«Vorrei una Coca-Cola con ghiaccio», dice Paul Thomas Anderson, rivolgendosi al cameriere in piedi davanti al suo tavolo.
«E anche io vorrei una Coca-Cola con ghiaccio», gli fa eco Leonardo DiCaprio, enfatizzando le parole al punto che il celebre regista seduto alla sua destra scoppia immediatamente a ridere mentre il cameriere si allontana.
Anderson si rivolge alla star premio Oscar, che ha sopportato feroci attacchi di orsi e disastrose crociere su transatlantici sullo schermo, e, con la voce di un dodicenne della San Fernando Valley, dice: «Vorrei una Coca-Cola del McDonald’s con ghiaccio!».
«Ghiaccio croccanteee!», risponde DiCaprio, con un tono altrettanto da preadolescente, ed entrambi scoppiano a ridere.
«Aspetta, siamo partiti?», dice Anderson, notando improvvisamente la luce rossa del mio registratore. Si ricompone, in un certo senso. «Ok. Bene. Cosa vuoi sapere?».
Alla fine degli anni ’90, Anderson e DiCaprio furono molto vicini a lavorare insieme al secondo film di Anderson, Boogie Nights. Ma il regista finì per scegliere Mark Wahlberg. L’attore andò a girare Titanic. Il resto è storia, ecc. Negli ultimi decenni, però, i due membri di questa società di reciproca ammirazione hanno continuato a giurarsi di collaborare, in un modo o nell’altro. («La domanda non è: perché mai dovresti pensare a Leo per una parte», dice Anderson a un certo punto. «È: perché non dovresti pensare a Leo? Chi non pensa a lui quando gira qualcosa?»).
Ora, con Una battaglia dopo l’altra, il duo ha mantenuto la promessa e prodotto un film divertente ma teso, epico ma estremamente personale, un critica su un momento contemporaneo e sconvolgente della Storia americana che in qualche modo riesce a evitare di essere esplicitamente politico. È la storia di un ex membro (DiCaprio) di un gruppo rivoluzionario noto come i French 75 che vive in fuga – e deve salvare la figlia adolescente scomparsa, grazie a quelle imprese passate che si sono riaffacciate nelle sua vita – e il film di Anderson prende in prestito numerosi elementi dal romanzo Vineland di Thomas Pynchon del 1990. Ma non è un adattamento, così come non è una satira pura e semplice (nonostante l’aggiunta di una società segreta massonica nota come Christmas Adventurers’ Club) o un thriller. Questo mix inclassificabile di commedia assurda, dramma familiare e scene snervanti è un animale a sé nel panorama cinematografico. Ed è anche innegabilmente brillante.
E sebbene Una battaglia dopo l’altra vanti un cast stellare che include Sean Penn nei panni di un colonnello militare suprematista bianco, Teyana Taylor in quelli di una radicale armata di mitragliatrice, Regina Hall in quelli di una faccendiera clandestina, Benicio del Toro in quelli di un maestro di arti marziali e l’esordiente Chase Infiniti in quelli della giovane figlia del protagonista, il film è davvero il frutto del legame creativo tra il regista e la sua star. Nel corso di due conversazioni – una durante un Q&A post-proiezione e l’altra durante un incontro di un’ora il giorno dopo in un ristorante di Midtown Manhattan, davanti a quei bicchieri di Coca-Cola – Anderson e DiCaprio hanno parlato della loro amicizia, del loro primo incontro (avvenuto tramite LaserDisc), del debito che hanno con il loro defunto amico Adam Somner (il produttore e assistente alla regia morto di cancro alla tiroide l’anno scorso), del loro amore per i personaggi femminili forti, del perché River Phoenix sia il migliore di sempre e di molto altro. Questa intervista è stata condensata e modificata per maggiore chiarezza. Attenzione: sono presenti spoiler sul film.
Hai lavorato a questo progetto, a intermittenza, per un bel po’.
