Paris Hilton senza filtri | Rolling Stone Italia
The Not-So-Simple Life

Paris Hilton senza filtri

Ha creato un personaggio irresistibile per mettersi alle spalle traumi e violenze, che racconta in questa intervista realizzata nella sua villa a Beverly Hills. Ora è pronta per mostrarsi com'è veramente

Paris Hilton nella sua casa di Beverly Hills. Foto: Amanda Charchian. Abito Monot. Orecchini Nouvel Heritage. Scarpe Christian Louboutin

Il cielo sopra Beverly Hills volge al tramonto quando resto chiusa dentro la proprietà di Paris Hilton. La fotografa, la sua crew e tutto il loro armamentario non ci sono più. Gli stylist hanno impacchettato la loro roba in uno scatolone che è entrato a fatica in auto. I giardinieri se ne sono andati a bordo d’un camioncino bianco carico di foglie. Anche gli elicotteri sopra le nostre teste hanno smesso di ronzare. Sul vialetto di casa Hilton (dove sosta la sua Bentley rosa con una gomma a terra) e sulla sua villa italianeggiante (illuminata da un bagliore rosa neon) è calato il silenzio. Ed eccomi qua, aggrappata alle inferriate a ghirigori del cancello in ferro battuto che fino a poco tempo fa era spalancato, a chiedermi come diavolo uscire da questo paradiso dorato.

Mentre penso che non è malaccio come luogo in cui restare intrappolata, vago per la proprietà alla ricerca di un’altra via di uscita. Ci sono palme di proporzioni bibliche e una fontana a più livelli. Ci sono piante in vaso e statue di cherubini. E un ingresso imponente degno del Vaticano, se non fosse per il tappeto di benvenuto coi colori dell’arcobaleno e l’imponente foyer a colonne in cui staziona un alpaca di peluche a grandezza naturale (un regalo delle Kardashian, a quanto pare). In fondo a un corridoio, c’è un soggiorno ben arredato, con scritte al neon col logo di Chanel e cuscini di Versace. Un bastoncino d’incenso è poggiato su un posacenere che reca la scritta “You’re fucking awesome”.

Fino a pochi minuti fa, Paris Hilton era in questa stanza, rannicchiata in un angolo del divano color crema in una tuta da ginnastica rosa acceso e calzini arcobaleno. Mi raccontava del nuovo marito, del nuovissimo figlio e del libro ancora più nuovo Paris: The Memoir. L’ha scritto perché in passato ha «soppresso troppe cose» e «aprirsi è stato curativo». Sa che cosa la gente s’aspetta quando sente le parole “Paris Hilton” e «con quella narrazione ho chiuso».

È effettivamente superata. Ora è sposata, e in questo giorno di fine febbraio è diventata madre da appena un mese d’un bambino di nome Phoenix Barron Hilton-Reum. Il figlio porta il nome di una città, proprio come mamma, ma anche quello d’una creatura mitica che risorge dalle ceneri. Con una mossa particolarmente brillante, Paris Hilton e il marito, il venture capitalist Carter Reum, sono riusciti a mantenere il riserbo sul figlio fino a una settimana dopo la nascita. Nemmeno le famiglie Hilton e Reum lo sapevano. Le uniche persone ad esserne a conoscenza erano l’équipe medica e la madre surrogata, che durante la gravidanza guardava episodi di The Simple Life in modo che il feto s’abituasse al suono della voce della madre.

Dopo aver saputo che Phoenix sarebbe nato con una settimana e mezzo d’anticipo, Hilton ha indossato una parrucca mora ed è andata col marito al Cedars-Sinai. Ha pianto assistendo al parto. Il bimbo stava bene e perciò l’hanno potuto portare a casa la sera stessa, mandando a casa tutto il personale (tranne una babysitter) e chiudendosi nella loro villa stupiti per quel che avevano fatto. «Oh, mio Dio, sono mamma», dice Hilton ricordando i pensieri di quei giorni. «Ho sempre vissuto sotto i riflettori e ho voluto che per il mio bambino non fosse tutto così strambo». Si ferma per un attimo, non sapendo come definire meglio la portata di quella stranezza.

