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Paul Thomas Anderson, il regista dei film impossibili

“Vizio di Forma” è la storia stramba di Pynchon, perfetta per Anderson, perché man mano che si svolge rivela se stessa. E anche il suo regista
Paul Thomas Anderson, 44 anni, ama prendersi il suo tempo

Paul Thomas Anderson, 44 anni, ama prendersi il suo tempo

Provate a chiedergli come ha fatto a trasformare in un film Vizio di forma, il noir di Thomas Pynchon del 2009 in cui un detective privato hippy (interpretato da Joaquin Phoenix) si mette nei casini con ogni tipo di personaggio della California anni ’70, e lui vi risponderà guardando pensierosamente fuori dalla finestra della sua camera d’albergo.

Passerà la mano sulla sua barba grigia. Darà qualche colpetto gentile alla sua tazza di caffè. E poi forse si farà sfuggire un ampio sorriso e vi racconterà di quando da ragazzino il suo “salsicciotto” è rimasto incastrato nella cerniera della tuta. Non provate a chiedergli se ha incontrato Pynchon, uno scrittore notoriamente molto riservato. Semplicemente, non vi risponderà.

Ma alla fine capirete che c’è una risposta dietro tutte quelle divagazioni, così come c’era una drammatica storia familiare dietro al suo epico film sull’industria del porno, Boogie Nights, una storia d’amore vecchio stile in Ubriaco d’Amore e una riflessione sull’archetipo dell’uomo che si è fatto da solo in Il Petroliere e The Master. E capirete che la storia stramba di Pynchon è perfetta per Anderson, perché man mano che si svolge rivela se stessa. E anche il suo regista.

Quando hai scoperto i libri di Pynchon?
Ho provato prima ad affrontare L’arcobaleno della gravità, perché tutti ne parlavano bene, ma non consiglierei mai a qualcuno di cominciare da quel libro! (Ride). Poi ho provato con un libro più leggero, L’incanto del lotto 49 e mi ha fatto venire voglia di leggerne altri. Avevo sentito parlare di Pynchon a scuola, ma a quel tempo ero un lettore molto lento e uno studente svogliato. Ho frequentato scuole molto istituzionali, dove tutti si aspettavano da te che fossi intelligente come gli altri. Ma io semplicemente avevo un altro ritmo. Così, durante l’ultimo anno del liceo, quando la competizione era ormai finita, ho cominciato a leggere, ed è stato lì che L’incanto del lotto 49 e V. mi hanno steso.

Cosa ti ha conquistato di Pynchon?
Curioso, ci ho pensato spesso perché adesso, dopo aver fatto il film, ho un rapporto molto diverso con la sua scrittura. Diciamo che i suoi libri mi sollevano da terra. Un paio di mesi fa ho letto Vineland e in certi momenti mi sembrava di volare. Quel libro mi ha praticamente fatto sballare.

È la seconda volta che giri un film tratto da un romanzo (il primo è stato Il Petroliere tratto da Oil! di Upton Sinclair), ed è anche la prima volta che un libro di Pynchon viene trasformato in un film. Non hai pensato: “Devo farlo bene sennò sono fottuto”?
Essere troppo suscettibile o sensibile alle critiche fa male alla salute. È un errore. Ci sono stati dei momenti durante la lavorazione in cui mi sono ritrovato a essere troppo protettivo nei confronti della scrittura di Pynchon, delle sue parole. E questo non va bene. Se riesci a non farlo, il film diventa più divertente.

Hai scelto una musica molto interessante per raccontare gli anni ’70, dal krautrock a Sam Cooke. Non hai fatto la solita compilation “Sound of the Seventies”.
Non volevo cadere nell’ovvio, ho scelto quello che secondo me poteva funzionare, anche se c’è sempre da chiedersi se hai il diritto di usare certe canzoni. Secondo me dovrebbe esserci una regola nel Manuale del Regista che dice: “Questo pezzo è troppo bello, non sei autorizzato a usarlo”, con una menzione speciale per Wonderful World di Sam Cooke. Il punto è che usare la musica di qualcun altro per sorreggere il tuo film è un privilegio. Se vuoi usare Harvest di Neil Young te la devi sudare. Io spero di averlo fatto con questo film.

Hai costruito insieme a Joaquin Phoenix il personaggio del detective Doc Sportello, oppure lo hai lasciato libero di fare come voleva?
Non ce n’è stato bisogno, il libro è così gigantesco che non ci sono dubbi su chi sia Doc Sportello. Ho solo aggiunto un fotogramma preso da un documentario su Daniel Ellsberg intitolato The Most Dangerous Man in America: uno dei suoi collaboratori con un fantastico paio di occhiali, un cappello floscio e delle enormi basette. L’ho mandata a Joaquin insieme alla collezione completa dei fumetti The Fabulous Furry Freak Brothers di Gilbert Shelton. Questa è stata la cosa più simile a una discussione sul personaggio che abbiamo fatto.

