Fabio Rovazzi: «Dalle canzoni a Hollywood» | Rolling Stone Italia
Interviste

Fabio Rovazzi: «Dalle canzoni a Hollywood»

Non va in palestra, ma becca lo stesso. Ha la terza media, ma ha trovato da sé la via del successo. Perché il segreto di Rovazzi è solo Rovazzi

Fabio Rovazzi: «Dalle canzoni a Hollywood»

Fabio Rovazzi, foto Simone Battistoni. Giubbotto Top Gun AVIREX, denim LEVI'S, sneakers VANS

Fabio Rovazzi, foto Simone Battistoni.

Ravazzi! Proprio così: con una A al posto della O. Un passante lo chiama a squarciagola per attirare la sua attenzione e salutarlo, sbagliando clamorosamente il nome. «Ci sono abituato, a 7 anni dovevo ritirare un premio per un disegno che avevo fatto e mi hanno chiamato Cromazzi». Gli studenti in gita al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, dove ci troviamo per scattare questo servizio, lo riconoscono subito, si esaltano. “È Rovazzi!”. “Ma va, non è lui”. “Certo che è lui”. E concede un selfie, un altro e poi un altro ancora. Un tiro di sigaretta elettronica per Rovazzi, una foto per i ragazzi.

Fabio Rovazzi, foto Simone Battistoni. Blazer TRAIANO.

Non dici mai no?
Quasi mai. Mi nego solo quando vengono sotto casa mia. È scandaloso. La cosa peggiore che mi è successa è stata un signore che, pur di avere una foto con me, mi raccontava di un figlio handicappato che in realtà non esisteva. Gli ho chiesto di farmi vedere una foto del bambino e lui: “Eh, nooo, Fabio…”. Capisci che schifo?

Da ragazzino ti sei mai fatto una foto con un tuo idolo?
No. Ma a Miami ho provato a scavalcare per entrare nella casa di Dexter, e mi hanno beccato. Poi sono riuscito ad avere il codice del cancello d’ingresso e ce l’ho fatta.

Poco fa un tizio ti ha chiesto una foto dicendo: “Sei l’idolo dei miei figli”. Che effetto ti fa sentire una cosa simile?
All’inizio ero stupito. Io non ho mai fatto prodotti per bambini, pensavo solo a quello che faceva ridere me. Però sono contento, perché il bambino ha una sincerità che i grandi non hanno, se piaci a un bambino, bene o male, piaci a tutti. Avere un pubblico vasto è una bella cosa: mi fermano anche le nonne di 70 anni, che mi hanno visto da Fazio.

Fabio Rovazzi, foto Simone Battistoni. Giubbotto in pelle TIMBERLAND.

Non senti un grande senso di responsabilità, soprattutto verso i bambini?
Ho tolto la parola “cazzo” da Tutto molto interessante. Ma l’ho fatto a modo mio, mettendoci la trombetta di Enrico Papi.

Ti è mai capitato che qualcuno ti dicesse cosa fare, come Fabio De Luigi nel video?
Nessuno può dirmi cosa fare, altrimenti impazzisco: la soddisfazione è fare le cose con le proprie mani, così, nel momento in cui fallisco, non posso incolpare nessuno. Poi ci sono quelli che dicono “Ah, J-Ax, Fedez…”: loro hanno solo notato il mio talento e mi hanno dato una mano, per quanto possibile.

Come nasce un tuo pezzo?
Tutto quello che scrivo deve avere una circolarità, un senso, dalla A alla Z. Mi piace crearmi una casa dalle fondamenta al tetto. Il meme “Guarda Simba il cazzo che me ne frega” era statico, meritava un video. Ed è così che ho pensato di fare il video (se non lo avete mai visto, cercate su YouTube “Rovazzi, La vastità…”, nda), dal quale poi è nata Tutto molto interessante. Ci metto davvero tanto tempo a fare un singolo: Volare ha 67 versioni.

E le hai conservate tutte?
Sì, perché mi piace riascoltarle e dire: “Cazzo, avevo ragione”. Pensa che non volevo fare uscire Andiamo a comandare, perché ero convinto di fare una figura di merda. Volevo fare un video comico-didascalico: mi studiavo situazioni assurde, visivamente belle. Parto dalla scrittura di un’immagine che voglio rappresentare, in quel caso il ragazzo che non fa niente di figo, al contrario dell’ostentazione dei rapper. Da lì abbiamo scritto la canzone, che è fatta di situazione-claim-situazione- claim-situazione-claim, fino al ritornello. È un mind-fuck, ti rimane in testa dopo due secondi: potevo dire qualsiasi altra cosa, tipo “andiamo a ballare”, e avrebbe funzionato uguale.

