Rebecca Antonaci, tutto in una notte | Rolling Stone Italia
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Rebecca Antonaci, tutto in una notte

Quella che vive il suo personaggio in ‘Finalmente l’alba’, il film di Saverio Costanzo in cui recita accanto a nomi come Lily James e Willem Dafoe. I sei mesi di provini, la musica, la sua “classicità”, i sentimenti liberi. E i consigli di Alba Rohrwacher: «Non ti svendere mai»

Rebecca Antonaci, tutto in una notte

Rebecca Antonaci

Foto: Youness Taouil

Saverio Costanzo l’ha scelta per il suo «volto di gomma» e quegli occhi spalancati che riportano in Mimosa alcuni echi di Giulietta Masina. L’innocenza, prima di tutto. E poi l’attitudine d’un personaggio classico che vaga in un mondo dorato e meschino, ma lasciando più tracce di quante ne subisca. È il genere di aura che non si improvvisa: o ce l’hai o resti a guardare quelli che ce l’hanno. È anche il genere di aura per cui si distingue Alba Rohrwacher, e infatti nelle scene che Rebecca Antonaci condivide con lei è inevitabile notare un incontro d’altro tipo. Ci sono voluti sei mesi e dieci provini prima che Saverio Costanzo affidasse a Rebecca – in principio diciassettenne – il ruolo di Mimosa in Finalmente l’alba: una ragazzina che sogna il cinema e si trova a vivere una notte allucinata, ma di quelle che non basta una vita per dimenticarle, finendo quasi ostaggio dei suoi stessi idoli, le grandi star del cinema hollywoodiano che popolavano Roma quando lo Studio 5 di Cinecittà sembrava il giardino dell’Eden. Che la notte di Mimosa coincida con l’ultima notte di Wilma Montesi – uno dei primi casi mediatici di femminicidio in Italia, mai davvero risolto – è un’altra storia, e forse anche il cuore morale di questo film.

C’è una scena in cui vediamo Rebecca Antonaci sostenere lo sguardo di decine di attori attorno a lei senza proferire parola, senza mostrare un cenno sul suo volto di gomma. Immobile, finché non inizia a piangere. E lo fa per un tempo lunghissimo che Costanzo dilata tanto da farlo sembrare insostenibile. Ecco che ha scommesso su di lei e ha avuto ragione. L’ha messa al centro di un cast imponente – non accanto, ma proprio al centro – accompagnata da Lily James, Joe Keery, Alba Rohrwacher, Rachel Sennott e Willem Dafoe: «Avevo un po’ di paura all’inizio, che ti devo dire?», dice dell’ultimo. «È uno degli attori più forti che ci siano mai stati». Protagonista tra le grandi star, insomma, un po’ come succede al suo personaggio.

Dopo due mesi e mezzo di riprese – di cui due settimane solo per la scena di metacinema sul set di un kolossal tra Cleopatra e Ben-Hur – e dopo l’anteprima a Venezia 80, il film arriva in sala il 14 febbraio e lei partirà per Trieste il giorno dopo, già verso un nuovo ruolo da co-protagonista in The White Club, regia di Michele Pennetta. Nel frattempo ha pubblicato il suo primo album, Morfina, legge molte poesie, suona il pianoforte, il sax, e ha finito il liceo musicale da poco: «Sono stata impegnata con l’esame di maturità, come strumento ho portato il piano: due studi, due pezzi di Bach, un brano moderno e uno contemporaneo. Per il resto vivo la mia vita tranquillamente e mi godo questo periodo».

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Fammi pavoneggiare al tuo posto: della tua classe di maturandi eri l’unica ad aver già pubblicato un album?
(Ride) Sì. Ma in realtà nella mia classe nessuno voleva fare musica in quel senso. Suonavano tutti, ma solo la classica. Non c’era neanche una band, pensa un po’.

Che poi tu hai iniziato a produrre musica durante il Covid, sei passata dalla classica all’indie pop e l’elettronica. Cos’è successo?
Oltre a studiare pianoforte al liceo io cantavo da molto prima, quindi ho sempre esplorato altri tipi di musica. Ho conosciuto Francesco Gentile (produttore del suo primo album, Morfina, nda) per lavorare insieme ad un unico pezzo, ma ci siamo trovati bene da subito. Così ho iniziato ad andare nel suo studio di Pescara nei weekend, quando non avevo scuola, e riuscivamo a tirare fuori anche due pezzi a botta. Mi uscivano testi e melodie pop, non da classicista, anche se per la composizione iniziale mi accompagno sempre con il piano. Ci siamo detti: “Creiamo, non freniamoci”, e alla fine in pochi mesi avevamo un album.

Volevo iniziare l’intervista chiedendoti se sei davvero così seriosa come sembra.
(Ride) In realtà no, in effetti, anche se tendo ad essere riservata e quindi esce fuori l’immagine di una ragazza seriosa e introversa. Però ho altri lati, giuro.

