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Pier Luigi Pasino, volevo fare la rockstar

Alla recitazione invece ci è arrivato per (ehm) caso. E adesso è il co-protagonista, insieme a Matilda De Angelis ed Eduardo Scarpetta, della serie Netflix 'La legge di Lidia Poët'. Tra citazioni di Brecht e storie di risse

Stylist: Allegra Palloni. Shirt: Ballantyne. Grooming: Maria Esposito

Lo sapevo che Pier Luigi Pasino era un tipaccio. Che mi avrebbe regalato grandi perle, che avrebbe fatto un po’ di punk rock tra citazioni di Brecht e storie di risse, senza trattenersi sulle parolacce, naturalmente. Preparatevi perché ce ne sono tantissime, di parolacce, e stanno tutte bene lì dove le ha piazzate. Che tra l’altro, come ci tiene a precisare lui, «la parola “cazzo” si diceva anche all’epoca di Lidia Poët. Era pieno di cazzi, eh». Benissimo. E allora “a tutti i moralisti che ci stanno seguendo: andate a dormire o cambiate canale”.

La sua prima band l’ha messa su quando era un ragazzino, girava in tour per l’Europa e poco importa se dormiva nelle bettole, lui si sentiva già una rockstar. Alla recitazione invece ci è arrivato per caso, o meglio per convenienza, perché dietro c’è una storia di erba (non quella del vicino, ma proprio quella olandese), finché un bel giorno ha preso, ha mollato tutto (anche il militare) ed è entrato allo Stabile di Genova. «Avevo vent’anni e volevo far casino», dice oggi, e in effetti di casino ne ha combinato. Per esempio, ha fatto a pugni con Dio quando credeva d’essere Gesù Cristo, ha litigato con se stesso e ha imparato a ballare il tango (più o meno). Queste, per lui, sono giornate di prime volte: sbarca su Netflix come co-protagonista insieme a Matilda De Angelis ed Eduardo Scarpetta nella serie La legge di Lidia Poët, storia della prima donna a entrare nell’Ordine degli Avvocati in Italia, firmata Matteo Rovere e Letizia Lamartire.

Pier Luigi Pasino è Enrico Poët. Foto: Netflix

Quando ci sentiamo, ancora in pieno mood sanremese, per prima cosa mi dice: «Ho visto che durante il Festival hanno passato il trailer di Lidia Poët. Mi ha fatto abbastanza effetto». Un tipaccio, sì, ma anche un romantico. La parte migliore di questa storia? È partito da Alessandria e si è costruito vent’anni di carriera con una consapevolezza bellissima, che di lui racconta praticamente tutto: «È la vita di provincia, non i grandi classici. I marcioni e i santi, tutti insieme: questo è il vero bagaglio, se non l’unico, che ho».

Prima serie tv, prima volta su Netflix.
E in più è il mio primo progetto da co-protagonista davanti alla macchina da presa. Insomma, ci sono tutte le componenti per cagarsi sotto.

Oltre a fartela sotto, sei contento?
Molto. Lidia Poët è un bel prodotto, e come capita in questi casi, lasciarlo andare è difficilissimo. Ma ora è fatto, impacchettato e chiuso. E per sempre rimarrà (ride).

Se dovessi fare un’analisi imparziale del tuo contributo nella serie?
Sicuramente sono contento di aver portato la mia ironia, cioè quello che mi fa ridere sia nella recitazione che come gusto personale. Questa possibilità l’avevo già fiutata dai provini. Poi credo di aver portato una caratterizzazione di un personaggio che in Italia non è ancora una pratica troppo comune, o almeno non fuori dal teatro. Quello che intendo è andare proprio da un’altra parte, creare un personaggio quotidiano diverso da sé, anziché riportare tutto verso se stessi, verso la tipologia di persona che si è. Quando lo fanno oltreoceano gridiamo tutti alla meraviglia, ma quando lo facciamo noi ci diamo addosso da soli.