Chissà se avrebbe davvero funzionato lo stesso. Fatto sta che Andiamo a comandare ha incassato 5 dischi di platino, tre invece per Tutto molto interessante e Volare: «La prima è una cassa dritta distorta alla Deep Down Low, la seconda è più future bass alla Don Diablo, la terza molto più Audien e quel mondo lì». Tre pezzi, tre produttori diversi: «Alcuni sono andati dalle persone che lavorano con me per tentare di emulare il mio successo, ma il segreto del successo di Rovazzi è Rovazzi».

Per te vengono prima i video, poi la musica?
Il video è più importante della canzone. Hai presente quando da ragazzino, ascoltando la musica, ti immagini certe situazioni? Io cerco di anticipare quella roba lì. E lo faccio in modo frenetico. Il video di Tutto molto interessante ha 46 location: bagno-mare-ristorante… Sposta una troupe così tante volte, voglio vederti… Se ascolti Volare e togli il video, capisci quanto perde il pezzo senza Gianni Morandi che viene rapito o Gianni Morandi che vola. È una bella canzone, ma meno bella senza video. Sono canzoni da vedere. Per me è una cosa figa, devi saperla fare, ed è uno sbattimento della Madonna.

Camicia TIMBERLAND, trench BURBERRY, cappelo a tesa larga BORSALINO

A proposito dei video su Internet, Rovazzi cita Louis C.K.: «Lui dice: “Amo i genitori che fanno i video ai loro bambini appena nati e li postano sui social. Se dopo i primi 3 secondi di immagini dei figli montassero un porno, riceverebbero comunque solo commenti bellissimi, perché le persone guardano solo l’inizio e se ne sbattono del resto”. Io ti porto in un mondo surreale, fuori dall’ordinario». E qui veniamo al salto da YouTube al cinema. Perché Fabio Piccolrovazzi – questo il suo vero nome – esordirà il 18 gennaio ne Il Vegetale, diretto da Gennaro Nunziante, il regista degli ultimi quattro film di Checco Zalone.

Qual è il tuo ruolo?
Sono il protagonista, interpreto un ragazzo con i baffi e il pizzetto che si chiama Fabio Rovazzi. Ma non è la mia storia: lui vive la precarietà e subisce lo standard italiano del fottere il prossimo. Affronta un percorso di sfighe continue, finisce a fare uno stage drammatico e poi si riscatta. Non posso dire troppo, altrimenti cosa andreste a fare al cinema?

Tu hai mai fatto uno stage?
Stage mai, perché sono sempre stato auto-didatta. Ho fatto esperienze drammatiche, tipo il video-maker per gli eventi in discoteca. Riprendi la gente che si diverte e prendi 100 euro dopo 8 ore di lavoro: 3 ore nel locale e il resto per montare. Mi sono preso il mercato perché chiedevo meno di tutti e montavo di notte: alle 5 di mattina consegnavo il lavoro finito.

E sei mai stato fottuto dal prossimo?
Ho avuto la fortuna di essere sempre stato dietro alle telecamere, ho visto un sacco di amici inculati. Da quelle inculate, ho capito come non farsi inculare. Sono abbastanza sveglio, è parecchio difficile riuscire a fottermi.

Abito TRAIANO, camicia TIMBERLAND, Grooming Clarissa Carbone using Gum Salon Hair Products.

Ti aspettavi la convocazione per il cinema?
Sì, ma sinceramente non credevo arrivasse una richiesta decente. In Italia funziona così: “È seguito, portiamolo al cinema”. Un discorso che ho rifiutato.

Hai detto no a tanti film?
Non sai quanti! Ma il mio è stato un no lungimirante. Non me ne frega niente di una produzione da 15 milioni, dove però si sboccia con le fighe e si parla solo di tradimen- ti. Avrei potuto girare il mio primo film da regi- sta e fare una figura di merda: se mi fossi messo a gestire 50 persone con in testa le tempistiche del web, quella velocità di montaggio, senza sapere come tenere la soglia d’attenzione alta per un’ora e mezza, mi sarei affossato da solo.

