Pablo Trincia: «A furia di trattare di ingiustizie, perdi la fiducia nel genere umano» | Rolling Stone Italia
Il crimine paga in Sudafrica

Pablo Trincia: «A furia di trattare di ingiustizie, perdi la fiducia nel genere umano»

Il sogno spezzato di Mandela a 30 anni dalla fine dell’apartheid, gli omicidi e i sequestri all’ordine del giorno, il dominio delle gang e la rassegnazione di morire ammazzati in 'Essere umani – Le cicatrici di Cape Town', reportage del giornalista per Sky TG24. Che ci dimostra come stanno già diventando anche le nostre città

Pablo Trincia: «A furia di trattare di ingiustizie, perdi la fiducia nel genere umano»

Pablo Trincia in 'Essere Umani: le cicatrici di Cape Town'

Foto: Sky TG24

Se pensiamo al Sudafrica, probabilmente alla maggior parte di noi vengono in mente Nelson Mandela e la fine dell’apartheid. Ma a trent’anni dalla sua elezione e dall’inizio della rivoluzione che voleva eliminare il razzismo nel Paese, sembra che quel sogno sia stato spezzato e ora somigli tanto a un incubo. La situazione drammatica attuale ce la racconta Pablo Trincia in Essere umani – Le cicatrici di Cape Town, miniserie in tre puntate in onda il 24, 25 e 26 aprile su Sky TG24 e Sky Documentaries e in streaming su NOW, realizzata da Chora Media per la regia di Paolo Negro. Più che documentario, un vero e proprio pugno allo stomaco su una realtà agli antipodi di quella che spesso è descritta come una meta turistica: è la città con più omicidi al mondo, dove dettano legge 120 gang spietate composte da oltre 100mila persone, dove lo Stato ha subappaltato alla sicurezza privata il contenimento dei reati (un altro dato impressionante: 15mila sequestri l’anno) e le persone sembrano rassegnate alla possibilità di morire dopo essere state colpite da un proiettile. Così il viaggio di Trincia è una sorta di ingresso in un girone dantesco da dove il Paradiso ancora si scorge, e nel quale lui stesso si trova di fronte al dilemma se intervenire (e rischiare la vita) o scappare. Che cosa ha deciso di fare ce lo ha raccontato lui stesso, dopo aver ammesso che, dopo tanto orrore di fronte agli occhi – anche in altri suoi lavori che hanno per tema le ingiustizie – «perdi la fiducia nell’umanità» e per questo «vado in terapia». Così, se dovesse smettere, ci ha rivelato il suo sogno: «Aprire un negozio di fiori-enoteca».

Dopo aver visto le tre puntate di Essere umani, quello che colpisce è il diverso rapporto con la morte che hanno gli abitanti di Cape Town rispetto a noi europei.
Nella città che ha il record per numero di omicidi in percentuale alla popolazione, è come se fosse scontato morire in quel modo. È come se le persone la preventivassero come un’eventualità per nulla remota. Infatti, quando andiamo a casa della donna che è stata uccisa e la sorella ha quella reazione, si resta davvero spiazzati. Da noi se una persona viene uccisa davanti a casa da due sicari la famiglia è disperata, mentre là è qualcosa che sembra inserito nel Dna della società. Sembrano già preparati emotivamente a morire in quel modo.

Dopo che hai frequentato così tanto la violenza di certi luoghi, anche il tuo rapporto con la morte è cambiato?
Sì, è cambiato. Soprattutto da quando ho figli. Prima la morte la percepisci come qualcosa che tocca gli altri e non te, mentre i figli ti impongono una riflessione in più. Nel documentario, quando entro in casa del ragazzo ucciso e trovo la madre che gli piega i vestiti, ovviamente ho accusato quella scena. In questo senso è stato un cambiamento più umano che professionale. Quello che cambia è la posizione da cui racconti le cose.

