Per girare un film coi Kneecap bisogna avere fegato (letteralmente) | Rolling Stone Italia
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Per girare un film coi Kneecap bisogna avere fegato (letteralmente)

Il regista della commedia biografica in cui recitano i rapper, ci ha raccontato quant’è stato arduo stare dietro al ritmo di bevute (e anche altro) del trio di Belfast. Ma anche quant’è stato divertente raccontare una delle storie più incredibili della musica contemporanea. ‘Kneecap’ esce al cinema il 28 agosto

Per girare un film coi Kneecap bisogna avere fegato (letteralmente)

Un fotogramma del film ‘Kneecap’ diretto da Rich Peppiatt

Foto press

Naoise Ó Cairealláin “Móglaí Bap”, Liam Óg Ó Hannaidh “Mo Chara” e JJ Ó Dochartaigh “DJ Próvaí” sono i Kneecap. Nome che può darsi non suoni nuovo, dati i contenuti espliciti e decisamente politicizzati del trio di Belfast. Due rapper e un dj (che poi alla fine rappa pure lui), cresciuti nella cosiddetta ceasefire generation, il periodo successivo alla fine degli scontri nell’Irlanda del Nord nel 1994.

Niente più IRA, niente più gruppi indipendentisti armati fino ai denti e autobomba, soltanto il presente di una Belfast ancora più decadente, ancora più incazzata e quindi ancora più incline a rifugiarsi nella droga. Ecco, in questo contesto nascono i Kneecap. Due teste calde che passano le giornate a spacciare e consumare il prodotto che vendono, ma che un bel giorno conoscono un insegnante di musica che vede del potenziale in loro, e soprattutto la possibilità per la lingua gaelica di non morire grazie al rap.

Insomma, DJ Próvaí inizia seriamente a cucinare i beat ai ragazzi e i ragazzi ci prendono gusto. Unico problema: Provaí ha un lavoro serio da dipendente, quindi non può mettere a viso scoperto dischi che parlano di pippare o che mandano a fanculo gli inglesi. Da qui, l’idea d’indossare solo lui il balaklava che era il simbolo dei combattenti della Irish Republican Army e che ora è anche il logo della band. Quanto al nome, Kneecap, deriva invece dalla pratica di gambizzare con un proiettile al ginocchio. Pratica pare molto in voga tra la IRA dell’epoca.

Alla luce di tutto ciò, chi è più matto? Questi tre sbandati con un evidente problema con l’alcol e le sintetiche, oppure l’uomo che, ancora mezzi sconosciuti, ha deciso di trasformare in film la storia dei Kneecap? Sospendendo il giudizio, quella che segue è una piacevole chiacchierata telefonica con Rich Peppiatt, appunto il regista dell’omonimo film Kneecap che è uscito già a inizio dell’anno scorso praticamente ovunque nel mondo ma in Italia, non si sa bene perché, esce il 28 agosto 2025.

KNEECAP - Trailer ITA

Nel cast della commedia drammatica comunque ci sono, oltre ai regaz che interpretano sé stessi, anche dei pezzi decisamente da 48 come Michael Fassbender. Il consiglio è di andare a vederlo, al di là dell’interesse che uno può nutrire per il rap dei Kneecap, ma anche solo per godere in chiave Guy Ritchie di The Snatch di uno spaccato di storia di mondo che molti di noi non conoscono.

Il film uscirà in Italia alla fine di agosto. Quali sono le tue aspettative?
Beh, credo che l’Italia sia l’ultimo posto al mondo in cui il film non è ancora uscito. Le mie aspettative sono che, una volta uscito in Italia, si possa finalmente dire che il film è finito. Tutti avranno avuto la possibilità di vederlo.

Come sei entrato in contatto con i ragazzi della band?
Mi sono trasferito a Belfast circa due settimane prima di incontrarli. Sono andato a un loro concerto come fan dell’hip hop qualunque e mi sono subito trovato con la loro musica e la loro attitudine. Ho passato i mesi successivi cercando di convincerli a sedersi per una pinta di Guinness con me.

Ah, non erano convinti all’inizio?
Beh, prima di tutto, sono terribili con le e-mail, non rispondono mai a nessuno. Ma, sai, ero solo un tizio a caso che diceva: «Incontriamoci per un drink, voglio fare un film». Avevano ricevuto molte offerte per documentari, ma io sono andato da loro dicendo: «Voglio fare un lungometraggio su di voi, e voglio che interpretiate voi stessi». Erano scettici, perché chiunque lo sarebbe stato se uno sconosciuto ti si avvicinasse per strada dicendo di voler fare un film su di te.

