«Sono un regista che tende a tenere ben separate vita privata e lavoro, quindi di solito non rifletto molto me stesso nei miei film». E infatti, a vederlo, Park Chan-wook è un signore discreto e mite: giacca casual grigio scuro, occhiali da vista, un sorriso gentile, una stretta di mano presente ma misurata. La verità però è che, nella sala di un hotel del Lido di Venezia, mi si siede accanto il pioniere che ha fatto della Korean Wave cinematografica un linguaggio globale, capace di parlare al mondo senza smussare la propria radicalità. Il maestro che ha dimostrato come il cinema pop possa essere colto e quello d’autore profondamente disturbante. L’architetto della crudeltà morale su grande schermo, che ha trasformato la violenza in un atto di precisione etica. In una parola: Dio (del cinema).
Dopo aver reinventato la vendetta come mito contemporaneo — da Mr. Vendetta a Oldboy, fino a Lady Vendetta — Park Chan-wook è diventato il cantore dell’impotenza moderna: uomini schiacciati dal lavoro, dall’amore, dal sistema, dalla Storia. No Other Choice – Non c’è altra scelta (in sala con Lucky Red dal 1° gennaio, qui la recensione dalla Mostra) arriva alla fine di questo percorso come una resa dei conti crudele e silenziosa, un film che sembra parlare di un uomo ma in realtà parla di tutti, perché ci ricorda quanto possa essere spietato il mondo quando smette di aver bisogno di noi.
Man-su (Lee Byung-hun, ci torniamo) è un marito e padre realizzato, ma soprattutto è uno specialista nella produzione della carta che crede di “avere tutto”. Fino al giorno in cui viene licenziato e decide di farsi spazio nel mercato del lavoro da solo. Come? Eliminando fisicamente gli altri candidati. È una premessa che potrebbe sembrare grottesca, se Park Chan-wook non fosse (di nuovo) Dio: elegante, feroce e profondamente umano nella stessa, magnifica inquadratura.
Tratto dal romanzo The Ax di Donald Westlake (già adattato da Costa-Gavras nel Cacciatore di teste), No Other Choice parla di lavoro, sì, ma soprattutto di identità, di cosa resta di un uomo quando il ruolo sociale che lo definiva viene cancellato. Non è un caso che Park torni più volte su un punto: «Credo che chiunque lavori nell’industria, o chiunque sia un artista, possa riconoscersi in questo personaggio. Io stesso mi sono identificato completamente con lui, ed è per questo che ho voluto raccontare questa storia», risponde in coreano, poi sorride, lascia la parola all’interprete e abbassa lo sguardo sulle mani appoggiate sul tavolo.
Foto: Lucky Red
Il progetto accompagna Park da oltre vent’anni, ma non come un’ossessione. Piuttosto come qualcosa tornava nei momenti di pausa, quando c’era spazio per guardarla con occhi nuovi. «Ci ha messo tanto tempo perché nel frattempo ho realizzato altro: non è stata un’idea a cui sono rimasto aggrappato per tutto quel tempo in modo consecutivo», precisa. «Chiamarlo “il lungometraggio della vita” sarebbe esagerato. Però è vero che non l’ho mai abbandonato e che, tra un film e l’altro, nei momenti liberi ci tornavo sempre. In questo senso è una storia molto speciale per me».
Per capire davvero No Other Choice bisogna però tornare indietro. Tornare a quel Park Chan-wook che, all’inizio degli anni Duemila, ha contribuito a ridefinire l’immaginario del cinema sudcoreano nel mondo. Con la cosiddetta “trilogia della vendetta”, etichetta che lui stesso ha sempre guardato con sospetto, Park ha trasformato la vendetta stessa in un dispositivo tragico, non catartico. E forse oggi il pubblico internazionale si aspetta un certo “stile” da lui? «Non è qualcosa a cui penso molto. Film come Mr. Vendetta, I’m a Cyborg, But That’s OK o anche Decision to Leave sono piuttosto lontani da ciò che ci si aspetta di solito da me. Mi piace usare stili diversi, purché siano quelli giusti per la storia che voglio raccontare». No Other Choice è il punto di arrivo di questo percorso: non più l’atto estremo come risposta a un torto, ma come tentativo disperato di restare visibili.
Foto: Lucky Red
Non è un caso che il film sia attraversato da un’ironia nerissima. Man-su non uccide per rabbia o passione, ma per razionalità. È un uomo che pianifica, calcola. In questo senso, No Other Choice è anche un film profondamente contemporaneo, un racconto sul tardo capitalismo che ha interiorizzato il linguaggio dell’efficienza fino a renderlo indistinguibile dalla violenza. Il discorso si allarga inevitabilmente allo stato dell’industria. Nel film ci sono stoccate evidenti al mondo delle piattaforme (per risparmiare il protagonista deve tagliare diverse cose, la peggiore: disdire l’abbonamento a Netflix!) ma Park rifiuta qualsiasi lettura ideologica. «Ho lavorato a un film con Netflix come sceneggiatore e produttore (di Uprising – Guerra e rivolta, nda), quindi non ho alcuna intenzione di dire che le piattaforme stiano rovinando il cinema», chiarisce. Anzi, riconosce apertamente «molti progetti che erano stati accantonati o che non sarebbero mai stati realizzati sono stati “salvati” proprio grazie a loro».