Dunque, ecco la storia: Saverio Costanzo ti scopre lavorando su uno spot, poi ti richiama per il suo nuovo film. Dieci provini in sei mesi non sono pochi. Com’è andata? Rischiavi di non ottenere il ruolo?
Certo. Io neanche sapevo che mi avesse notato su quello spot, me lo ha detto a riprese finite. Arrivò questo provino per un progetto blindatissimo di cui non conoscevo neanche il regista, così ho mandato un selftape e mi hanno richiamato in presenza. Lì ho scoperto che era lui, nemmeno pensavo si ricordasse di me.

E invece. Cosa lo aveva colpito di te su quello spot?
Me lo ha detto solo alla fine. Ha detto che gli era piaciuto il mio modo di stare sul set, di concentrarmi anche in mezzo alla confusione. Poi ha voluto capire come recitavo davvero, per questo mi ha fatto fare di tutto in dieci provini, gli stralci del film, l’improvvisazione, il mimo, la scena della poesia muta: “Adesso ci sono tutte queste persone davanti a te, ti guardano mentre tu devi piangere senza dire niente, e senza lasciar trasparire nessuna espressione nel volto”. Ho improvvisato, e credo che da lì qualcosa sia cambiato.

Quando basta una scena per ricordare un film intero. Com’è stato girarla?
Paradossalmente è stata una delle più veloci, buona la prima.

Brava ragazza.
(Ride) Grazie, ma è solo perché eravamo nel mezzo delle riprese, ormai il personaggio era entrato dentro di me. Ricordo che avevo tre punti macchina attaccati alla faccia, neanche vedevo chi c’era dietro. Il resto della giornata ho dato gli sguardi per i controcampi ma ho continuato a piangere comunque, anche se non ero più in campo. Alla fine ero gonfia, svuotata, distrutta.

Foto: Youness Taouil

La fauna della festa decide che quella è “una poesia senza parole” e che Mimosa è una poetessa. Anche tu sei un’appassionata di poesia: quella scena ti fa pensare a qualcosa in particolare?
Sono reduce da una raccolta di poesie di Federico García Lorca. Ecco, quella scena ha in sé qualcosa di onirico e non terreno, un’atmosfera che uno come García Lorca avrebbe potuto descrivere bene.

Costanzo ha trovato in te l’innocenza che cercava, un quid per rievocare Masina attraverso Mimosa.
Non siamo andati a ricercare una somiglianza a livello espressivo, ma se la somiglianza c’è, a me fa solo piacere. La prima volta ne abbiamo parlato durante le prove, Saverio mi ha detto di guardarmi i film con Giulietta Masina perché in qualche modo gliela ricordavo. Ha detto che avevo il volto di gomma come lei.

E un po’ come Mimosa nel film, al tuo primo ruolo da protagonista ti trovi in mezzo a star come Willem Dafoe, Lily James, Joe Keery, Alba Rohrwacher. È stato straniante?
Avevo un po’ paura all’inizio. Ero anche piccola, quando abbiamo girato avevo diciassette anni. Ricordo che ho avuto la fortuna di conoscere Lily e Joe prima di girare e sono stati carinissimi, Lily è venuta ad abbracciarmi senza nemmeno conoscermi: “Saverio mi ha parlato molto di te, sono felice di incontrarti finalmente”. Allora ecco che la paura è passata.

Chi ti spaventava di più?
Be’, Willem. Che ti devo dire, è uno degli attori più forti che ci siano mai stati.

Ma infatti, perché non parliamo di Willem per un’ora? Che partner di scena è stato?
(Ride) Non ho mai visto la tecnica di Willem prima di girare, ed è proprio questo a renderlo un grande attore. Con lui sembra tutto naturale e semplicissimo. Il fatto è che non ti aspetti una persona del genere, perché al cinema interpreta spesso personaggi cattivi o ambigui. E invece in realtà sembra un bambino, è giocoso e gentile, osserva qualsiasi cosa sul set, anche quando non gira. Si siede accanto a Saverio e gli piace guardare tutto.

Invece hai raccontato che durante una scena con Lily James si era creata un’intensità surreale. La scena qual era?
Quella finale, con Lily che si toglie la parrucca e si strucca, mentre io finalmente riesco a guardarmi allo specchio. Una scena quasi magica, non so cos’è successo sul set ma eravamo entrambe perse in quell’atmosfera.

Il personaggio di Alba Rohrwacher è un po’ una fata turchina, si palesa all’improvviso e per poco, ma ti indica la strada e ti protegge con uno sguardo. Compagna storica di Saverio Costanzo, attrice ricercatissima all’estero, ti ha fatto da Pigmalione anche sul set?
Saverio per me è stato da subito un maestro, ma anche una figura quasi paterna. Alba, allo stesso modo, è stata quasi una figura materna. Era sempre sul set e mi ha dato grandi consigli, non tanto sulla recitazione quanto su questo mestiere. Quando siamo andate al festival di Telluride mi ha regalato un anellino che non toglierò mai.