E poi vi siete seduti e avete iniziato a bere?
Sì, una volta che ci siamo seduti e abbiamo iniziato a bere, il resto è storia.

Quanto avete bevuto quella notte?
Hai presente la scena nel garage, nel film, quando i ragazzi si incontrano per la prima volta? Quella è praticamente la nostra prima notte insieme. Non abbiamo passato la notte propriamente in un garage, ma diciamo che il “rinfresco” era molto simile. Quindi non solo alcol, ecco.

Quindi siete diventati amici e hai iniziato a lavorarci.
Sì, i primi sei mesi sono stati la più lunga intervista del mondo (ride). Ho passato sei cazzo di mesi a uscire e fare festa con loro, cercando di capire cosa li spingesse e di capire come sarebbe stato il film.

All’epoca avevano una fama molto locale ancora, no?
Sì, erano un gruppo già famoso in Irlanda. Stavano iniziando a fare qualche piccolo concerto in Inghilterra, ma niente di più. Dal mio punto di vista, anche per questo è stata una scommessa, in termini di tempo ed economici. Era un azzardo. Ho deciso di mettermi in gioco con dei ragazzi che reputavo meritevoli di fama e così ho dedicato molto tempo, energia allo sviluppo del film. Se si fossero sciolti, ovviamente, non avrebbe funzionato. Sono contento che siano rimasti insieme.

Ci sono stati alti e bassi in quei sei mesi? Avete mai litigato?
Non proprio. Non credo che abbiamo mai litigato. Finché pagavo io le birre, non litigava nessuno.

E sul set, sono stati sempre d’accordo?
Sono sempre stati molto disponibili. Hanno capito che il film non poteva essere solo un esercizio di pubbliche relazioni, doveva essere qualcosa di reale. Doveva mostrare il lato buono, brutto e cattivo. Hanno rispettato la distanza creativa e non hanno mai cercato di intromettersi nella sceneggiatura. L’unica cosa su cui sono stati irremovibili è che tutti dovevano avere parti uguali nel film. Questa cosa mi ha causato non pochi problemi, perché è molto difficile scrivere un film con tre protagonisti. Ci sono pochissimi film, anzi, non credo di conoscerne nessuno, con tre personaggi principali. Non c’era un vero e proprio modello su come farlo. A volte mi dicevano: «Ehi, non credo di avere abbastanza tempo sullo schermo». E io rispondevo: «Ragazzi, avete tutti un sacco di cose che succedono nel film. Rilassatevi».

I Kneecap nel film. Foto press

Sono rimasto colpito dalle loro qualità recitative.
Beh, all’inizio non era necessariamente così. In quei sei mesi abbiamo fatto anche corsi di recitazione. La prima volta che abbiamo provato a leggere la sceneggiatura in studio, non è stato eccezionale (ride).

Ti sei detto: «Oh mio Dio, cosa sto facendo»?
Esatto! È stato come: «Ho fatto tutto questo lavoro, ho scritto la sceneggiatura, ho trovato i soldi, tutto pronto, e ho tre fottuti attori protagonisti, e nessuno di loro sa recitare!». È stato un po’ preoccupante, ma abbiamo avuto un ottimo coach di recitazione che ci ha aiutato a raggiungere il punto in cui dovevamo arrivare. Ho dovuto partecipare anche io al corso con loro perché tre è un numero un po’ strano per il lavoro di gruppo. Bisogna sostanzialmente lavorare a coppie. Quindi anch’io sono un grande attore, nessuno lo sa.

Questo è di gran lunga il tuo lavoro più importante.
Sì, assolutamente. È un po’ il mio debutto alla regia.

Hai iniziato la tua carriera col botto con un documentario con Hugh Grant, One Rogue Reporter.
Sì, quello è stato dieci anni fa. Ho iniziato la mia carriera come giornalista a Londra. Poi sono rimasto molto disilluso dal modo in cui operava la stampa in Inghilterra, in particolare per quella che percepivo come islamofobia. Mi sono dimesso pubblicamente dal giornale in cui lavoravo e ho fatto trapelare la mia lettera di dimissioni.

