Sbagliare ancora una volta, insieme a Enrico Borello | Rolling Stone Italia
una nuova stagione

Sbagliare ancora una volta, insieme a Enrico Borello

La carriera iniziata a 26 anni, un sentiero di successi crescenti, e l'ultimo ruolo in 'Ogni maledetto fantalcio' di Alessio Maria Federici, da oggi disponibile su Netflix. Con lui abbiamo chiacchierato un po' di tutto. Anche di quanto sia bello commettere errori

Enrico Borello

Enrico Borello

Foto: Guido Stazzoni

Chi scrive ed Enrico Borello hanno recitato insieme. Nell’opera d’esordio di Alessio Pascucci, Come crimini e misfatti, uno di quei film indipendenti che lottano per uscire in sala e lo meriterebbero quanto prima, per valore e talenti (con Borello, protagonista, c’è anche Marlon Joubert). Recitare insieme, però, non è proprio la definizione esatta: il suo personaggio era silenzioso e in osservazione, mentre il mio si produceva in un dialogo tonitruante e cialtronesco. Difficile guardarlo in faccia – per fortuna quest’intervista non è stata fatta dal vivo – visto che il sottoscritto è un cane maledetto che provava a portare a casa un cameo e lui è tra gli interpreti migliori della sua generazione. Per citare solo alcuni dei suoi film e personaggi: La città proibita di Gabriele Mainetti in un ruolo di quelli che cambiano la carriera, Supersex in quello di pornofactotum irresistibile anche nei momenti più “squallidi”, Familia nei panni scomodi di un neofascista, Lovely Boy in quelli di un trapper. Con registi e personaggi e opere che ti permettono ogni volta di fare un passo in più.

Ora cambia registro, pettinatura e golf (pariolinamente bruttissimo, diciamolo) in Ogni maledetto fantacalcio di Alessio Maria Federici e prodotto da QMI, dal 27 agosto 2025 su Netflix. Una tragicommedia – originale e irriverente come tutti i film di Federici – che si diverte a mettere in scena il gioco più amato dagli italiani (maschi, soprattutto). Dove l’asta diventa il filtro, il prisma per un racconto di genere divertente e rutilante che vede coinvolti anche Giacomo Ferrara, Silvia D’Amico, Francesco Russo, Antonio Bannò e Caterina Guzzanti, magistrato che indaga proprio sulla scomparsa del personaggio interpretato da Borello (e vi risparmiamo le partecipazioni illustri: da Leotta a Pardo, da Pastore a Orsato e Pavoletti, ci sarà da divertirsi). Inutile chiedersi la durata: 90 minuti, ovvio.

Ogni Maledetto Fantacalcio | Trailer ufficiale | Netflix Italia

Domanda inevitabile. Giochi al fantacalcio? E vinci sempre come il tuo Gianni?
Confesso subito. L’ho fatto alle medie, una volta, in un modo, e mondo, antidiluviano, ancora con i conti a mano sul foglio di carta e il giornale sportivo davanti con i voti da trovare da soli. Poi nel tempo non s’è mai sbloccato il mio amore per il calcio e sono diventato semplice ma affascinato spettatore del delirio di amici e parenti per il calcio e per il fantacalcio.

Spero tu non l’abbia mai detto al tuo regista. Siamo nella stessa fantalega e mi batte sempre.
Ma certo che lo so, che Alessio Maria Federici è un malato di quel gioco. Lui è esperto di calcio almeno quanto di cinema. Se fai il fantacalcio con lui sei destinato a perdere, sa tutto.

Ogni maledetto fantacalcio non solo racconta un gioco che tutti conoscono ma che al cinema finora non aveva trovato chi lo narrasse, è anche un’avventura che mescola Agatha Christie, Una notte da leoni e I soliti ignoti.
Posso dirti? Secondo me è più Febbre da cavallo. Però ammetto che, al di là della molteplicità dei registri e l’ottima scrittura, mi ha conquistato il gruppo. Amo semplicità, trasparenza e voglia di giocare, necessari nel momento in cui nel cinema, che è un gioco di ruolo, racconti le dinamiche di un vero gioco di ruolo. Quello che si è creato qui è un gruppo di lavoro genuino e professionale, ed è stato fondamentale. E l’incontro con il regista, scoprire quanto fosse colto, preparato e diretto, senza strategie o censure, il suo proporsi senza nascondere nulla, mi è piaciuto molto. Mi ha fatto capire il tono, la progressione drammaturgica che va nella direzione di una complessità mai pretestuosa, e fin dal provino mi ha fatto giocare sulla cifra stilistica del film, che è comico ma anche di genere, giocando sulla dinamica dell’inganno. Ed è irresistibile anche per questo.