Tu e Matilda siete due bei rockettari. Vi siete divertiti a ricreare questa competizione fraterna piena di leggerezza e sarcasmo?
Molto, sapevamo di tenere un po’ le redini della linea comica della serie. Io non conoscevo personalmente Matilda, l’avevo solo vista recitare, quindi non sapevo ancora di questo suo bellissimo lato cazzone. Scoprire che ci accomuna lo stesso spirito giocoso è stato importante per creare quel rapporto sul set. Nella vita Matilda ha un fratello e io ho una sorella, perciò come prima cosa abbiamo attinto alle dinamiche della nostra adolescenza: tra fratelli, l’amore passa attraverso le botte (ride). Inizialmente Enrico e Lidia sono in contrasto per una serie di non detti e questioni familiari, poi dalla terza puntata il rapporto cambia, e anche il loro modo di volersi bene. Io passo dall’essere combattuto tra il volerle bene e il non sopportarla, al diventare il suo primo sostenitore.

Pier Luigi Pasino (Enrico Poët) e Matilda De Angelis (Lidia Poët). Foto: Netflix

L’incontro tra te e De Angelis è interessante perché da una parte c’è lei, che in pochi anni è diventata protagonista dell’industria cinematografica, e dall’altra ci sei tu, con vent’anni di carriera teatrale e musicale alle spalle. Cosa vi siete scambiati?
Ci siamo scambiati i nostri bagagli in maniera molto onesta, e ci siamo contaminati. Avendo lei più esperienza di set rispetto a me, è stata una persona a cui rubare tante cose. E lei credo che con me abbia esplorato una parte di sé che in realtà è molto forte: la comicità. Matilda era desiderosa di inventare e di giocare, e anche io lo ero, perché di solito i personaggi che affronto sono dei borderline come in Lovely Boy (di Francesco Lettieri, 2021, nda), dove ero un tossico pugliese. Da lì ad arrivare a fare Enrico Poët, che invece è conformista, spigoloso e fisicamente rigido, è un bel lavoro. Anche perché io sono una persona totalmente all’opposto, sono molto morbido ed espansivo, mi abbraccio tutti.

Enrico Poët è anche un personaggio che incarna le ottusità della sua epoca.
Assolutamente sì, è figlio del suo tempo in tutto. Le donne non si devono occupare di avvocatura: questo per lui è un punto fermo. Ha dei grandi pilastri che non mette in discussione, finché non entra in gioco sua sorella a farglieli crollare. Allora si accorge di avere accanto una donna per certi versi migliore di lui nell’avvocatura, che lo aiuterà a diventare un professionista e una persona migliore.

Un’altra novità per te: essere diretto da due registi insieme, Matteo Rovere e Letizia Lamartire. A dirla così non potrebbero sembrare più diversi, invece perché ha funzionato?
Intanto, sono due persone molto diverse. Matteo è un turbine, un uragano che fa mille cose contemporaneamente, mentre ti spiega il percorso del tuo personaggio sta parlando con un player dall’altra parte del mondo e sta seguendo altri venti set. È una persona che viaggia alla velocità della luce. Letizia invece è più calma, più morbida. Credo che le loro due energie si siano sposate perfettamente. Per i flash tipici dei primi episodi di presentazione lo spirito di Matteo è perfetto. Poi, quando si comincia a navigare nei rapporti ed entrare nel vivo delle sensibilità dei personaggi, Letizia è accuratissima. Si vede che c’è l’occhio di una donna, e io sono felice che sia stata una donna a dirigere la storia di un’altra donna così importante.

Senti, hai anche scoperto che con i colossi dell’intrattenimento si deve scendere a compromessi?
(Ride) Per la promozione ho fatto cose decisamente fuori dalle mie corde, tipo il venditore di Villa Poët in stile Mastrota: “Salve, sono Enrico Poët e oggi verrete con me alla scoperta della casa di Lidia”. Credo si tratti solo di essere il più onesti possibile, e accettare che per rendere un progetto accessibile a tutti si debba scendere un po’ a compromessi… Ma poi che male fa? Stai facendo conoscere la storia di una delle fautrici del suffragio universale. Il fatto è che di esempi come questi ne abbiamo davvero bisogno, e mi viene sempre in mente Brecht in Vita di Galileo, quando dice: “Maledetta la terra, che ha bisogno di eroi”. Senza eroi non ce la facciamo. E allora ben venga se in quest’epoca, su Netflix, c’è la storia di un’avvocata dell’Ottocento. E se ce la raccontano anche con grande capacità d’intrattenimento, perché non è mica una roba da scopa su per il culo. È stata contaminata e resa contemporanea anche nel linguaggio, parolacce comprese. Che tra l’altro la parola “cazzo” si diceva anche all’epoca, eh: era pieno di cazzi.