E questo ti ha portato al cinema?
Sì, ho fatto uno spettacolo di stand-up comedy all’Edinburgh Fringe che parlava della mia esperienza di giornalista. Ha avuto successo e l’ho portato in tour. A uno degli spettacoli a Londra, sono venuti a vederlo Hugh Grant e Steve Coogan. Mi hanno chiesto: «Hai mai pensato di farne un film?». Non sapevo bene cosa volessi fare della mia vita, quindi ho detto: «Sì, certo». Ho iniziato a fare il documentario, ed è stato mentre lo facevo che mi sono innamorato del cinema.

Quindi il tuo passato da giornalista influenza il tuo approccio al cinema?
Non faccio più giornalismo, ma è pur sempre una forma di narrazione. Essere un giornalista mi ha insegnato a capire cos’è una storia interessante e cosa no. Sono attratto da storie che sono in qualche modo ambientate nel mondo reale, che hanno una base nel mondo in cui viviamo. Non sono uno che può sedersi con una pagina completamente bianca e immaginare tutto da zero. Mi piace avere un punto di partenza concreto.

Il film ha una forte componente di finzione, giusto?
Direi che la stragrande maggioranza è vera. A volte ci siamo presi alcune libertà per comprimere la linea temporale. Ma alcune delle cose più folli nel film sono realmente accadute.

Sembra che tu abbia una passione particolare per musicisti estremamente ribelli. Nel 2018 hai prodotto un documentario sui KLF.
Sì, c’è sicuramente un filo conduttore tra i KLF e i Kneecap. In un certo senso, i KLF hanno distrutto la loro carriera bruciando tutti i loro soldi, un milione di sterline, e allontanandosi dall’industria. Allo stesso modo, i Kneecap, parlando apertamente del genocidio in Palestina, hanno fatto qualcosa di simile, data la controversia che ha suscitato.

Pensi che l’islamofobia stia peggiorando nel mondo e nel Regno Unito?
Sì, credo che viviamo in un’epoca in cui stiamo diventando sempre più “insulari” ed egoisti. La discriminazione in tutte le forme sta aumentando verso ogni comunità. Spero che, attraverso i nostri musicisti e artisti, si possano trovare modi per uscire da questa situazione, perché non credo che rifletta l’opinione della maggioranza delle persone. È fondamentale, preziosissimo che artisti come i Kneecap siano apertamente politici.

E la tua band preferita?
La mia band preferita da ragazzo erano i Rage Against the Machine. Ho adorato una citazione l’altro giorno di Tom Morello, il chitarrista, che ha detto che i Kneecap sono i Rage Against the Machine di questa generazione. L’ho adorato perché erano la mia band preferita da piccolo e, non avendo alcun talento musicale, girare il film con i Kneecap è la cosa più vicina a essere parte di una band che abbia mai fatto.

Una scena di ‘Kneecap’ con Michael Fassbender, che interpreta il padre ex combattente dell’IRA. Foto press

Il genocidio a Gaza ha risvegliato molte persone, nel bene e nel male. Perché i Kneecap ci tengono tanto ad amplificare il messaggio?
Ho questo ricordo di noi al Sundance nel 2024, quando il film è stato presentato. C’era una protesta a favore della Palestina. All’epoca sembrava controverso, ma i Kneecap parlavano pubblicamente di quella questione molto tempo prima. Ora vediamo sempre più persone nel mondo dell’arte e della politica dire le stesse cose che davano problemi ai ragazzi 18 mesi o due anni fa. Sono stati molto coraggiosi a esporsi tra i primi. Lo fanno perché il loro popolo ha subito un’oppressione simile.

I ragazzi mantengono ancora il loro stile di vita rock and roll?
Non ho mai conosciuto tre persone con una maggiore capacità di bere alcol e reggere droghe. Non so come facciano, ma continuano.

DJ Próvaí ha un figlio, vero?
DJ Próvaí quando si scatena è probabilmente il più folle dei tre, nonostante sia il più vecchio. Ma ora ha un bambino, quindi non si lascia andare tanto spesso come una volta.

Prossimo progetto allora qualcosa di più tranquillo?
Gesù, sì. Per il prossimo film non posso farmi tutto l’alcol e le droghe che mi sono fatto con quei matti. Magari lo giro in un monastero sperduto da qualche parte, con sacerdoti silenziosi come protagonisti. O qualcosa del genere.

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