Il provino è come l’asta del fantacalcio. Tutto dipende da come va, può succedere di tutto e alla fine tu sei sempre insoddisfatto e saprai solo molto dopo se hai vinto. E gli altri ti augurano la vittoria per gufartela.
Mi sa che hai ragione (ride). Sì, il provino è come l’asta. Per il brivido di giocarti tutto, di sbagliare, ma anche di cominciare a costruire una storia, un lavoro. Il provino non lo prendo mai come un “dentro-fuori” ma come pezzo di un percorso: se capisco che la scena lo richiede e sto provando con un altro, magari lo aiuto a mio discapito se questo migliora la resa del dialogo o della messa in scena. Sono onesto, credimi, per me è fondamentale esprimermi in un provino, lavorare su qualcosa, prima ancora che essere scelto. Se durante un provino lavoro, che so, con il regista e un altro attore, io volo ancora più in alto. E se poi da loro prendo qualcosa che ancora non conosco, allora già ne è valsa la pena. E va già bene così.

Lo confermo. Nel provino di Come crimini e misfatti hai fatto esattamente questo. E poi qualche giorno dopo hai fatto anche il provino per il ruolo del co-protagonista. In ogni caso, ci sono tanti bravi attori camaleontici, ma credo tu sia l’unico a cui basta un capo d’abbigliamento per essere totalmente altro. Qui ti basta un golfino, consentimi, inguardabile.
Allora dovrò imparare a scegliere bene golf e camicie. Scherzi a parte, sì, penso sia una mia caratteristica, che nasce dalla mia indole di persona e attore, ma anche dalla fortuna che ho avuto a incontrare certi autori che mi hanno capito e hanno rischiato con me. Amo la trasformazione perché la sento addosso, sin dalla preparazione, e faccio fatica a distanziarmene quando è finito tutto. Il cambiamento per me è qualcosa di profondo che abbandono con fatica e non subito, è una condizione temporanea ma non superficiale. Tanto che se incontro qualcuno con cui sono stato su un set in precedenza, spesso non mi riconosce. Pure se è passato un solo mese.

Da dove nasce tutto questo? Mi sembra che nel tuo percorso sia fondamentale l’aver frequentato la Scuola Gian Maria Volonté.
Mi faccio attrarre dai caratteri, dalle scritture più carnali, quindi se un personaggio è ben definito, scolpito, sento per lui una grande attrazione. Per me il testo è tutto, è la bussola, fin dal provino. Mentre leggi stai già cominciando a lavorare sul film, parte da lì la trasformazione. Se prendi possesso del mondo del film, lui prende possesso di te e tu vuoi entrarci dentro inesorabilmente. Molto di quello che faccio ha tracce di inconsapevolezza, non ho una grande capacità di controllo, lascio vivere gli istinti, sento cos’ho attorno, ma non so dominarlo. È vero però che la scuola Volonté mi ha dato un approccio orizzontale e collettivo e non verticale e individualista, in quei tre anni ho imparato a non ragionare a compartimenti stagni: lì tutti lavoravamo insieme al film, tutti lo producevamo, lo creavamo, lo recitavamo e dirigevamo. Questo ha aperto il ventaglio delle nostre sensibilità. Il bello dell’istruzione è che la porti dentro di te, la assimili e infine la devi dimenticare. Il bagaglio che ti rimane sempre sono tre anni ricchissimi – anche di conoscenze umane e professionali, insegnanti e compagni d’accademia soprattutto – dove hai imparato qualcosa di meraviglioso e difficile: le regole che poi dovrai infrangere. Anzi, la Volonté è un’istituzione in cui gli allievi cercano di rompere gli schemi, o meglio ancora di costruire un’alternativa a quelli preesistenti, una ricerca di visione e una modalità di lavoro altra che trova il tacito accordo anche di chi insegna, perché è come se ti educassero al coraggio, all’ambizione artistica e non egocentrica. L’istruzione diventa uno stimolo ad andare oltre e altrove. Un qualcosa che può capire solo chi ha fatto la Volonté.

