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Robert De Niro e Al Pacino, quei bravi ragazzi

Dalle poltrone di un bar di New York, i due attori e Martin Scorsese raccontano la genesi di ‘The Irishman’, il gangster movie che hanno sempre sognato di girare e che diventerà il simbolo delle loro carriere

Robert De Niro e Al Pacino. Foto: Marco Grob per Variety

Robert De Niro si sentiva in colpa.

Era la première italiana di Sfida senza regole, un giorno di settembre del 2008, e la folla spalmata lungo il red carpet gridava il suo nome e scattava fotografie nella speranza di conquistare un autografo. Un’esplosione di puro fanatismo, incorniciata da una piazza colonnata nel centro di Roma. Mentre osservava quello spettacolo, De Niro si è voltato verso il co-protagonista del film, Al Pacino, lamentandosi perché tutta quella gente era lì per celebrare un film che era poco più di un normale thriller poliziesco, una pellicola che avrebbe macchiato e non esaltato le loro eredità artistiche. «Gli ho detto: “Questa è una grande accoglienza, ma sarebbe bello se fossero qui per un film di cui andiamo davvero orgogliosi. La prossima volta sarà così”», ricorda De Niro.

Il 27 settembre, al New York Film Festival, dopo una gestazione complicata che meriterebbe un film a sé, il mondo ha visto The Irishman, l’ultima collaborazione tra i premi Oscar Pacino e De Niro e un’opera che merita un posto in prima fila nel loro canone cinematografico. È uno dei film più attesi dell’autunno, soprattutto perché, tolto Sfida senza regole, De Niro e Pacino non hanno collezionato una lunga lista di collaborazioni, fino a ora confinate ai classici come Heat – La sfida e Il Padrino – Parte II. Il film rappresenta anche il ritorno del cinema di Martin Scorsese al mondo dei gangster, la prima volta dopo l’Oscar vinto nel 2006 per The Departed.

«Bob e Marty raccontano un mondo che capiscono bene, che hanno studiato e che conoscono meglio di chiunque altro», dice Pacino.

Per quanto riguarda il film, invece, potremmo definirlo come un resoconto sterminato di tre ore e mezza della vita di Frank ‘The Irishman’ Sheeran (De Niro), un sicario della mafia che diventò consigliere del leader sindacale Jimmy Hoffa (Pacino). Il film esplora diverse tematiche sociali, come l’intersezione tra la criminalità organizzata e il movimento dei lavoratori, così come aspetti più prettamente filosofici. Prevedibilmente, considerando che i protagonisti e il regista hanno tutti superato i 70 anni, il racconto si preoccupa anche del concetto di eredità, chiedendoci cosa ci lasciamo alle spalle dopo che lo schermo andrà a nero. In breve, è quel tipo di film – incentrato su persone terribilmente imperfette che finiscono nei bassifondi più squallidi della società – che Hollywood non fa più da tempo. I diritti di I Heard You Paint Houses, il libro del 2004 su cui è basato il film, sono stati acquistati nel 2007, ma l’aumento dei costi di produzione e le difficoltà nell’incastrare gli impegni delle star e di Scorsese ha fatto slittare più volte l’inizio delle riprese. «Non pensavo l’avremmo girato davvero», ammette Pacino. «A un certo punto mi sono detto: “Beh, era una buona idea, una delle tante che non si realizzano mai”».

Il libro divenne l’ossessione di De Niro mentre faceva delle ricerche per L’inverno di Frankie Machine, adattamento di un romanzo di Don Winslow su un sicario della mafia. Scorsese doveva dirigerlo, ma De Niro pensava che quel libro avesse materiale più valido per il suo vecchio partner creativo. Il regista era d’accordo.

«Ho iniziato subito a vedere il film nella mia testa», dice Scorsese. «I temi e le domande che mi hanno tormentato e ossessionato per tutta la vita erano già lì. Girarlo ha dato a me e Bob l’opportunità di riprendere un discorso cominciato con alcuni vecchi film e concluderlo in un momento molto diverso delle nostre vite».

Con un costo di produzione di $175 milioni, la maggior parte spesi per la tecnologia anti-invecchiamento che ha permesso agli attori 70enni di interpretare i loro personaggi sia a 20 che a 50 anni, The Irishman è un film sia dentro che fuori dal tradizionale sistema degli studios di Hollywood. Originariamente doveva essere prodotto da Paramount e STX ma, nel 2017, i costi di produzione diventarono preoccupanti per gli studios e, dopo alcune discussioni, alla fine il conto verrà pagato da Netflix.