Il motivo è che Joaquin è uno di quegli attori che ti dà qualcosa di nuovo in ogni scena?
Sì, è come un cane che ti riporta la palla in continuazione. Tu la butti giù da una scogliera, nella neve, nelle onde dell’oceano e lui andrà a prenderla e te la riporterà. Poi si accovaccerà vicino a te e ti terrà caldo vicino al fuoco. È il cane migliore che abbia mai avuto. (Pausa). Questo sarà il tuo titolo, vero? “Joaquin Phoenix è il miglior cane che abbia mai avuto!”.

Ci hai messo un po’ a capire come relazionarti con gli attori o è una cosa che ti è venuta in modo naturale fin dall’inizio?
Mi è sempre piaciuto frequentare gli attori, non sono il tipo di regista che passa tutto il tempo con la crew degli effetti speciali a pensare a come fare le esplosioni. Sono anche stato fortunato, perché nel mio primo film, Sydney, ho lavorato con John C.Reilly, Philip Baker Hall, Samuel L.Jackson e Gwyneth Paltrow e ho imparato molto da loro. Li sentivo discutere dei problemi che avevano avuto in altri film, dei registi troppo pressanti o della confusione sul set. La cosa peggiore del mondo è avere un assistente alla regia che prima di una scena urla: “Silenzio, questo è un momento emozionante!”.

Martin Short ha detto che, prima di girare una scena di Vizio di forma, ti ha chiesto se pensavi che fosse troppo esagerata e tu gli hai risposto: “Qui non c’è niente di esagerato, Martin”.
Non mi ricordo di averlo detto, ma il punto è che se stai girando una scena con Martin Short puoi prenderti delle libertà. L’ultima cosa che gli puoi dire è: “Un po’ meno, Martin”. Vuoi vederlo esplodere. La cosa bella del cinema è che puoi girare delle scene semplici e delle scene esagerate, puoi fare tutto. Prendi la famosa battuta ne Il Petroliere: “Io bevo il tuo frullato. Lo bevo tutto”. Sono sicuro che un sacco di persone hanno pensato: “Qui hai toppato, Paul”. (Ride). Certo, è una scena esagerata, ma se ricordo bene quella battuta è presa letteralmente dagli atti dello scandalo del Teapot Dome negli anni ’20. Se riesci a convincerti che c’è un legame con la realtà è tutto giustificato.

Al limite puoi sempre fare un primo piano…
Ce ne sono parecchi in Vizio di forma, vero? Non è stata una cosa programmata, è solo che dopo un po’ capisci che il posto migliore per piazzare una telecamera alla fine è qui (mette le mani davanti alla faccia). Le location che si usano di solito non hanno niente di interessante: una squallida stanza di un motel, un appartamento qualunque. E poi cosa c’è di meglio di un primo piano di Jena Malone? Non molto, direi.

Cosa pensi del cinema di oggi? Ci si lamenta molto del fatto che ci sono solo film di supereroi.
È un’enorme cazzata! Non ricordo che ci sia stato un anno così poco criticato per la qualità dei film come questo. E poi che c’è di male nei film di supereroi? A me piacciono. Chi si perde in questo tipo di discussioni secondo me non ha niente di meglio da fare. Sono film criticati ingiustamente.

Come gli anni ’70?
L’opinione comune è che gli anni ’60 siano stati il decennio della speranza in un cambiamento positivo e gli anni ’70 quello della paranoia e del dopo sbornia. Un tema centrale nel 
libro di Pynchon.
Parla esattamente di questo. Può succedere che venga criticato ingiustamente, ma io non ho nessuna autorità sul contenuto di questo film. Voglio dire, il film è davvero di Pynchon, così come le sue riflessioni sull’epoca. Io sono nato nel 1970, se penso a quegli anni non penso al Watergate. Mi vengono in mente i viaggi sulla station wagon dei miei. Penso a quando mi svegliavo prima di tutti il sabato mattina e mangiavo i cereali davanti alla tv. Cioè, li buttavo per terra e li mangiavo. Penso a mia madre che si alza e mi dice: “Che cazzo stai facendo? Hai fatto un casino, adesso pulisci”, e mi passa l’aspirapolvere!

Sei cresciuto in una famiglia numerosa. Forse è per questo che ti piace fare film con tanti personaggi e ti trovi così a tuo agio sul set?
Oh, assolutamente sì. Io mi trovo bene in mezzo a tanta gente che fa casino. Il set di un film per me è come la mattina di Natale. Se la situazione è troppo tranquilla e silenziosa divento nervoso.

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