Sembra la tua lega di fantacalcio nel film.
Non è una battuta, è vero. Con i miei compagni di set ho potuto buttarmi in un mondo che conosco poco, abbandonarmi, perché nessuno di loro aveva paura, nessuno faceva catenaccio. Grazie a loro sono riuscito a sbilanciarmi, a mollare ogni freno e inibizione. Anche perché un film così lo fai solo se ci entri con tutti e due i piedi. E gli altri fanno lo stesso. Ora Bannò se fosse qui mi direbbe “Ricordami un po’ chi sei?”, perché poi è stato divertente anche dissacrarci, a partire dall’affetto che si è creato tra noi. Il fantacalcio qui è testo e pretesto per guardare una certa realtà, una generazione, un modo di essere uomini e amici, anche attaccati alla vita ma slegati da vincoli e responsabilità, se non quelli di un’amicizia che si radica non di rado nella solitudine e nella paura di essa. Qui c’è anche una vena tragicomica che noti solo andando avanti nella narrazione.

Ti sei scoperto questo tipo d’attore relativamente tardi rispetto ad altri.
Credo che aver vissuto altre esperienze e l’aver iniziato tardi – ho 32 anni, ho iniziato a 26 – mi abbia permesso un’osservazione della vita, delle vite interiori che fosse più sfaccettato rispetto ad altri e di apprezzare così mille tratti di tante personalità diverse. E poi ho da sempre la curiosità di cercare l’essenza di chi interpreto, non mi interessa eseguire un personaggio e basta. Voglio affrontare tutto di lui, capire come si sente, rendermi conto di che cosa mi restituiscono le cose che gli accadono. Come esseri umani, l’ho capito lavorando in ospedale, siamo tutti uguali, è quello che ci accade che ci modifica. Dentro di me ho tutti i colori di tutti i personaggi, devo solo trovarli. Vale per tutti noi, ne sono convinto.

Ospedale? Eri in DOC e non me sono accorto?
No, no! Io sono laureato in Tecnica della riabilitazione psichiatrica e ho lavorato come tirocinante del reparto psichiatrico del Sant’Andrea di Roma. Per semplificare, ero un fisioterapista della mente. Se un “incidente” ti rompe dentro, tu sei lì a costruire insieme al malato un percorso per sanarlo. L’ambito psichiatrico comprende non solo squilibri permanenti, ma anche temporanei. Ormai sono anni che non lo faccio, non saprei rimettermi in pista, ma credo che mi abbia dato una sensibilità che ora mi aiuta. Poi a 26 anni, come sai, è cambiato tutto.

In fondo, permettimi la battuta, di matti ce ne sono parecchi pure nel mondo del cinema, ti sarai sentito a tuo agio.
Altroché, è pieno. A casa siamo sempre stati profondamente amanti del cinema, da mia madre a mio fratello. Credo che qualcosa per me cambiò già al liceo, quando Ciro Zecca fece un cortometraggio da una cosa che avevo scritto io. Una decina d’anni dopo alcuni eventi della mia vita mi hanno indotto a pensare che avrei potuto usare ciò che ero per esprimermi e non solo direzionandolo agli altri in senso terapeutico. Quando ho iniziato, mi sono innamorato profondamente di questo lavoro e non sono più tornato indietro.

Ogni maledetto fantacalcio ci insegna che puoi essere sei volte campione ma perdere tutto in una stagione. Anzi, in una notte. Dopo i successi degli ultimi anni, non hai paura che accada anche a te?
Ma paura di perdere cosa? Io non mi faccio certe domande, se sto avendo successo o meno, o in che posizione sono della mia carriera. So solo che mi piace sbagliare: la mia vita è costellata da errori, e come artista non posso prescindere dallo sbaglio, non sarei coerente, sono un neofita che deve sbagliare strada per capire dove vuole andare. Non conta la fama, ma l’esperienza. E poi vediamo come andrà. So che quello che è successo finora mi è piaciuto, anche quando è stata dura.

In fondo Brian Eno dice che l’errore è un’intenzione nascosta.
E se lo dice Brian Eno, chi sono io per contraddirlo? Direi che ci possiamo fidare.