Rebecca Antonaci con Joe Keery e Willem Dafoe. Foto: Eduardo Castaldo

Il consiglio che puoi raccontare?
Dice di aver riconosciuto in me quasi una somiglianza, che forse è un modo di essere o una diversità, rispetto allo standard delle attrici in Italia. Mi ha detto: “Mi raccomando, non ti abbassare mai agli standard. Resta te stessa e non avere fretta di lavorare. Scegli solo i progetti che ti piacciono, con dei registi e dei personaggi che ti piacciono. Non ti svendere a qualsiasi occasione”.

L’apparente incomunicabilità: questo credo sia stato l’elemento di difficoltà più grande per te. Mimosa è una ragazzina degli anni Cinquanta che si ritrova nel mezzo della Hollywood sul Tevere senza parlare inglese. Dunque da copione Rebecca conosceva le battute, ma Mimosa non doveva capirle.
Sono contenta che esca fuori, e che sembri che io davvero non capisca cosa stiano dicendo attorno a me. Ho sempre cercato di mischiare e confondere le parole degli altri personaggi, non ero mai davvero attenta alle battute, perché capendo bene l’inglese sarebbe stato un problema. Così ho provato a non sentire quello che dicevano, ma a guardare gli occhi con cui me lo stavano dicendo. Mimosa non capisce le loro parole, ma afferra le loro intenzioni.

Per quanto riguarda le intenzioni del film, invece, c’è una battuta che le racconta bene: “Se è classico non è antico: se è classico è eterno”.
Secondo me Saverio ha scritto delle perle, e questa è senz’altro una perla. In quella scena Josephine (il personaggio di Lily James, nda) si sente invecchiata ma capisce d’essere eterna, e Saverio ha ragione: questo ha un valore universale. Con il classico, e più in generale con l’arte, in qualche modo si può rimanere eterni.

Be’, in te c’è un sentore di classicità. E forse questo ti accomuna davvero ad Alba Rohrwacher.
Io non mi sento di appartenere molto a quest’epoca. Nel modo di parlare, nel rapporto con i social e come carattere. Già non vado più in discoteca da un paio di anni, il sabato sera preferisco stare a casa con una tisana e guardare un filmetto insieme agli amici. Senza sensi di colpa. Mi dicono che di testa ho quarant’anni, forse sarà così, non so.

È vero che durante le riprese ascoltavi sempre Tenco?
Sì. Mi riportava indietro. Mettevo Tenco o Bette Davis prima di andare a girare una scena, perché anche la musica ti conduce verso l’atmosfera giusta, in quella malinconia di cui avevo bisogno.

I brani che preferisco del tuo album sono Luna e Venere. Luna è quasi un dialogo con dio, topos che torna spesso nel cantautorato. Nel tuo caso ti rivolgi alla luna, ma in fondo non risponde neanche lei. Cosa le chiedi?
Eh… ho scritto quel pezzo proprio perché non so nemmeno io cosa le chiedo. È la ricerca di una risposta non tanto ultraterrena, ma intorno a quello che può farmi bene o farmi soffrire. La luna su di me ha sempre esercitato una fascinazione particolare, però non risponde mai, è vero. Quindi alla fine sono sola, e me la devo cavare da me.

Venere – hai raccontato – parla di quando hai capito di essere attratta anche dalle ragazze. Il testo ha qualcosa in più: “Se questo è un gioco, insegnami come si fa / Porpora sul tuo viso / Tracce sul mio bacino / mia Venere”.
I tuoi pezzi preferiti forse sono anche i miei, perché sono i più sinceri. Luna parla del mio mondo intimo, Venere parla della mia sessualità che non ho mai definito. Voglio essere libera di amare chi voglio, a prescindere da tutto. L’ho scritta in un periodo in cui stavo iniziando a capire che c’è qualcosa che mi piace nelle donne, non so se si tratta di sperimentazione o attrazione. La canzone mi ha aiutato a comprendere meglio, la sessualità nei confronti delle donne è stata quasi un gioco e non mi sono mai pentita. Con una donna è un mondo diverso, per me, quindi Venere mi sembrava la metafora perfetta per parlarne.

Mimosa cambia fino quasi a diventare adulta nel giro di una notte: davvero si può?
Ci sono dei momenti in cui tutto cambia rapidamente. Credo sia possibile, se ti trovi in una situazione particolare. A volte non serve neanche agire, ma basta ricevere un messaggio, provare una sensazione che ti mette completamente in discussione.

Al termine di questa storia, Saverio Costanzo cosa ti ha detto?
Mi ha abbracciato e mi ha detto: “Sei la miglior Mimosa che potessi mai avere”. E io ho pianto come una bambina.