Facciamo un salto indietro, ora che sei in vena di parolacce. Primi anni 2000, Stabile di Genova. Che tipo eri?
Intanto ero uno che arrivava dalla musica, non dalla recitazione. Al liceo ho voluto entrare nel progetto teatro solo perché così si andava in Olanda e si potevano fumare le canne gratis. Poi alla fine ho scoperto che invece il teatro mi aiutava a tirar fuori delle energie che altrimenti avrei represso, fino a portarmi a dire “proviamo un po’ a fare l’attore e vediamo se mi prendono”. Ho fatto due provini: uno per il Piccolo di Milano e l’altro per lo Stabile di Genova, poi me ne sono andato in tour col mio gruppo punk rock dell’epoca, in furgone. Mentre ero in giro per centri sociali, in Svizzera e in Germania, mi è arrivata una telefonata dallo Stabile: mi avevano preso per la prima settimana di prova. Anche se dormivo nelle bettole, io nella mia testa ero già una rockstar di successo. Però, quando è capitata questa cosa, ho mollato il tour e sono andato a Genova. Lì ho incontrato questo insegnante di recitazione, Massimo Mesciulam, che mi ha fatto appassionare al punto da farlo diventare un mestiere. Ha saputo prendermi, mi ha detto: “Se vuoi recitare devi guardare le persone, non gli attori”. Avevo ventun anni, tanta voglia di fare casino e pochissima disciplina. Figurati a ritrovarsi in una classe di coetanei… Dovevo ancora fare l’ultimo anno di leva militare, e quando è arrivata la lettera sono andato in panico, perché ormai ero dentro allo Stabile. Quindi ho fatto un paio di settimane a digiuno, solo acqua, per risultare sottopeso alla visita militare. Alla fine ce l’ho fatta, mi hanno riformato.

Però scusa, se volevi fare la rockstar perché mollare tutto per una settimana allo Stabile?
Evidentemente non avevo ancora un’identità così forte. Mi piaceva tutto quello che aveva a che fare con l’esporsi, con l’essere creativo. Forse quell’occasione ha fatto leva su una passione adolescenziale, quando mi piaceva guardare i film e provare a riprodurli in casa con le prime telecamerine. Tra l’altro dei filmacci, perché ero patito di Stallone e Schwarzenegger. La musica comunque l’ho sempre portata avanti, a trentatré anni ho fondato un altro gruppo folk punk con cui abbiamo girato in Inghilterra, in Olanda…

A un certo punto avrai anche capito d’essere bravo, no?
A recitare? Non l’ho ancora capito. Forse ho capito che ci acchiappavo perché era la gente a dire che sapevo farlo. Io al liceo mi accorgevo solo che andavo lì, e se c’era una scena in cui mi dovevo incazzare o commuovermi, mi piaceva tanto entrarci dentro e non avevo vergogna a farlo. Ecco, questo deve avermi fatto pensare che magari, iniziando a prenderla seriamente, un giorno mi avrebbe portato a recitare al cinema. È al cinema che pensi, quando sei ragazzino, perché al teatro non c’ero mai andato in vita mia. Quella passione arrivava dagli attori americani, da Al Pacino, che era il mio idolo.

Foto: Maddalena Petrosino. Stylist: Allegra Palloni. Shirt: Ballantyne. Denim and shoes: Gaelle. Grooming: Maria Esposito

Il primo spettacolo in assoluto?
Lo ricordo bene, ero insieme ad altri due sfigati come me. Ci siamo messi in cucina a preparare un testo irlandese di drammaturgia contemporanea, era la storia di una rapina in cui io facevo un professore universitario ubriacone che aiuta due amici a scappare da un paesino di provincia. Lì ho avuto il primo vero feedback del pubblico. E ho anche capito per la prima volta che il bagaglio più interessante che ho non è quello dei grandi classici: sono le persone con cui ho vissuto in provincia. Lo stadio, la curva degli ultras, il parcheggio dove ci trovavamo con gli altri amici (da cui poi ho tratto una serie web, By My Side). I marcioni e i santi, tutti insieme. Io facevo lo scout e nello stesso tempo frequentavo lo stadio e i centri sociali. Le persone che ho incontrato nella mia vita, soprattutto ad Alessandria… ecco, quello è il vero bagaglio, se non l’unico, che ho.

