prima stagione non avevamo fan. Stavamo solo scrivendo qualcosa che pensavamo fosse figo. Abbiamo avuto successo proprio quando abbiamo smesso di preoccuparci di cosa potessero volere gli altri, e ci siamo concentrati su ciò che piaceva a noi, naturalmente sperando sempre che risuonasse con il pubblico. Se inizi a scrivere cercando di indovinare cosa vogliono gli spettatori, spesso finisci per non accontentarli davvero. È stato il nostro metodo sin dalla prima stagione: cercare di affrontare ogni capitolo con la stessa mentalità con cui abbiamo cominciato».

Finn, Gaten, Caleb e Noah (Schnapp, e cioè Will Byers) hanno passato quasi metà della loro vita insieme, tra la scuola e il Sottosopra. «Onestamente», dice Wolfhard, «la nostalgia per me è legata alla città dove abbiamo girato, Atlanta. Ogni volta che torno, ogni volta che passo davanti a un edificio o a un angolo, mi sembra di rivivere tutto. Non fare quella faccia!». McLaughlin scoppia a ridere: «È divertente, perché la tua esperienza di Atlanta è completamente diversa dalla mia!» Finn sorride: «Può darsi. Ma per me è il posto dove tutto è iniziato, e quindi è quello che mi torna sempre in mente». Gaten annuisce: «Sì, ci penso continuamente anch’io. Mi viene in mente la strada, il tragitto verso il set. È come una seconda casa».

Ross Duffer torna alle origini, nello scantinato dei Wheeler: «La prima scena che abbiamo girato era quella dei ragazzi che giocano a Dungeons & Dragons. Erano piccoli, i costumi, le luci… ed è stato lì che ho pensato: “Ok, funziona”. Mi ha riportato alla mia infanzia, era tutto così reale». Matt sorride: «Siamo gemelli, ha detto tutto lui. Quel primo giorno, e poi l’ultimo». I ragazzi sono d’accordo, Finn: «L’ultima scena girata tutti insieme è la cosa più speciale della mia vita. Ma anche la terza stagione, con il centro commerciale e quello scivolo tra le scale mobili… ci giocavamo sempre tra una scena e l’altra.» Matt ride: «Ovviamente gli avevamo detto di non farlo». La replica di Finn: «Ma è stata Maya (Hawke) a cominciare!». Matt: «Sì, e poi noi l’abbiamo messo nello show». Piccola parentesi esperienziale: sono stata sul set di quella clamorosa terza stagione, ho visto il mall, lo scivolo, lo scantinato, ho parlato con i ragazzi (e sì, fa impressione rivederli ora cresciutissimi). Ecco, forse solo lì ho davvero capito la portata del fenomeno, cos’era e cosa sarebbe diventato Stranger.

«Quella scena in cantina è stata l’inizio di tutto, e anche la prova che potevamo farcela. Eravamo dei ragazzini ingestibili, e pensavo che la crew ci odiasse. Invece da lì è partita l’avventura», conferma Gaten. Per Caleb la quarta stagione è stata la più importante, «era come se i Duffer fossero entrati nella mia testa. È stato un periodo in cui cercavo me stesso, e loro sono riusciti a riflettere quella sensazione nella serie». E poi tocca a Noah: «Non posso scegliere un solo momento. Ma ricordo la prima volta che dovevo piangere. Ero terrorizzato, c’era così tanta pressione. Ho scritto a Winona chiedendole aiuto. Mi ha risposto: “Non ti preoccupare, vieni da me”. Mi ha accolto nella sua roulotte, mi ha spiegato che lei, quando deve piangere, tiene la mano aperta per sentirsi vulnerabile. Mi ha messo della musica, e tutto è venuto da sé. Per me è stata davvero come una seconda madre». Awwww.

Dopo cinque stagioni, i personaggi sono cresciuti con loro, o forse è il contrario. «Credo che Mike si sia evoluto in molti modi diversi», spiega Finn. «È un’evoluzione che attraversiamo tutti, bambini e adulti. Solo che lui è cresciuto in circostanze davvero disturbanti. Noi non abbiamo combattuto mostri interdimensionali, ma abbiamo avuto un’infanzia insolita, e stare insieme ci ha aiutato». Arriva un altro piccolo glimpse dentro i nuovi episodi: «In questa stagione Mike cerca di tenere il gruppo unito, di esserne il leader». Gaten prosegue regalandoci qualche altro piccolo lampo: «Devo ringraziare Matt e Ross perché hanno dato a Dustin nuove sfide, ne sono contento perché do il meglio sotto pressione. C’è un inizio difficile per il mio personaggio, e per tutti, in realtà: dovranno affrontare paura e dolore. Per la prima volta si sentono tutti persi, disorientati».

Per Caleb, Lucas è diventato un personaggio complesso: «Nella prima stagione era sulla difensiva, più scettico. Nella quinta scopre chi è davvero, è più sensibile, e credo che questo glielo abbia tirato fuori Max. Ho cercato di leggere tra le righe: il Sottosopra è un mondo di demoni e paura, ma alla fine Lucas arriva a essere più resiliente, attaccato alla sua famiglia e agli affetti». Noah: «L’evoluzione di Will è fantastica, come quella di tutti, ma la sua risuona molto dentro di me. Ha affrontato tantissimi problemi — e nella vita reale è così, nessuno è definito da un solo trauma. I Duffer sono stati geniali nel intrecciare tutto: l’abuso del padre, l’esclusione dagli amici, e rifletterlo nel Sottosopra. Finalmente Will trova la sua voce e capisce che va bene essere chi si è davvero».

Come ci si saluta alla fine di una serie come Stranger Things, dopo dieci anni, quei dieci anni insieme? La versione di Caleb: «Quando ho detto addio a Finn, gli ho grattato la nuca e ho detto “Ti voglio bene, fratello”. E lui ha fatto la stessa cosa nello stesso momento. È stato assurdo».
«Davvero?» chiede Finn.
 «Sì, credo di sì… o forse me lo sto inventando», ride Caleb.
 «Io ero convinto che gli avessi dato un abbraccio gigante», replica Gaten. «Di quelli che diventano subito molto emotivi. Gli hai preso i capelli?».
 Noah: «Esatto! Così!».
 Gaten: «È un gesto così intimo, in realtà senza una ragione precisa». 
Caleb ride ancora: «Ok, forse l’ho proiettato io. È stato tutto così emotivo».

Interviene Finn: «La verità è che ci siamo detti addio un sacco di volte». Di nuovo Gaten: «Ci abbracciavamo, “grazie di tutto, ti voglio bene”, e poi ci rivedevano tipo sei volte la stessa settimana». Finn annuisce: «Esatto! Tutti ci chiedono come ci sentiamo per la fine della serie, ma in realtà c’è una metafora perfetta: è come dire addio a qualcuno e poi continuare a camminare nella stessa direzione. Ecco cos’è stato Stranger Things». 
Noah conclude quasi sottovoce: «E sarà per sempre così».

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