È in quel momento che le cose diventano, come dire, “meta”. Una delle donne più fotografate al mondo, una che ha appena finito un servizio fotografico a sua volta documentato in un video per la seconda stagione del suo reality Paris in Love compulsa il telefono in cerca d’una foto della creatura. La trova e reggendo lo smartphone mostra con orgoglio l’immagine. «Qui è quando aveva tre ore di vita. Era già bellissimo e fotogenico», dice per poi ridere della ridicolaggine, anzi della parishiltonaggine delle sue stesse parole.

Arriva Reum, un tipo vivace del Midwest in felpa blu. «Oh, hai visto l’anteprima!», mi dice entusiasta quando vede la foto di Phoenix. Quasi nessuno ha visto il bambino in carne e ossa, anche se qualche giorno fa alla festa di compleanno di Hilton – c’erano Sia, Rebel Wilson e la sorella Nicky Hilton – alcuni amici si sono intrufolati al piano di sopra per dare una sbirciatina.
«Ha un bell’intuito», dice Hilton del figlio.
«È molto attento», aggiunge Reum, raggiante.
«È bello tranquillo. Non piange».
«L’ha detto il dottore: “Tuo figlio è molto intelligente”», dice Reum, scettico. «Gli ho risposto che ancora non si poteva dire».
«Ma lo è».
«Potrebbe esserlo».
«È per il modo in cui è sempre concentrato», dice Hilton. «Ha gli occhi sempre fissi su di me».

C’è stato un tempo in cui tutti avevano gli occhi puntati su Paris Hilton. La pronipote del fondatore della catena Hilton era assalita dai paparazzi a tal punto da sentire il clic delle macchine fotografiche anche quando in giro non ce n’erano. Nel 2006 e nel 2008 la persona più cercata al mondo su Google era questa celebutante cresciuta tra Bel Air e il Waldorf Astoria di New York, cacciata da varie scuole private di lusso la cui partecipazione ai party su entrambe le sponde dell’Atlantico finiva regolarmente in prima pagina.

Già allora, Paris Hilton faceva di tutto per dirci che non era “Paris Hilton”. Il modo di vestirsi alto-basso, le pose goffe, la voce da bambina: era chiaro che stava giocando con una fantasia da cartone animato. Eppure, l’idea che Hilton sia qualcosa di più d’una Barbie dai colori fluo non è mai passata, anche se lei ci ha costruito sopra un impero multimiliardario nei campi del beauty e della moda, oltre ad essere stata la più svelta ad adottare ogni tecnologia potenzialmente in grado di fruttarle una fortuna (criptovalute, NFT, intelligenza artificiale, metaverso) ed è passata dall’essere pagata centinaia di migliaia di dollari per presentarsi a una festa all’essere la dj di quella festa, con un cachet di un milione di dollari a serata.

La percezione di Hilton è cambiata solo dopo il documentario del 2020 This Is Paris, proprio nel momento in cui le persone con e senza vagina stavano puntando il dito contro il modo incredibilmente maschilista con cui nei primi anni 2000 erano state trattate le celebrità (vedi i casi di Britney Spears e Lindsay Lohan). Hilton ha raccontato per la prima volta in vita sua di aver passato quasi due anni in alcuni «centri di cura» per adolescenti problematici e di come l’esperienza l’abbia traumatizzata e svuotata. «Ho subìto talmente tanti abusi che non sapevo più chi ero», racconta oggi. «Mi chiedevo: chi sono? E che cos’è la vita?». E allora, perché non assumere la personalità che la gente proiettava su di lei?

