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‘Roma’, l’amarcord di Alfonso Cuarón

La memoria come unica guida, il bianco e nero del passato ma il digitale per riportarla al presente: per il regista messicano,"Roma", dopo il trionfo a Venezia, è il film della vita.

Alfonso Cuarón e Yalitza Aparicio sul set di 'Roma'

I capelli di Alfonso Cuarón sono sempre più bianchi. Se glielo fai notare, lui non s’irrigidisce, ma abbozza: «Si vede che sto invecchiando, eh?». Questa tenera accettazione del tempo che passa, unita alla ricerca quasi proustiana del tempo che non c’è più, è dentro il suo ultimo film. Roma ha vinto il Leone d’oro alla 75a Mostra del Cinema di Venezia, tra le polemiche. Perché il presidente di giuria era Guillermo del Toro, messicano come lui e suo amico da anni, e in più uno dei lati del triangolo di meravigliosi connazionali che ha mutato per sempre la fisionomia della Hollywood mainstream (il terzo è Alejandro González Iñárritu). E perché è distribuito da Netflix, da piattaforma a novella major bandita dall’ultimo Cannes e pochi mesi dopo decorata con il premio principale di uno dei festival più prestigiosi al mondo. Poche polemiche, poche storie: questo è uno di quei film per cui non si fa peccato a usare la parola capolavoro. È un Cuarón come non l’avevamo mai visto e però, al tempo stesso, capace di diventare istantaneamente un Cuarón in purezza. Sei lì che lo guardi e pensi: forse il suo cinema è sempre stato questa roba qua, dovevamo solo accorgercene tutti.

“Roma” è il nome del quartiere di Città del Messico in cui Alfonso è nato 57 anni fa, e proprio sulla base di quei ricordi di bambino ha scritto, da solo, il copione. La protagonista è Cleo (Yalitza Aparicio, non professionista più brava di tante attrici da una vita), la tata di una famiglia borghese – che poi sarebbero i Cuarón stessi –, padre assente, madre dolente, figli confusi, per fortuna una nonna saggia. Tutt’attorno c’è il Messico dei primi anni Settanta, con il capitalismo che bussa alla porta, le inquietudini rivoluzionarie, la tensione continua tra tradizione e modernità. «Perché ho fatto questo film?», si interroga Alfonso da sé. «Per esplorare a fondo la mia memoria. Ma anche perché volevo capire cosa avrebbe significato per me, oggi, tornare a quei ricordi. La memoria è l’unico strumento che ho usato per scrivere Roma. Mi sono confrontato con i miei fratelli e, soprattutto, con la vera Cleo: non potevo tradire la sua storia. Ma è stata la mia testa a guidarmi. E nella mia testa ho vissuto il conflitto tra passato e presente, con quella domanda che non mi mollava mai: come cambia il passato quando lo osservi, a distanza, dal tempo di oggi? Ho rivissuto la strettissima correlazione tra la mia vita di allora e quella di adesso. E il rapporto con il mio Paese. Sono nato e cresciuto in Messico, lo senti il mio accento quando parlo in inglese, non riesco a levarmelo. E penso ancora in chilango, il dialetto di Città del Messico. Ma da più di vent’anni, quasi trenta ormai, non vivo più lì. Ci torno spesso e penso che non è più la mia città, anche se ancora la sento tale. Dopo aver lavorato così a lungo sui miei ricordi, dopo aver pensato a come riportare in vita ogni dettaglio – le atmosfere, i luoghi, tutti gli angoli di quel quartiere –, finalmente ho visto la sua trasformazione. La troupe era composta da messicani che in quelle strade vedevano il presente, io ci vedevo solo il passato: stavo in un posto che conosco da sempre senza sapere più quello che è. Ora finalmente l’ho capito. Quindi sì, con questo film c’entrano i miei capelli bianchi. C’entra il passare del tempo. Mi sono visto dentro il mio passato, e ho scoperto la persona che sono diventato».