«Dovevamo girare un film costoso», dice Scorsese. «L’industria cinematografica cambia in ogni momento – non necessariamente in meglio – e molti dei posti dove saremmo andati a chiedere fondi non erano più disponibili. Poi abbiamo parlato con Netflix. Eravamo d’accordo su tutto, volevamo girare lo stesso film. Quindi siamo andati avanti». Emma Tillinger Koskoff, uno dei produttori del film, aggiunge che gli studios sembravano reticenti a impegnarsi completamente sul film, forse preoccupati dalle difficoltà di recuperare il denaro speso. «In termini di budget e possibilità, il film era molto più attraente per Netflix che per gli studios tradizionali», dice.

Un’alleanza sorprendente che unisce Scorsese, uno dei difensori dell’esperienza del “grande schermo”, e Netflix, un servizio di streaming che sta cambiando la natura dell’industria e che è visto come una minaccia mortale da quasi tutti gli esercenti. La maggior parte degli articoli usciti su The Irishman era incentrata sulla futura uscita in sala del film. Scorsese ha fatto pressione su Netflix perché la distribuzione fosse la più massiccia possibile, ma c’erano problemi insormontabili. Storicamente, gli studios lasciano i film in sala per 90 giorni, poi fanno uscire la versione home video. I guadagni al botteghino, poi, vengono tradizionalmente divisi con gli esercenti. Netflix era disposto a tenere The Irishman in sala per 45 giorni prima del debutto in streaming e, secondo un insider, era aperto a lasciare agli esercenti il 75% dei guadagni al botteghino. Ma non era abbastanza per convincere catene come AMC e Regal. Alla fine, il film sarà in sala per 26 giorni. Un compromesso lontano dalle aspettative del regista e dei produttori, ma comunque soddisfacente.

«Avrei voluto restasse in sala per 27 giorni», scherza De Niro. Jane Rosenthal, la sua storica produttrice, fa una valutazione più pacata. «Speri sempre che si possa fare di più, ma saremo comunque al cinema e speriamo di aggiungere sale anche dopo il debutto sulla piattaforma», dice. «Alla fine, vogliamo solo che il pubblico veda il film». Netflix ha intenzione di puntare molto su The Irishman per gli Oscar di quest’anno, e l’idea è che ci siano buone possibilità per vincere sia come miglior film che per la regia e le performance di De Niro e Pacino. Ma anche se le ambizioni agli Oscar non dovessero essere soddisfatte, il lungometraggio resta un biglietto da visita importante per la piattaforma.

«Dopo l’annuncio dell’accordo, moltissimi registi ci hanno contattato per lavorare insieme», dice Scott Stuber, a capo della divisione film di Netflix. «Sappiamo che è un grande cambiamento per loro, e vogliamo supportare i migliori registi in circolazione».

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In un afoso pomeriggio d’agosto, De Niro e Pacino si sistemano in due poltrone di cuoio nel Polo Bar, un locale baronale con quadri di cavalli appesi ai muri e il soffitto ricoperto di travi di legno scuro. Sono qui per parlare di The Irishman, che hanno finito di girare un anno fa. Parlare a entrambi, dicono amici e colleghi, è come fare uno studio sui contrasti. De Niro, più alto di persona che sullo schermo, è educato e riservato, e le sue risposte tendono a essere monosillabiche. Pacino, asciutto e più animato, preferisce fare discorsi più lunghi e articolati, e spesso si perde in un caos di ricordi e aneddoti.

«Al è un chiacchierone, Bob è più silenzioso, ma sono entrambi adorabili e gentili», dice la collega Anna Paquin.

È questo, per la maggior parte, l’approccio che hanno avuto all’intervista. Ma c’è un argomento che ha innervosito De Niro fino a farlo arrivare ai livelli di intensità di Jake LaMotta: Donald Trump. È particolarmente preoccupato dalle ultime dichiarazioni del presidente, secondo cui i film di Hollywood avrebbero ispirato alcune stragi (un dibattito che si è riacceso con l’uscita di Joker, in cui De Niro ha una parte).

«È una sciocchezza assoluta», dice, alzando la voce mentre affonda il dito nella tovaglia bianca. «È una stronz… Quel tizio ha paura di attaccare l’NRA (National Rifle Association, la lobby statunitense delle armi, ndt). Dice che Washington è una palude perché non conosce altro. È un classico imbroglione, un artista della truffa. Non ha morale. Non ha etica. Se la gente non si sveglia e Trump vince anche le prossime elezioni, le cose si metteranno molto molto male. Chiunque si senta così dovrebbe dirlo ad alta voce. Se aspettate ad alzare la voce, dittatori e despoti prenderanno il potere».

Al Pacino. Foto: Marco Grob for Variety

Pacino, momentaneamente silenziato dalla passione di De Niro, non commenta Trump o la legislazione sulle armi. Preferisce aprirsi e parlare dell’amicizia decennale con il collega, un’amicizia forgiata quando i due dovevano affrontare le pressioni della stampa, che li considerava come gli attori più promettenti degli anni ’70.