Foto: Amanda Charchian. Abito Valentino. Orecchini F+H Studios. Anelli Melinda Maria

Le rivelazioni contenute in This Is Paris hanno trasformato “Paris Hilton” (oggetto) in Paris Hilton (soggetto). Da brava innovatrice, ha passato gli ultimi anni a implementare questo passaggio. È stata più volte a Washington per chiedere leggi che regolamentino gli interventi che possono essere utilizzati nelle “scuole” di terapia comportamentale. Ha ammesso, come fa ora con me, che «un tempo la vita era una cosa superficiale che non avevo dentro di me». Dire al mondo la sua verità ha cambiato le cose e l’ha spinta a cercare una relazione sentimentale basata sull’assoluta trasparenza. E ha messo tutto ciò in Paris in Love, la serie Peacock che nella prima stagione l’ha seguita all’altare e in cui, secondo lei, ben poco è sceneggiato. In altre parole, ha usato la sua crescente autenticità per rafforzare il suo brand e, in un certo senso, la sua vita vera e la sua famiglia.

Paris: The Memoir fornisce nuovi dettagli circa gli abusi subiti da Hilton tra i 16 e i 18 anni in quattro «campi di tortura per bambini», come li chiama lei, dove i genitori mandavano la loro prole “ribelle” (a 16 anni, Hilton era già protagonista della vita notturna di Manhattan). Lì, mi racconta, il personale «si eccitava ad abusare dei bimbi» e «ci faceva a pezzi» a tal punto che «la gente non credeva ai bambini perché quello che dicevano era folle». Scrive di essere stata strangolata, picchiata e affamata; spogliata e posta in isolamento; svegliata di notte e portata in una stanza dov’è stata legata e sottoposta a un «esame ginecologico» col personale che la guardava. E ancora, costretta a prendere strane pillole che la facevano impazzire e chiusa all’interno di un edificio per 11 mesi di fila. S’è sentita dire che non era amata da nessuno e che nessuno l’avrebbe mai amata. Pensava che l’unico modo per fuggire da tutto ciò sarebbe stato morire. «Non che ci abbia provato», dice, alludendo al suicidio. «Semplicemente pensavo che avrei preferito essere morta che essere lì. È stato tremendo».

Il libro rivela altre storie. Hilton è stata adescata da un insegnante di terza media e drogata e violentata da un ragazzo incontrato al centro commerciale quando aveva 15 anni («Mi ha messo le mani sulla faccia e m’ha detto: “È tutto un sogno, è tutto un sogno”»). Racconta di come a 19 anni s’è chiusa in bagno per sfuggire alle avance di Harvey Weinstein e descrive i dettagli dell’aborto che ha avuto a 22 anni. Nel periodo in cui era una delle donne più sessualizzate del pianeta, lei si considerava asessuale («Temevo il sesso, odiavo l’idea del sesso, evitavo il sesso finché non era assolutamente inevitabile») e associava l’abuso all’amore («Per molto tempo ho pensato che se qualcuno era così geloso da lanciarti un telefono in testa o da aggredirti fisicamente, allora ti amava davvero»). Ha affrontato tutto ciò bevendo fino allo sfinimento e tenendosi talmente occupata da non avere tempo per pensare. Ha fatto chiaramente degli errori. Ha detto cose razziste, classiste, omofobe e sconce, è finita in prigione ed è sembrata a tratti implodere. Col senno di poi, pensa sia stata la risposta ai traumi subiti. «All’epoca nessuno parlava di salute mentale», dice oggi. «A parte, intendo, le persone che mi dicevano: tu sei matta».

Ci sono talmente tanti retroscena che, parlandone nel suo salotto, si è tentati di pensare che stia per arrivare l’happy ending annunciato dalla scritta al neon che sta in un angolo della stanza: “Happily Ever After“. L’incanto si rompe quando qualcuno entra nella stanza per ricordare a Hilton che ha un impegno, tipo telefonare al Today Show. «La gente mi dice quel che devo fare ogni giorno», dice Hilton, alzando le spalle. Reum mi accompagna all’uscita e mi invita ad accarezzare l’alpaca di peluche, che chiama “animale anti-stress”. «Dagli un bell’abbraccio», dice. Lo faccio ed è una sensazione fantastica.