Anderson: Più a lungo di quanto voglia ammettere, è un po’ imbarazzante. Ci avevo pensato dopo Il filo nascosto, e ne avevo parlato con Leo allora… ma non riuscivo a trovare nessuno che interpretasse [il personaggio della figlia] Willa. Poi è arrivata l’ossessione per Licorice Pizza, perché i ragazzi che conoscevo e volevo [Cooper Hoffman e Alana Haim] all’epoca avevano l’età giusta per farlo. Alla fine il mio produttore e assistente alla regia, Adam Somner, ha detto: “Bene, basta, è ora di fare questo film”. Per quanto tempo ci sia voluto, è andata. Sento che l’attesa ha dato i suoi frutti.
Perché questo film vi è sembrato non solo il progetto giusto per entrambi, ma anche quello giusto da fare ora?
Anderson: Forse lui era cresciuto dentro il ruolo. Forse io ero cresciuto dentro e avevo finalmente capito come scrivere la parte. So solo che sento che questa era la cosa giusta su cui collaborare.
Tutti sanno che avete quasi lavorato insieme all’inizio della vostra carriera, e nel corso degli anni avete parlato del desiderio di farlo davvero. Prima di tornare a Leo dopo Il filo nascosto, era un argomento di discussione ricorrente? Vi dicevate: “Ehi, quando troveremo il progetto giusto?”?
Anderson: Dovrei pensarci… Ci vedevamo spesso?
DiCaprio: Non ci incontravamo molto spesso. Ma avevamo molti amici in comune, ogni tanto facevamo una chiacchierata dopo le proiezioni. Da quello che ricordo, hai in qualche modo lasciato intendere che ci sarebbe potuto essere qualcosa di interessante, e quelle conversazioni hanno portato a una sorta di decisione formale.
Anderson: A un certo punto l’ho chiamato e gli ho detto: “Ho quest’idea, non so ancora cosa sia…”. Poi, quando si è scoperto che Licorice Pizza sarebbe stato il mio prossimo progetto, l’ho richiamato e gli ho chiesto: “Posso avere il numero di telefono di tuo padre?” (George DiCaprio interpreta il venditore di materassi ad acqua in Licorice Pizza, nda)
DiCaprio: È per questo che sono così grato ad Adam [Somner]. Aveva già lavorato con entrambi [in film separati] e mi disse: “Senti, so che avete sempre desiderato fare qualcosa insieme, dovete farlo accadere ora”. È merito suo.
Cosa pensi che Adam abbia visto in voi due che gli ha fatto dire questa cosa?
Anderson: È molto difficile da descrivere. Sapeva benissimo come mi piace lavorare e cosa mi attrae, e sapeva benissimo come lavorava [Leo] e cosa attraeva lui. Sapeva che c’era ammirazione e rispetto reciproci. Ma Adam era lì per dire: “Fidati di me, ti piacerà da morire. Sarà un’esperienza fantastica”.
DiCaprio: Credo che sapesse che non mi sarei sentito solo un ingranaggio in una macchina sul set di Paul, il che… non mi piace molto. E che avremmo avuto lo spazio per cercare e sperimentare.
Leo, una volta che hai capito che sarebbe successo davvero, che tipo di ricerca hai iniziato a fare per interpretare il tuo personaggio, Bob?
DiCaprio: Ho letto Days of Rage, questo fantastico libro [di Bryan Burrough] sull’underground radicale degli anni ’60, e mi ha dato un’idea di chi fosse questo personaggio, Bob. Ma sono dovuto andare a Eureka, questa piccola città nel Nord della California, per capire la cultura delle persone in questi ambienti isolati. Era tipo: “Ok, capisco come potrebbe essere cambiato ora, come potrebbe aver cambiato la sua visione del mondo, anche se la sua paranoia è ancora lì”. Ho pensato solo: “Oh, c’è un’intera comunità di persone come Bob qui”. Stanno fuggendo dalla società, e sono quelli che chiami “hipneck” – metà hippie, metà redneck.
“Siamo un po’ libertari, siamo favorevoli ai diritti dei transgender. Basta che non ci tassate”.
DiCaprio: “Non calpestateci, ma siamo anche svegli” (ride). Sì, è così.