(L to R) Verónica García as Sra. Teresa, Daniela Demesa as Sofi, Marco Graf as Pepe, Marina De Tavira as Sofia, Diego Cortina Autrey as Toño, Carlos Peralta Jacobson as Paco in Roma, written and directed by Alfonso Cuarón.
Photo by Carlos Somonte


Roma è girato in bianco e nero, ed è Cuarón medesimo a firmare la fotografia bellissima, sontuosa, quasi sfacciata. Anche questo c’entra col passato? «Non voglio intellettualizzare troppo la mia scelta, non so se mi spiego. Il bianco e nero era, semplicemente, nel Dna del film. Quando ho deciso che era arrivato il momento di girare Roma, ho messo subito sul tavolo tre punti che sapevo sarebbero rimasti fermi. Il primo: Cleo al centro di tutto. Il secondo: le scene sarebbero state prese direttamente dalla mia memoria, non le avrei romanzate come avevo fatto, per dire, con Y Tu Mamá También (il film del 2001 che l’ha consacrato ad autore su scala internazionale, nda). Il terzo: l’avrei fatto in bianco e nero. Ho messo in discussione molti altri elementi nel corso della lavorazione, ma mai questi tre. Quando mi venivano in mente soluzioni perfette per una sequenza, ma sentivo che queste idee mi avrebbero allontanato dalla realtà dei fatti, le scansavo immediatamente». Quei fotogrammi che sembrano usciti da una mostra di Robert Capa, allora, non sono una concessione arty, sono tutti veri: l’allenamento dei lottatori di arti marziali nel campo di terra battuta, il piano sequenza nel negozio di mobili e, più di tutti, quella corsa e quell’abbraccio in riva all’oceano che sono la chiave intima e visiva del film. «Del confronto continuo tra passato e presente fa parte anche l’uso del bianco e nero. Non volevo che fosse nostalgico, non cercavo un effetto vintage. Avevo in mente un film ambientato negli anni Settanta ma profondamente contemporaneo. Per questo ho scelto il digitale in 65mm, mi avrebbe permesso di trovare un bianco e nero nitido, non granuloso, l’opposto di quello di una volta. Ovvio, quando scegli questa fotografia fai fatica a non farti prendere la mano, a non amplificare i contrasti, hai sempre in mente i grandi noir degli anni Quaranta, il lavoro di maestri come Gregg Toland con Orson Welles… Ma io ho cercato una luce completamente diversa, molto più naturalistica, senza uno stile troppo marcato. Volevo una luce naturale, ecco, come guardare il sole che entra da quella finestra e portarlo sullo schermo, così com’è». Cuarón alza gli occhi verso il lucernario sul soffitto, poi li sposta sulla portafinestra alle nostre spalle, come se dovesse davvero riprendere questa scena in questo momento. «Non ci avevo mai pensato prima d’ora, ma il discorso che abbiamo appena fatto a proposito della fotografia è lo stesso dei miei ricordi: percepire il passato dalla prospettiva di oggi, dalla distanza del presente».

Nel presente c’è ancora Cleo, solo anche lei un poco più vecchia. «È ancora con noi, e dico noi perché è parte della nostra famiglia. Vive nella stessa casa in cui mi ha cresciuto, sua figlia è come se fosse mia nipote, ci ritroviamo tutti insieme per le occasioni importanti. C’era tra noi un rapporto fortissimo allora e c’è adesso, Cleo era la sostituta di mia madre, anzi era proprio la mia mamma india. Roma è un film su di lei ma anche su una donna e basta, con tutta la sua complessità. Cleo è stata accolta nella mia famiglia, ma ha sempre dovuto fare i conti con la sua classe sociale e con il suo background indigeno. Ha vissuto una tripla forma di esclusione in quanto minoranza: per la sua classe, per l’etnia, per il sesso. Era, a suo modo, un’immigrata in una realtà che non le apparteneva, e anche questo è un tema che oggi mi sta a cuore. L’integrazione non riguarda solo il Messico, ma tutto il mondo. E io volevo raccontare non la storia di una serva, ma di una donna coi suoi bisogni. Anche sessuali: quando pensiamo a chi vive ai margini della società, non ci viene mai in mente che anche loro vogliono fare l’amore, proprio come noi. Certe cose sono completamente escluse dalla conversazione, sono un tabù». La lettura femminista del film è una tentazione forte di questi tempi, soprattutto da parte della stampa statunitense. «Ma io non volevo fare un film militante, non m’interessava il messaggio politico. Volevo inserire una donna ben precisa in uno scenario sociopolitico ben preciso, ma soprattutto analizzare le relazioni affettive di un gruppo di personaggi e le conseguenze emotive che questi rapporti comportano. La politica non spetta a me».