Il giorno dopo incontro Hilton nello studio dove sta registrando l’audiolibro di Paris: The Memoir. Il libro è volutamente pensato per replicare il disturbo da deficit di attenzione di Hilton, spargendo continuamente aneddoti che riguardano paracadutismo o campeggi a Ibiza o feste con amici famosi per dare un senso comico al tutto. Ad ogni modo, leggerlo ad alta voce giorno dopo giorno è stato tosto, anche per i tecnici in studio. «Continuo a dire: “Scusate ragazzi, è una storia matta” (ride). E loro mi rispondono: “Certo, quando abbiamo saputo che avremmo fatto il libro di Paris Hilton non ci aspettavamo nulla di tutto ciò”».

Per molte ragioni Paris non corrisponde all’idea che si potrebbe avere di lei, soprattutto oggi che indossa una tuta nera e un cappellino da baseball, non è truccata e ha i capelli legati in una coda che le cade sul lungo collo. È di nuovo in calzini, seduta su un piccolo divano in uno degli angoli dello studio. «Mi sento un puffo», dice illuminata dalle luci blu. Ciò che colpisce di più è la totale mancanza di un’espressione di femminilità: Paris proietta una certa quiete fisica che mi fa prendere conoscenza della mia stessa performance di genere – come muove le mani, come alzo la voce mentre rido. Nel libro parla di quando ha capito di essere un’artista performativa e che il suo corpo è il mezzo attraverso il quale esprimersi. «Ho pensato “Sto recitando. La gente può prendere in giro o parlare del personaggio che interpreto, tanto non sono io. Sono io che interpreto qualcun’altra”. Ecco perché non mi ha fatto molto male. Pensavo: tesoro, me la rido mentre vado a depositare i soldi che sto facendo».

La prima volta che Hilton ha detto a qualcuno (famiglia inclusa) cosa le è successo durante la sua permanenza al centro è stato davanti alle telecamere di This Is Paris. Era intontita dal jet lag, non riusciva a dormire, si è sorpresa lei per prima per le parole che le uscivano della bocca mentre la regista Alexandra Dean la riprendeva con una camera a mano a bordo letto. Quando lo ha realizzato, ha chiesto alla regista di escludere quella parte dalla pellicola. «Il giorno dopo Alexandra mi ha mostrato una ricerca secondo cui migliaia di ragazzini vengono mandati negli stessi posti ogni anno. Mi sono detta: com’è possibile che tutto questo stia continuando ancora oggi dopo vent’anni?». Ha capito che parlarne avrebbe potuto fermare quel che stava succedendo.

E così è stato. Il sostegno di Hilton ha fatto sì che la legge fosse cambiata in ben otto Stati. In più, racconta in maniera controintuitiva, ci sono una serie di vantaggi personali nell’elaborare il trauma in pubblico, davanti a una telecamera. «È talmente difficile parlare di queste cose che mi sono sentita più a mio agio a farlo con altre persone intorno», spiega. Parlando con la famiglia di quello che aveva vissuto, e attraverso Paris in Love, ha finto che la decisione di affrontare l’argomento fosse dei produttori. «Dicevo loro: “Sono loro che mi hanno detto di chiedertelo, non è una mia scelta”». Sfila i capelli dall’elastico e poi lentamente li rilega. «L’unica terapia che abbia mai fatto sono stati il libro e il film».