Anderson: Leo è un buon collaboratore, ma ha questa cosa fastidiosa che fa quando dice: “Senti, non sono uno scrittore, ma…” (ride). Di solito è un pretesto per farti sapere: “Ho altre idee su diverse cose” – e sono buone idee!
Parliamo un attimo del look di Bob. Come vi è venuta in mente quella specifica combinazione di barba, accappatoio e coda di cavallo da samurai?
DiCaprio: Questo film è probabilmente quello con le conversazioni più approfondite che abbia mai avuto sul look di un personaggio.
Anderson: Davvero?
DiCaprio: Sì! De Niro parla sempre delle scarpe del personaggio, giusto? È uno dei suoi modi per entrare nel ruolo. Ma questo era tipo il costume da supereroe del [mio] Bob. L’accappatoio è come il suo mantello. E c’erano molte diverse versioni di come sarebbe apparso Bob una volta isolatosi in questa comunità. I suoi baffi sono ancora gli stessi. Ma poi è entrata in gioco la vestaglia. Doveva esserci un poncho…
Anderson: Giusto!
DiCaprio: Ma appena hai visto la vestaglia, ricordo che hai detto: “Ecco. Mettila così”. E poi, non so perché, ho avuto questa visione di quegli occhiali da sole ortopedici che si adattano sopra gli occhiali normali – immagino che fosse un elemento fantascientifico, alla Star Wars. Danno l’impressione che Bob stia scomparendo, quando in realtà lo fanno sembrare molto più appariscente.
Anderson: Quando mi hai mandato quella foto pensavo fossi, tipo, da un oculista! Mi ha mandato una foto con quegli occhiali e all’improvviso mi sono strozzato con i miei fottuti cornflakes. E poi… prendi quell’abito e fai svapare il tizio? È perfetto. Voglio dire, uno che svapa è già di per sé ridicolo (fa una pausa drammatica). Ti sto guardando, Leo (ride). Ma un tizio che è un po’ rivoluzionario e svapa? È fottutamente divertente.
Leonardo DiCaprio in ‘Una battaglia dopo l’altra’. Foto: Merrick Morton/Warner Bros.
Cosa c’era di Chase Infiniti che vi ha fatto pensare, dopo una lunga ricerca di qualcuno per interpretare Willa, che fosse lei quella giusta?
Anderson: Mi ha ricordato le mie figlie. Mi ha dato l’impressione di essere un’amica delle mie figlie, e mi sono sentito subito in sintonia con lei come essere umano. Ho trovato una persona con un talento incredibile, una vera consapevolezza emotiva e le capacità fisiche per fare tutto ciò che deve fare nel film. Ma in realtà, più precisamente, mi interessava molto trascorrere un anno con lei.
DiCaprio: Doveva avere questa qualità unica che credo Paul stesse cercando, un mix di resilienza, tenacia e innocenza. Era disposta a dare tutto per rendere realistiche quelle scene d’azione, e poi aveva quella grinta dentro di sé. Ma durante le prove, ti sentivi davvero con una sensazione del tipo: “Oh, Dio, devo proteggere questa ragazza a tutti i costi”. L’intero film si basa su questa sensazione.
“Non farsi mettere i piedi in testa” ed “essere vulnerabile” sono una combinazione difficile da trovare.
Anderson: Esatto.
Chi ha avuto l’idea di coinvolgere Teyana e farle interpretare la leader del French 75, Perfidia Beverly Hills?
Anderson: Credo di essere stato io? Avevo la sensazione che Perfidia dovesse sentirsi la protagonista, l’eroina del film. Sai, avrebbe potuto esserci Leo, avrebbe potuto esserci Sean, ci sono tutti questi attori famosi, ma vedi Teyana e senti una cosa tipo: lei è la star del film. Volevo che il pubblico pensasse che questo è davvero un film su una rivoluzionaria nera. “Be’, c’è Leo, ha un sacco di esplosivi in una carriola, ma cosa sta combinando?”. Funziona come una sorta di depistaggio. È la prima persona che vedi sullo schermo, il nostro ingresso nella storia, e visto che è Teyana, coinvolge immediatamente [il pubblico]. È qualcuno con così tanta spavalderia che all’improvviso devi giocare in difesa. È stata una sfida entusiasmante realizzare questo cortometraggio allungato che è la saga di Perfidia, dove il tizio che in qualsiasi altro film sarebbe stato “Comparsa n° 6” è quello che finisce per sopravvivere e ha la gallina dalle uova d’oro. È stata una struttura divertente con cui giocare.