Roma è l’opera che in molti non si aspettavano da Cuarón. Dopo i primi titoli ormai dimenticati (l’esordio promettente Uno per tutte, 1991; il gotico di passaggio La piccola principessa, 1995; il passo falso seppur lussuoso Paradiso perduto, starring Hawke/Paltrow/De Niro, era il 1998), è arrivato il successo travolgente di Y Tu Mamá También, poi un episodio della saga di Harry Potter che vale come divertissement su commissione (Il prigioniero di Azkaban, 2004), quindi un’incursione nella fantascienza post-apocalittica (I figli degli uomini, 2006) e un’altra in quella marcatamente filosofica (Gravity, che l’ha portato a vincere l’Oscar come miglior regista quattro anni fa: potrebbe facilmente fare il bis il prossimo febbraio). Ormai la sua strada sembrava andare in questa direzione. Invece forse è Roma il suo vero film. «Ed è stato il più difficile da realizzare in assoluto. I figli degli uomini e Gravity hanno rappresentato entrambi due sfide molto toste, ma mentre li giravo sapevo di avere delle reti di sicurezza: avevano tutti e due un impianto narrativo classico e un genere cinematografico codificato. In quei casi al massimo puoi spingere il pedale sull’intrattenimento, una componente del cinema che comunque mi diverte moltissimo. Con Roma ero molto più esposto, più nudo. Era un viaggio nel vuoto, e come ci vai nel vuoto? Io ho improvvisato. Ho scelto soluzioni anche scomode. Guarda quella scena sulla spiaggia, la più dura da girare: volevo che fosse pulita, senza effetti da macchina a mano. Ma trovare quella stabilità, dovendo continuamente spostarmi dalla sabbia alle onde, sembrava impossibile. Lo spettatore doveva entrare, lì come in tutto il film, nel flusso del momento, senza sapere dove quel momento lo avrebbe portato».

Anche per questo Roma è un’esperienza pressoché unica, nel cinema di oggi. «Forse un approccio simile al mio ce l’ha Paweł Pawlikowski (l’autore di Ida, Oscar per il miglior film straniero nel 2015, e di Cold War, premiato per la regia all’ultimo Festival di Cannes, in uscita in Italia proprio questo mese, nda). Lo chiamo il mio fratello polacco. Mi sono confrontato parecchio con lui negli ultimi anni, perché il suo processo creativo è molto simile al mio. Anche Paweł è tornato a indagare la Storia del suo Paese. Anche lui ha scelto il bianco e nero. E anche lui racconta un passato personale che però può diventare di tutti». Della riflessione sul cinema del nostro tempo fa parte anche quella parola per alcuni magica, per altri (soprattutto esercenti e distributori) impronunciabile: Netflix. «Roma è stato prodotto con Participant Media, Netflix è subentrata solo in una seconda fase, quando abbiamo dovuto pensare a come distribuirlo. Il motivo della scelta è semplice: è il player che avrebbe potuto garantire una vita più longeva a questo film. In molti Paesi lo si potrà vedere comunque anche nelle sale, ma parliamoci chiaro: il mio è un “film in lingua straniera”, come gli americani classificano i titoli che non sono in inglese, e non ha nessuna star nel cast. Per come si consuma il cinema oggi, qualunque opera del genere resterebbe nelle sale per poco. Netflix si sta strutturando per aiutare film come il mio a essere visti in tutto il mondo. E questo non può che essere un grande regalo per il cinema».

Alfonso dai capelli bianchi ha detto di aver compreso, grazie ai ricordi di ieri, quello che è oggi. Ma non ha svelato l’esito della sua riflessione. Ci arriviamo prima di salutarci, col sole che ancora entra dalla finestra. «Ho capito che la mia infanzia è stata molto più simile a quella dei miei nonni, forse persino dei miei bisnonni, che a quella dei miei figli. È indubbio che stiamo sperimentando una nuova generazione di persone ultra-tecnologizzate, dunque con una visione del mondo completamente diversa. Ho fatto un salto all’indietro per guardare anch’io al futuro con occhi nuovi. Qualunque sia la prossima sfida per l’umanità, sono sicuro che porterà qualcosa di buono»

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