Poi ci sono film che con gli studios tradizionali sarebbero stati prodotti «con un budget di un milione di dollari, mentre passando dagli streamer diventano film da due milioni di dollari, e questo li rende, di fatto, migliori. Un altro aspetto importante è che le piattaforme hanno aperto le porte a molti filmmaker, permettendo di raccontare storie più lunghe, anche in forma seriale. Hanno ampliato le scelte creative». Il problema, per lui, è un altro, perché emerge un paradosso: «Ora hai un budget sufficiente, ti viene concessa la libertà creativa e puoi realizzare la storia che vuoi», osserva. «Puoi fare il film, ma poi non puoi vederlo in sala». E allora la domanda diventa inevitabile: «Tutta questa libertà e tutti questi soldi… per cosa?». È una riflessione che No Other Choice traduce in immagini, «una situazione paragonabile alle azioni di Man-su: tutto viene fatto per proteggere la famiglia, ma alla fine risulta vano».
Park Chan-wook e Lee Byung-hun sul set di ‘No Other Choice’. Foto: Lucky Red
E Lee Byung-hun spinge sul lato più goffo del protagonista, dipingendolo come un pragmatico vendicativo degno di empatia e decisamente carente in quanto a competenza omicida. Le sue doti da slapstick sono una rivelazione. Attore feticcio del cinema coreano, volto globale anche grazie a Squid Game (dove interpreta l’antagonista principale, aka Front Man), Lee è legato a Park da un’amicizia che risale a Joint Security Area (2000). Il regista racconta che anni fa, intorno al 2010, Lee gli chiese se ci fosse una parte per lui in un progetto che allora si chiamava The Ax. «Gli dissi: “No, non sei un uomo bianco. E sei troppo giovane. Quindi non sognartelo nemmeno”». Oggi, dice Park, «è passato del tempo, il film è diventato coreano e Lee ha qualche ruga in più, il volto di un uomo che corrisponde davvero alla sua età». Il fatto che dopo la serie-fenomeno Netflix Byung-hun sia una star conosciuta in tutto il mondo aiuta, ma non ha certo influito sulla scelta. Quando chiedo a Park se lo ha voluto anche come simbolo di quel cinema coreano che lui stesso ha contribuito a far conoscere e se si sente l’iniziatore di quell’ondata, sorride e resta su Lee: « «Anche senza il successo internazionale è sempre stato un attore di altissimo livello, credo che il suo talento parli da solo».
Ecco restiamo sul cinema corean-globale. Un’invasione domestica, una pistola e una moglie furibonda danno vita a una sequenza favolosa, che andrebbe studiata nelle scuole di cinema per come riesce insieme ad aumentare la tensione e a trasformarla in caos coreografato e comico. E la musica, Red Dragonfly di Cho Yong-pil, è sparata a tutto volume, à la Parasite. «Quando ho visto il film all’epoca avevo completamente dimenticato quella scena. È stato solo dopo aver finito le riprese, durante il montaggio, che qualcuno me l’ha fatto notare. E ho pensato: “È curioso, perché io l’avevo già scritta nel 2009 o 2010”. Questo non significa assolutamente che stia accusando Bong Joon-ho di aver letto le mie sceneggiature! Ma è divertente notare come condividiamo un gusto simile per certe idee. Ed è ancora più interessante se pensi che anche in Parasite quella sequenza avviene mentre sta suonando un disco in vinile».
Foto: Lucky Red
Tutto quello che fa il protagonista però, alla fine, si rivela solo una vittoria temporanea. No Other Choice si chiude con il più amaro dei trionfi: l’ultimo uomo rimasto in piedi ha vinto la battaglia ma perso la guerra: «Man-su finisce per puntare la pistola contro colleghi e amici, persone nella sua stessa condizione. E il lavoro che ottiene dopo tutto questo, quanto durerà? Lo spettatore non può che guardare la situazione con pessimismo. Il suo ruolo esiste perché serve ancora un essere umano a supervisionare l’automazione, ma finito il periodo di prova sarà davvero ancora necessario?». Un dettaglio apparentemente innocuo segnala un altro problema già in agguato all’orizzonte: «Nell’ultima sequenza, quando le luci della fabbrica si spengono da sole, il sistema è un impianto governato dall’AI. L’ho girata pensando che l’intelligenza artificiale stesse dicendo a Man-su: “Non servi più, vattene”. Non è una spinta fisica fuori dallo spazio, ma è come se venisse letteralmente espulso dall’oscurità stessa».
E allora l’analogico, e cioè dischi, carta (nel senso di giornali) e cinema sono destinati a scomparire o possono ancora essere salvati? Park non nasconde la sua preoccupazione per il futuro delle sale, soprattutto in Corea, dove «il mercato fatica a tornare ai livelli pre-pandemia». E aggiunge: «A questo punto dobbiamo chiederci quale sarà il destino dei film pensati per il grande schermo. Il panorama è piuttosto cupo», ammette. Eppure rifiuta l’idea della resa: «Ma cosa facciamo, allora? Ci arrendiamo? Ci spostiamo tutti sulle piattaforme o realizziamo solo grandi film di supereroi pensati per performare al box office? Alcuni lo faranno. Altri, come me, non possono. Forse è una visione più conservatrice, o una questione di gusti e valori personali, ma io non ho altra scelta che continuare a lavorare come ho sempre fatto».
Foto: Lucky Red