«Passavamo del tempo insieme, a volte, perché stavamo vivendo esperienze molto simili», ricorda Pacino. «Potevamo condividere quello che ci succedeva e parlare dei nostri film».

Pacino fu il primo ad apparire sui radar dell’opinione pubblica interpretando un eroinomane in Panico a Needle Park (1971), poi, l’anno successivo, entrò direttamente nella lista dei grandi grazie a Michael Corleone, il boss mafioso protagonista del Padrino. De Niro fece audizioni per entrambi i film, una coincidenza ricorrente nella storia dei due attori.

«Per tutta la carriera abbiamo cercato di ottenere le stesse parti», dice Pacino. De Niro ammette che la ricerca di ruoli, così come il desiderio di conquistare il cuore della critica e del pubblico, ha segnato la loro relazione professionale. «Ci sentivamo in competizione», dice.

Certo, anche De Niro avrebbe avuto il suo momento d’oro vincendo l’Oscar per il giovane Don Corleone interpretato nel Padrino – Parte II (1974) e lavorando con Scorsese per oltre trent’anni, in cui hanno girato film come Toro Scatenato, Taxi Driver e Quei bravi ragazzi. Nonostante entrambi fossero nel Padrino – Parte II, è solo in Heat – La sfida che hanno condiviso la stessa scena, un tête-à-tête in un bar che è diventato storia del cinema. La sequenza – in cui De Niro, nel ruolo del rapinatore di banche Neil McCauley, e Pacino, il poliziotto Vincent Hanna, hanno un duro confronto – è una perfetta dimostrazione di cosa sia il carisma di una star. È stata girata senza che gli attori provassero le battute.

«Ne avevamo parlato, l’avevamo analizzata, ma non siamo andati troppo in profondità», ricorda il regista Michael Mann. «Volevo aspettare che fossero entrambi davanti alla cinepresa. Al, Bob e io volevamo proteggere quel momento».

Pacino e De Niro avrebbero voluto condividere lo schermo più spesso in progetti di questo livello. A un certo punto, gli attori pensavano di collaborare in Americani, con Pacino nel ruolo di Ricky Roma, uno squalo del settore immobiliare, e De Niro in quello di Shelley Levene, un venditore. Il film è stato girato nel 1992, la performance di Pacino era da Oscar, ma fu Jack Lemmon a interpretare il ruolo di Levene.

Chi ha lavorato con loro conferma quanto siano diversi stilisticamente. De Niro ama analizzare tutti i dettagli, è ossessivo sul guardaroba dei suoi personaggi e va a fondo in tutte le sceneggiature. Quando si tratta di girare, Pacino è più flessibile – preferisce, per esempio, provare almeno una scena “folle”, fuori dagli schemi, così da poter scegliere in fase di montaggio. Ma registi come Mann sostengono che i due condividano lo stesso sistema di valori.

«Entrambi affrontano la loro arte con grande dedizione», dice Mann. «Più il lavoro è difficile, più diventa attraente».

È sorprendente, comunque, che nonostante i punti di contatto tra i due attori, The Irishmann segni la prima volta in cui Pacino lavora con De Niro e Scorsese. L’attore e il regista avevano parlato di girare un film sul pittore e scultore Amedeo Modigliani, ma in qualche modo quel progetto finì nel cassetto. Pacino, che nel ruolo di Hoffa, un personaggio ambizioso destinato a una caduta quasi shakespeariana, ha regalato una delle performance migliori degli ultimi anni, dice che valeva la pena aspettare per lavorare con Scorsese.

«Marty capisce gli attori e ti dà molta libertà», spiega. «Ha creato un mondo e fa in modo che tu lo abiti. Ti senti sempre a tuo agio».

Il pubblico è entusiasta di The Irishman, lo vede come una sorta di Monte Rushmore dei grandi attori da gangster movie: Pacino, De Niro, Joe Pesci, Harvey Keitel. Ma il film non è così atteso solo perché ha messo insieme tutti questi talenti. In alcune scene, sicuramente molto divisive, si suggerisce che la mafia abbia avuto un ruolo nell’assassinio di Kennedy, una ritorsione dopo la stretta sulla criminalità organizzata. Hollywood ha già esplorato il tema con JFK di Oliver Stone, e molti storici sostengono che affermazioni del genere siano poco più che teorie complottiste. De Niro non sembra molto convinto.

«Non sappiamo la verità», dice. «Non ho mai pensato che la mafia avesse qualcosa a che fare con l’omicidio Kennedy, ma ora, guardando indietro, inizio a pensare che forse qualcosa c’è».