Faccio l’avvocato del diavolo: ma chi te lo fa fare di rischiare così tanto per raccontare delle storie?
Ognuno di noi segue qualcosa, che sia l’avventura, la curiosità, la scoperta, ma quando ti trovi in certe situazioni sei di fronte a un bivio. Con la ragazza inseguita col coltello da un uomo mi sono visto di fronte a qualcosa che, se fossi rimasto a casa, non mi sarei trovato ad affrontare. All’inizio non vorresti intervenire, perché sai di rischiare, però in quei giorni in Italia si parlava tantissimo del femminicidio di Giulia Cecchettin. Ricordo di aver pensato alla sua immagine e di essermi detto: se non provo a intervenire verrà uccisa e io, che non ho fatto niente, passerò il resto della vita con il senso di colpa. Non pensi tanto al pericolo finché non te lo ritrovi a mezzo metro, e lì segui l’istinto.

Recentemente, durante un incontro pubblico, hai parlato dei tanti rifiuti ricevuti per il podcast Veleno, che poi è stato un caso e ha aperto la strada ai podcast in Italia. E hai detto: “Che palle questi che sono lì a decidere e non capiscono niente”. Ne trovi ancora sulla tua strada di persone che non capiscono l’importanza di certi reportage?
Ci sono, altroché se ci sono. Con Sky ho trovato un’isola felice, perché ti danno grande fiducia e hanno molta attenzione per queste storie. Però il mondo del lavoro è pieno di gente che ricopre posizioni apicali senza aver mai fatto quel mestiere sul quale prende decisioni. Sono dirigenti e nient’altro, senza curiosità, e che non ascoltano. Dopo un po’, se ti sei fatto un nome e hai uno storico, in teoria ti stanno a sentire un po’ di più, ma anch’io li trovo ancora.

Tornando al documentario Sky, a trent’anni dalla fine dell’apartheid con l’elezione di Nelson Mandela presidente nell’aprile del 1994 racconti questo “sogno che si è rotto”. Quando si arriva alla fine, però, più che un sogno che si è rotto sembra diventato un vero e proprio incubo. Tu come ti sei spiegato questa evoluzione negativa?
È così, perché i numeri degli omicidi e dei rapimenti sono molto peggiori rispetto a prima. Io quello che conosco l’ho letto da articoli di settore e commenti su diverse riviste di economisti e sociologi, e su quelli mi sono fatto una cultura. Ma ciò che raccontano tutti è che l’élite nera, l’African National Congress, invece di lavorare sul progresso e il benessere delle masse che vivono nelle baraccopoli, ha portato avanti semplicemente i propri interessi. Prima il presidente Jacob Zuma e poi Cyril Ramaphosa sono gli esempi dei classici plutocrati africani che se ne fregano delle persone. Questa élite post Mandela non ha coinvolto la popolazione che aveva bisogno di ricevere un trattamento migliore, e le gang operano indisturbate.

Non a caso segnali che a Cape Town ci sono due milioni di guardie private e solo 150mila agenti della pubblica sicurezza. “Il crimine paga in Sudafrica”, ti dice un agente.
La polizia solo l’anno scorso si è dotata di un’unità specializzata nei sequestri, in una città dove se ne registrano 15mila l’anno. Ti sembra normale e tempestivo? La polizia privata è molto superiore a quella pubblica: questo non è il fallimento totale di un sogno che doveva essere molto diverso? Di Mandela ce n’era uno e gli altri non sono come lui. Così la ricchezza è rimasta nelle mani dei bianchi, i politici neri si sono presi quello che volevano senza dare nulla al loro popolo e la gente vive peggio di quando c’era l’apartheid. In qualsiasi township, se metti un piede fuori di casa rischi di essere ucciso da un colpo di pistola.

Tra l’altro sembra un documentario quasi futuristico su quello che potrebbero diventare tutte le grandi città se non vengono governati certi fenomeni come l’immigrazione, le diseguaglianze e l’integrazione tra diverse culture.
Ma è già così anche in Italia. Prendi il Parco Verde di Caivano. C’è la polizia? No, c’è un parroco. È la stessa dinamica che faccio vedere a Cape Town. Un prete che lavora con i ragazzi per tenerli lontani dalle gang, come a Caivano dalla camorra. Un religioso che ci prova sapendo di svuotare il mare con una tazzina da caffè, ma lo fa per una missione. Lo Stato non ce l’ha questa missione.