E cosa ti ha convinto allora ad accettare Il vegetale?
Gennaro Nunziante, il regista: una persona di una umiltà incredibile. Con lui ho fatto una bella gavetta, che spero continuerà. Sul web devi catturare subito l’attenzione e giocare con il surreale. Ma il cinema è un’altra roba, e il grottesco in Italia non funziona. All’italiano piace andare al cinema e vedere l’Italia, quindi per farlo devi sapere quello che pensa la gente, e da questo punto di vista Gennaro è un grande osservatore delle piccole cose, un fenomeno. A me poi interessava fare una buona performance da attore e, soprattutto, non infilarmi in un contesto del cazzo, cosa che può capitare facilmente qui in Italia.

Cosa hai imparato da Nunziante?
Ho imparato a togliere. Esempio: se mi aggredisci verbalmente e io ti rispondo a tono, non si ride. Ma se ti rispondo con uno sguardo fisso, particolare, funziona molto meglio. Tanta mimica facciale, meno fai e meglio è. Il mio è un personaggio più alla Peter Sellers che alla Alberto Sordi: non aggredisco il contesto come fa Zalone, ma lo subisco, e questa cosa funziona bene.

Prima di diventare famoso, Rovazzi ha fatto il cameriere e lavorato in un negozio di computer in zona Lambrate, a Milano: «Mentre facevo il liceo, ho montato quasi tutti i server dell’Istituto dei Ciechi». Le prime cose le ha girate e montate da bambino: «Facevo delle pazzie con la MiniDV che mio padre usava per i filmini delle vacanze. Il primo video l’ho montato con il computer di mia madre: hai presente i primi Movie Maker con dissolvenza e scacchiera a spirale? Riprendevo le gite scolastiche, inguardabili, e ho rifatto anche delle scene di Star Wars in casa, con le navicelle di carta, perché ero appassionato di origami». E poi il primo lavoro all’ex Luminal, una discoteca milanese, e i club a Miami: «È stata la mia palestra, non era certo il mio scopo. Il mio obiettivo era connettermi con il mondo video, e quella mi sembrava la strada più sem- plice. Mi affido al caso e spesso ho fortuna, una cosa che nella vita ci vuole».

Ho mollato gli studi, ma è una scelta che gli altri non dovrebbero fare. Siamo in pochi a poter dire “Ho la terza media, e comunque sto bene”

Perché hai lasciato la scuola?
L’imposizione di argomenti mi fa perdere la passione. E poi mi stanco facilmente. Un giorno voglio fare il cuoco, mi impegno, divento il numero uno e subito voglio fare altro.

Quando hai mollato gli studi?
In quarta liceo, facevo l’artistico. Ma è una scelta che gli altri non dovrebbero fare. Siamo in pochi a poter dire: “Ho la terza media, e comunque sto bene”.

Come hai speso i soldi dei primi lavori?
Anche prima di diventare famoso, quello che guadagnavo lo spendevo in vestiti. Perché devo andare in palestra, quando mi ba- sta mettere una maglietta figa e becco uguale?

Che marchi ti piacciono?
A 18 anni, quando sono andato a vivere da solo, Burlon: andava molto ai tempi. Adesso ho imparato che i soldi buttati nella moda sono un investimento.

In che senso?
Conosci il mondo del reselling? Un marchio fa 100 magliette, che vende a 40 dollari, ma dopo un po’ valgono 5 mila dollari. Io colleziono Supreme e ho tutti i modelli delle Yeezy e delle Pharrell Williams, pagati a prezzo normale. Se le rivendo adesso guadagno il 200% del loro valore. Ci sono delle applicazioni che ti permettono di controllare quando il valore di un vestito o di un paio di scarpe è arrivato al massimo. Ma è cazzeggio puro, come il pollice verde: domani magari la mia fissa saranno le orchidee.

E gli origami?
È stata dura, ma ne sono uscito.

A proposito di navicelle fatte con gli origami: dopo Volare, non hai paura di schiantarti?
Credo che il flop sia dietro l’angolo. Il web è pieno di personaggi che crescono in maniera incredibile, e muoiono in maniera altrettanto incredibile. Ma credo in me stesso e, se mi andrà di merda nella discografia, mi andrà bene da qualche altra parte. Non mi interessa il successo, ma andare a letto felice.

Per dormire metti il pigiama?
Sì, pigiama di seta. Supreme.

Altre notizie su:  Rovazzi