La posizione di Netflix è molto più sfumata. «Seguiamo la storia raccontata nel libro, nessuno sostiene che questa sia la verità», dice Struber. «È una teoria».

Al di là di Kennedy, The Irishman è già stato criticato per le sue inesattezze storiche. Un’inchiesta pubblicata da Slate sostiene che Sheeran, un truffatore che rubava agli altri sindacalisti, aveva esagerato il suo ruolo negli omicidi mafiosi, e che è improbabile che sia stato lui a uccidere Hoffa. Charles Brandt, l’autore del libro, non è d’accordo:, sostiene che l’FBI sospettava di Sheeran, e che non solo ha confessato il crimine lui stesso, ma ha pure letto il libro e registrato un video in cui conferma tutto.

«Chi dichiara pubblicamente i suoi dubbi sulla confessione di Sheeran si basa su voci di corridoio e speculazioni, mentre Houses è pieno di prove documentate, tanto che sarebbe ammissibile in un’aula di tribunale», ha dichiarato Brandt.

Prima di questa intervista De Niro non aveva letto l’articolo, ma ha detto credere al racconto di Sheeran. «Non so abbastanza di tutte le teorie sull’omicidio di Hoffa», dice. «Il mondo che Sheeran ha descritto a Brandt sembra molto plausibile. Non avrà raccontato alla perfezione come si sono svolti i fatti, ma senz’altro è una storia che vale la pena raccontare».

Robert De Niro. Foto: Marco Grob per Variety

Un aspetto di The Irishman sembra indiscutibile. Il film rappresenta un passo in avanti incredibile per gli effetti speciali, che hanno permesso agli attori di interpretare personaggi con la metà dei loro anni. Per rassicurare il team di Scorsese sulla fattibilità della cosa, i professionisti di Industrial Light & Magic hanno chiesto a De Niro di re-interpretare la scena della festa di Natale di Quei bravi ragazzi. I collaboratori del regista erano sconvolto da quanto la sequenza “digitale” fosse credibile. «È stato straordinario», dice Rosenthal. «Se prendi le due scene e le metti una di fianco all’altra non troverai facilmente le differenze».

Guardare The Irishman è un’esperienza insolita, quasi surreale. Ammirerete De Niro, Pesci e Pacino più giovani, al massimo della forma, ma allo stesso tempo sarete consapevoli che tutto questo è possibile solo grazie a un trucco digitale. «Ho sempre pensato che questo film fosse nostro», dice De Niro. «Non gireremo mai più niente di simile».

Mentre racconta 40 anni di storia, The Irishman offre un distillato dei temi che Scorsese, De Niro, Pesci e Pacino hanno esplorato a lungo nelle loro carriere. Il film mostra come le comunità di immigrati hanno contribuito alla storia degli Stati Uniti e al cambiamento della vita delle grandi città, esplorando allo stesso tempo gli effetti corrosivi del potere.

Sembra quasi che il lungometraggio parli a Quei bravi ragazzi e Casino, ricordando al pubblico come proponessero una narrazione alternativa alla versione antisettica della storia americana che di solito appare nei libri di testo.

«Se Marty e Bob hanno un marchio di fabbrica, sono le storie degli uomini di questa America, di questa parte di mondo», dice Rosenthal. «Quando li guardi tutti insieme… è la storia del cinema. The Irishman si inserisce perfettamente in questa cornice». Scorsese è d’accordo, il suo ultimo film è l’apoteosi di cinque decenni dietro la cinepresa, e riflette la lunga carriera dei suoi attori protagonisti. «Ci ha dato l’opportunità di riassumere le nostre vite cinematografiche», afferma.

Per Pacino, i film girati dal gruppo non bastano a spiegare la dimensione di questo progetto. In realtà, per De Niro, c’è un ricordo che spicca su tutti gli altri: il primo incontro tra i due attori. Pacino stava camminando per la 14esima, nell’East Village, con la sua ragazza dell’epoca, Jill Clayburgh. La coppia incontrò De Niro, che all’epoca aveva girato una manciata di film a basso budget e si stava facendo un nome nel giro degli attori. Il futuro avrebbe premiato entrambi, un futuro popolato da Travis Bickle e Tony Montana, Rupert Pupkin e Sonny Wortzik, Max Candy e Frank Serpico – performance spavalde ed emozionanti che hanno cambiato la storia della recitazione sul grande schermo. Ma già all’epoca Pacino sapeva riconoscere una star quando la vedeva.

«C’era qualcosa in quell’uomo», dice di De Niro. «Aveva un certo carisma. Uno sguardo. Pensai: “Quel ragazzino andrà lontano”».

Questa intervista è stata pubblicata sul numero di Variety del 1 ottobre 2019.

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