Vengo anch’io dalla provincia. Strana bestia, si fa odiare e si fa amare in base ai periodi della vita.
Perché da una parte ti provoca una fame del mondo che c’è fuori, e dall’altra ti consente di stare vicino a tutta un’umanità che ti forma. Non essendo andato a teatro da giovane, per me la provincia è stata un palcoscenico fantastico. Vedere in curva gli anziani che si aggrappano alla rete per sputare all’arbitro, il tipo che lancia bestemmie ma il giorno dopo porta la figlia piccola allo stadio, l’impiegato di banca che diventa un animale e invece durante il giorno è quello che dà i soldi della pensione a tuo nonno, gente che si tira un pugno sul naso e poi la ritrovi ad abbracciarsi. Vedi tutto e il contrario di tutto. Per chi ha a che fare con la creatività e con l’arte è un dono prezioso. Io sono un nostalgico.

Allora prendiamola a ridere: ma è vero che hai studiato pure il tango argentino?
È vero. E devo dire che per il lavoro non mi è mai servito, invece con le ragazze mi è tornato molto utile. Impari l’ocho e poi te lo giochi dalle sagre di paese alle prime occasioni serie. Davvero, imparate il tango, tutti.

Prendo nota. Dopo lo Stabile hai fondato un sacco di cose, tipo Neuroni In Movimento, la tua primissima compagnia teatrale, e poi un’altra band punk folk. A quando un partito?
(Ride) Me ne rendo conto. Ora sono in un’altra fase della vita, sento che è importante anche non avere niente per crearsi delle cose. I Neuroni In Movimento sono nati perché non c’avevamo lavoro, eravamo in tre e abbiamo fatto uno spettacolo che ha girato parecchio. La band Luk & The Lion è nata perché pensavo d’essere Gesù Cristo. Era un periodo molto difficoltoso, sentivo l’esigenza di tirar fuori delle cose e il bisogno di non rimanere fermo ad aspettare che gli altri mi dicessero cosa fare.

Fonderai mica un partito cattolico?
Sarebbe il partito dell’amore… e della condivisione.

Ecco, parliamo un po’ d’amore. Nel tuo percorso da solista, a un certo punto la rabbia ha ceduto il posto a un sereno disincanto. Cos’è successo?
È stato proprio così, infatti. Il progetto Luk & The Lion è servito a guarirmi e a farmi delle carezze. Poi è arrivato il primo brano da solista, Come un pazzo, e lì ero incazzatissimo, sì. Mi sentivo come la storia che racconto. Una sera mi sono trovato in mezzo a una rissa, senza volerlo, e mi sono preso delle botte, senza riuscire a darle. Ce l’avevo con il mondo e me la dovevo prendere con qualcosa di grosso: più grande di Dio, chi c’è? Che poi alla fine ho usato Dio per prendermela con me stesso, il senso è quello. Poi c’è stato Naaah! e quel pezzo è tutta un’altra cosa, è la vita che nasce in un periodo in cui sembrava morta, cioè durante il lockdown. Sentivo di amici che stavano aspettando dei figli e mi dicevo cazzo, vedi un po’ che bello, la vita che nasce quando per radio dicono che è il peggior momento per mettere al mondo qualcuno. Ma gli amici se ne fregavano e questa mi sembrava una cosa stupenda. Quella canzone è stata premonitrice anche della nascita di mia figlia, così come Camilla lo è stata del mio matrimonio.

Tu e tua moglie sembrate innamoratissimi. Fortunelli.
È vero. Pensa che ci siamo sposati proprio dopo quella canzone. Sono tutti atti che ho compiuto per cambiare me stesso e la mia storia. Camilla alla fine parla di quello, di un grosso amore che poi si celebra. Un matrimonio tra preti, sceriffi e ladri. E anche noi, dopo qualche mese, ci sposavamo.

Quando prendi a pugni Dio in Come un pazzo, dici che lui si difende se lo vuole, e che sa anche farsi valere. Cosa c’è dietro?
Dio in quel momento sei tu. Se vuoi esercitare la violenza, lo sai fare. Se hai voglia di ferire e di far male agli altri, lo puoi fare. Ma le conseguenze sono incommensurabili. Noi abbiamo la grande capacità di essere delle persone spregevoli, se vogliamo, o di essere delle meraviglie del creato. E di questo dovrebbero parlare, secondo me, il cinema e il teatro. Alla fine si riduce tutto a quello, e non sono parole mie, ma di Brecht, che mi ha sempre illuminato. Il punto è che bisogna tirare fuori tutto, anche la merda e l’energia negativa, ma dopodiché, quando non riesci più a stare in piedi, quando ti senti davvero svuotato, allora sei finalmente pronto per amare. Per essere una persona migliore senza raccontarti troppe balle.