Come mai?
Agli Stati non interessano queste situazioni perché lavorare con i poveri non è un investimento, è qualcosa che viene considerato a perdere. E invece è una grande miopia, perché sostenere quella massa di persone permetterebbe di creare una grande forza economica con un riverbero che avrebbe un impatto su tutto un Paese.

A un certo punto intervisti due giovanissimi killer di una gang e gli domandi se, potendo tornare indietro, sceglierebbero una strada diversa. E loro ti rispondono di no. Ma questi ragazzi sono ancora recuperabili?
Per me sono insalvabili. Questo lavoro ti rende molto cinico, perché vedi sempre le stesse cose in questi luoghi. Persone che si potrebbero salvare soltanto se arrivasse qualcuno illuminato con tantissimi soldi e idee formidabili, ma sappiamo tutti che non arriverà. E lo sanno anche loro. Per cui questi ragazzi rimarranno nelle baraccopoli dove per sentirsi qualcuno sono costretti a prendere una pistola in mano. Potrebbero anche lavorare in un negozio e non morirebbero di fame. Fare i killer non li rende ricchi, ma li fa sentire qualcuno e non solo uno scarto della società. È un aspetto psicologico importante da capire.

“Meglio bruciare che spegnersi lentamente”?
Esatto, preferiscono la vita breve ma intensa. Si sentono in un film d’azione parallelo dove loro sono i protagonisti, anche se sono pur sempre dei personaggi. È la sindrome del guerriero: se devo vivere nella merda, almeno voglio illudermi di essere qualcuno.

Un altro aspetto che mi ha colpito è l’uso della tecnologia, che in teoria avrebbe dovuto aiutarci e invece sembra un propulsore per l’orrore, tra chat WhatsApp per minacciarsi, video virali degli omicidi e radar per le sparatorie. In più stupisce che tante persone abbiamo lo smartphone, ma non il pane per magiare.
Questo è un aspetto che ho riscontrato in tanti altri luoghi simili. Salta all’occhio perché pensi: oggi non mangi, però hai un cellulare? Anche in questo caso, però, lo smartphone è uno strumento che li aiuta a stare collegati, a sentirsi vivi, a non passare nell’anonimato, una sorta di finestra sul mondo. Forse ti salva dall’essere un povero stronzo che abita in una via anonima lontana da qualsiasi cosa e che aspetta solo di morire per un colpo di pistola. Hanno bisogno di qualcosa con cui evadere, quindi parte del budget preferiscono usarlo più per il cellulare che per il pane. Alla fine quella che passa per i cellulari è tutta una grande illusione, un modo di passare il tempo e non vedere lo schifo che hanno intorno. Ormai è un oggetto immancabile per noi, figuriamoci per loro.


C’è qualcosa che vorresti raccontare e non ci sei ancora riuscito?
La Papua Nuova Guinea mi ha sempre affascinato, perché ha delle zone che non sono intaccate dalla civiltà. Si vive ancora in tribù dove la tecnologia non è arrivata. Un’altra finestra, ma sul passato, che a me interessa parecchio. Anche perché il mondo ormai è tutto uguale, in ogni baraccopoli o periferia trovi dalle bandiere della Palestina a Instagram. A Cape Town la gente mi riconosceva per strada perché ho fatto dei video su YouTube. Perciò vorrei andare dove non c’è ancora nessun legame con il nostro mondo.

Nietzsche scrisse: “E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro”. Dopo averci guardato a lungo, pensi mai che è il momento di smettere?
Assolutamente sì, ho spesso pensato di mollare. Motivo per cui sono in terapia, perché ogni tanto devi parlarne con qualcuno. Non tanto per quello che vedi, ma perché a furia di trattare di ingiustizie, che in fondo è il denominatore comune dei miei lavori, perdi la fiducia nel genere umano. Ti deprimi. Mi capita di flirtare con l’idea di staccare e fare altro.

Il giorno che deciderai di staccare, cos’altro ti piacerebbe fare?
Penso spesso a questa idea un po’ folle di aprire un negozio di fiori-enoteca, dove uno si può sedere a bere un buon vino e ascoltare qualcuno che racconta delle storie. Non so se lo farò mai, ma se un giorno trovassi il coraggio di farlo lo chiamerei “Fiori, vino e parole”.