Foto: Amanda Charchian. Abito Monot. Orecchini Nouvel Heritage. Scarpe Christian Louboutin

Ha funzionato. Per quanto le cose siano andate male in passato, Paris vuol farmi capire che ci sono tantissime cose belle nella sua vita di oggi. Stasera andrà a casa e dormirà con Phoenix appoggiato sul petto. Farà un bagno caldo con Reum. La mattina probabilmente porterà i cani a passeggio nel suo bellissimo giardino e farà un giro con la bici elettrica nel piccolo quartiere privato dove abita. Alla fine può anche uscire in pubblico usando qualche piccolo espediente («Mi piace andare al mercato delle pulci di Melrose e comprare cose a caso»). Solo qualche sera fa è stata a cena con Nicole Richie («Un appuntamento a quattro, è stato divertente, alla fine abitiamo a due minuti l’una dall’altra»). E – attenzione! – ha dato buca al presidente Biden e altri capi di Stato, per cui doveva fare un dj set, per andare al matrimonio di Britney Spears («Ne ha passate fin troppo, con lei preferisco parlare di cose felici come musica, vestiti, cuccioli»).

Sta inoltre lavorando alla costruzione della sua realtà virtuale, Paris World, con l’obiettivo di estendere il suo successo anche al metaverso, «così posso stare a casa e far la mamma mentre lavoro». Sta per lanciare sul mercato il suo trentesimo profumo (ed è stata la prima a lanciarne uno nel metaverso, con circa un milione di persone in lista d’attesa) e sta lavorando al nuovo album cercando di trovare le canzoni giuste tra le 200 che le sono state mandate da amiche come Miley Cyrus e Meghan Trainor. Dopo aver ascoltato Lonely di Justin Bieber, ha scritto a Benny Blanco augurandosi di poter collaborare con lui e – indovinate un po’? – ce l’ha fatta. Questa, in altre parole, è la vita di una persona vera, che ha esperienze umane reali che diventano un po’ più incredibili ogni volta che condivide con noi pezzi della sua vita.

Prendiamo, per esempio, il modo in cui ha presentato il figlio Phoenix a sua madre. Ha invitato Kathy Hilton a casa, come fosse un giorno qualunque, e le ha regalato una borsa di Chanel blu («Ho pensato che se le avessi dato la Chanel prima non si sarebbe arrabbiata») per poi mostrargli il nipote di cui non sapeva nulla. «Stavo tenendo mio figlio al petto con una copertina sopra. Lei mi guarda e mi dice “Cos’è?”, e io “Un bambino, eccoti tuo nipote”. E lei: “Ma dici sul serio?”, ed è scoppiata a piangere. Mi ha chiesto se poteva prenderlo in braccio e in lacrime m’ha detto che “è il più bel bambino che abbia mai visto”».

Un momento vero, fatto di emozioni reali. E incredibilmente questa realtà – in un plot twist che potrebbe sembrare surreale al 99,99% delle persone – è stata ripresa dalle telecamere di Paris in Love.

Prima di lasciare lo studio, spiego a Paris che mi sono persa e ho girovagato come un membro della gang del Bling Ring finché un assistente non m’ha aiutata a trovare il pulsante per uscire. Le chiedo se anche lei ogni tanto si sente persa, intrappolata tra la persona e il personaggio, tra la vita privata e quella pubblica. Mi dice che non è più così, o almeno non proprio così, non adesso. Si sente vendicata, come se avesse trovato un obiettivo: finalmente controlla la sua narrativa, anche in maniera letterale. «Sono la producer di questo show, ho il controllo sull’editing finale».

Se ora vive in una menzogna – e chi non ci vive del resto? – almeno è una che si è costruita da sola. Pensarla intrappolata significherebbe dal mio punto di vista, non dal suo. Significherebbe privare Paris Hilton della sua indipendenza. «Ora le persone finalmente mi capiscono e mi sento rispettata come mai prima», dice. È vero per lei, e sembra fantastico. 

***

Hair: Eduardo Ponce
Make-up: Steven Tabimba
Styling: Sammy K for the Only Agency
Photographic assistance: Byron Nickleberry e Dom Ellis
Styling assistance: Marissa Pelly, Kiona Vickroy, Rebecca Mikelstein

Da Rolling Stone US.

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