Sempre se nel frattempo non hai fatto scappare tutti gli altri. In Un Amaro del Capo ti chiedevi: “Davvero non mi vuoi più? Se io sono sempre io, perché tu non sei più tu?”. L’hai poi trovata la risposta?
Mah, mi piacerebbe. Però credo che il compito di un artista sia farsi delle domande, non trovare le risposte. Come uno psicologo, se è bravo. “Se io sono sempre io, perché tu non sei più tu?”: questo è il grande dilemma. Perché le persone cambiano? Cosa puoi farci tu? Forse cambiare te stesso, ma quelli sono cazzi. È molto più facile chiedere all’altro “ma perché fai così?” che domandare a se stessi “ma perché io faccio così?”. Quello è un grandissimo lavoro che non finisce mai. Quando ti sembra di averlo acchiappato, poi si distrugge di nuovo e vai, ricominci.

Carrozzeria Orfeo: oltre alla compagnia teatrale, una delle pagine che preferisco sul web. Siete un gruppo di attori che fa comicità sui cliché dell’attore, ma perché il re nudo decide di mettersi in mutande da solo?
Con Carrozzeria ci siamo interrogati sul fatto che a oggi, purtroppo, è fondamentale ’sto cazzo di social. I numeri li fai con Instagram e la gente viene a teatro anche grazie a quello. Quindi la sfida era: come possiamo fare dei contenuti intelligenti, che abbiano a che fare con noi, senza far vedere quante volte al giorno mangiamo e andiamo in bagno? Così abbiamo iniziato a fare quello che facciamo quando siamo insieme: scherzare su di noi. Quelle telefonate e le assurdità che raccontiamo negli sketch ci sono capitate davvero. Fa ridere, ma è ovvio che sia anche tragico. Per quanto si possa amarci, noi attori siamo bestie autoreferenziali. E mi ci metto in mezzo, perché quando leggo le mie interviste mi cadono le braccia, vorrei urlarmi addosso: “Ma non stai facendo qualcosa di così importante, questo non è un trapianto di cuore!”. Come diceva Marlon Brando, il discorso è che l’attore, se non stai parlando di lui, è uno che non ti ascolta. Quando piglio per il culo i miei colleghi, mi rendo conto che sono uguale. E allora cerco di distruggermi con quegli sketch, di esorcizzarmi.

Mi racconti un episodio che prima di far ridere è stato tragico?
Durante i provini non si contano i momenti in cui mi sono sentito in imbarazzo. Come quando ti mettono in fila e ti dicono di partire col tuo pezzo, tu finalmente inizi: “Erano le otto…”; e loro ti bloccano: “Grazie, volevamo solo sentire la voce”. Ma come cazzo è possibile, ho fatto un viaggio fino a qua solo per dire questo? O le volte in cui magari sei sul palco, provi a pensare a tua madre sbranata dai cani perché ti devi emozionare, e loro parlano al telefono. Se poi ci addentriamo nella questione delle paghe, diventa una tragicommedia: cioè, devi pagare tu per lavorare. In uno sketch che faccio sempre con Paolo Li Volsi – è lui a interpretare la voce di Gianni Dell’Agenzia – hai presente quando mi dice: “Guarda, il compenso sono 100 euro, però sono 120 di spese, più l’80% di commissione… Facciamo che mi dai 120 e stiamo a posto, ok?”. Ecco, è così.

Sappi che non sto ridendo solo perché da queste parti si sta peggio. Facessimo almeno due sketch…
Il fatto è che siamo tutti sulla stessa barca. Nessuno però sa che succede anche agli altri, e allora fingiamo tutti di vivere in questo mondo pazzesco.

Dopo il tuo battesimo su Netflix ti lascio con un tormentone che conosci bene: ma quindi, cinema o teatro?
(Ride) Adesso ti dico cinema, perché sono assetato di macchina da presa. Ci ho preso gusto, è una nuova sfida per me e ho voglia di sperimentare ancora.

Foto: Maddalena Petrosino. Stylist: Allegra Palloni. Shirt: Ballantyne. Denim and shoes: Gaelle. Grooming: Maria Esposito

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