In tanti si chiedono cosa possiamo fare per contrastare questo momento strano e incasinato della Storia americana. E Una battaglia dopo l’altra ha una risposta a questa domanda: prendetevi cura della vostra comunità, dei vostri cari e di voi.
DiCaprio: Sì, sono d’accordo.
Anderson: Credo di aver notato nelle ultime settimane, da quando abbiamo iniziato a proiettare il film, che forse non va di moda fare un film ottimista in questo momento. Era un rischio. Va più di moda essere irritabili o qualcosa del genere. Ma c’è una vena di ottimismo in questa storia. O almeno io spero che ci sia, perché la penso così. Voglio dire, ho quattro figli. Meglio essere fottutamente ottimisti. È divertente, però, perché quando abbiamo fatto una proiezione alla Directors Guild e Steven Spielberg moderava una sessione di domande e risposte, ha detto: “Non sapevo se sarebbe successo qualcosa di terribile quando il padre finalmente raggiunge la figlia. Non mi fido abbastanza di te e delle tue storie, perché possono arrivare a dire cose orribili, e forse qualcosa di orribile stava per accadere”.
Non è che tu faccia questi film dolorosi in stile Michael Haneke, Paul!
Anderson: Vero. Ma l’ho comunque preso come un complimento (ride).
Paul Thomas Anderson dirige Leonardo DiCaprio e Benicio del Toro in ‘Una battaglia dopo l’altra’. Foto: Merrick Morton/Warner Bros.
Ora avete entrambi cinquant’anni e fate questo lavoro da decenni. Com’è cambiata la vostra motivazione in termini di ciò che volete realizzare creativamente e dove volete investire le vostre energie, rispetto a quando avevate vent’anni?
DiCaprio: Quando ero più giovane, avevo questa sensazione – forse l’hai provata anche tu, Paul – di aver vinto alla lotteria. Era un po’ come dire: “Non posso credere di lavorare in questo settore e di poter prendere decisioni da solo”. E c’è questo ritmo frenetico che tieni. Ma ora, sai, invecchiando credo di essere diventato ancora più… non voglio dire selettivo, ma devono entrare in gioco tutte queste diverse componenti per fare un film e sperare che non solo funzioni ma che duri, anche se non ci sono garanzie di nessuna di queste due cose.
Anderson: Non è che mi senta diverso da prima per quanto riguarda la scintilla che ha dato il via al film, o la lotta per realizzarlo, o l’entusiasmo che ne deriva. Ma la cosa che apprezzo di più ora e che mi entusiasma davvero è l’amicizia, il cameratismo e la collaborazione che si creano quando si lavora. È questo che mi fa alzare dal letto la mattina. Forse agli inizi ti senti più come se avessi vinto alla lotteria, ma ora la gioia di realizzare il film in sé è molto più profonda e forte. E in particolare il percorso di questo film, grazie ad Adam e a quello che è successo (Somner è morto il 29 novembre 2024; il film è dedicato a lui, nda), ha certamente messo in luce quanto siamo fortunati ad avere questo gruppo di persone con cui realizzare un film. Voglio dire, senza sembrare totalmente ridicolo, che si cerca sempre di fare qualcosa di grandioso. Ma in questo modo puoi anche tranquillamente dire: “Se va bene, benissimo; se non va bene, ok, almeno ci siamo divertiti un sacco. Tutti insieme”.
È un buon atteggiamento.
Anderson: Non so se sono sempre così zen (ride). Ma andare al lavoro ogni giorno con Adam in particolare, dato che era malato, e apprezzare ogni singolo momento e cercare di assaporare ogni singola cosa mi ha fatto davvero contare le mie stelle fortunate e apprezzare la gioia della collaborazione. Ma penso anche che ci sia un piccolo problema nella tua domanda.
In che senso?
Anderson: Perché dai per scontato che questa non sia una dipendenza, sai. Non è proprio un lavoro, questo. È una dipendenza dall’amore per questa cosa che facciamo. Fare film diventa come mangiare e bere. Non c’è scampo.
DiCaprio: Tornando all’inizio della nostra conversazione, stamattina ho pensato a quando ho incontrato Paul per la prima volta e stavamo parlando di fare Boogie Nights insieme. Non so se te lo ricordi, Paul, ma ci siamo incontrati a casa di mia madre e tu sei arrivato con…
Anderson: … un LaserDisc di Toro scatenato.
DiCaprio: Sì! Te lo ricordi! E stavamo parlando della sua idea di come sarebbe stato questo personaggio nel mondo del porno. E io ho pensato: “Sembra incredibilmente intrigante, così emozionante e spaventoso”. Non è successo, ma è stato fantastico vedere come si è svolta la sua carriera, e ho avuto la sensazione che fosse una cosa strana che prima o poi sarebbe successa. Avrei voluto che succedesse. Quel film [Boogie Nights]… non so perché, ma ha definito il cinema per la mia generazione in molti modi, e poi per anni abbiamo parlato da amici, e alla fine è successo questo.
Possiamo parlare un attimo di quella scena finale dell’inseguimento sulle colline? Dove l’avete girata?
Anderson: Ci siamo spostati dall’estremità più settentrionale a quella più meridionale della California: quelle colline sono vicine al confine con l’Arizona. Sapevamo che dovevamo far sì che il nostro eroe maldestro raggiungesse la nostra vera eroina, che è Willa. Siamo in viaggio, c’è un inseguimento in auto con una terza persona, e abbiamo queste dinamiche. È stato semplicemente grazie alla fortuna e agli dèi del cinema se abbiamo trovato queste incredibili colline ondulate. Se metti il telefono sul cruscotto della tua auto, ti rendi conto di quanto diventi spaventoso quel punto di vista: stai guidando a 135 chilometri all’ora e non riesci a vedere cosa c’è oltre quella collina, né puoi vedere cosa c’è dietro di te per la maggior parte del tempo. Quel luogo si è in un certo senso rivelato tramite un location scout, ed è stata un’ottima idea.
DiCaprio: Abbiamo discusso a lungo su cosa sarebbe successo in quel momento finale. Abbiamo proposto un sacco di opzioni.
Anderson: Sì, be’, stavo saltando di brutto quella parte della storia (ride). Credo che avessimo fatto una versione in cui, appena [Bob e Willa] si vedono, si abbracciano, e l’abbiamo riguardata il giorno dopo nei giornalieri. E mi è venuto in mente: aspetta, c’è dell’altro.
DiCaprio: L’abbiamo rifatta?
Anderson: Sì, l’abbiamo rigirata, e penso che il risultato sia molto più convincente. Immaginare la possibilità di Willa, che finalmente è in grado di prendere il controllo, di ribaltare tutto, di essere l’aggressore, di prendere una posizione di superiorità, è diventato molto emozionante per noi. Poi la parte successiva è semplicemente: chi uccide chi, e come? Qualcuno deve sparare a qualcun altro, e qualcuno deve andarsene! (ride) Attraverso la ricerca e le prove, abbiamo scoperto che il momento più importante è quando [Willa] viene messa nella posizione di dover pagare per i peccati di sua madre e di suo padre. E la cosa successiva che ci è venuta in mente è stata: “Be’, se sa chi è [suo padre], la domanda più importante [che fa a Bob] è: chi diavolo sei tu?”. E la risposta è…
DiCaprio: “Sono tuo padre”.
Anderson: “Sono tuo padre”. Questo genere di cose è nato dall’essere lì fuori, dall’esercitarci, dal giocare e dallo scoprire cose nuove con loro. È imbarazzante ammetterlo, ma mentre ci mettevamo in viaggio per girare questo film, davvero non avevamo tutto questo a portata di mano. Ma avevamo girato abbastanza e conoscevamo queste persone abbastanza bene da sapere che qualcosa doveva succedere, e siamo stati tanto fortunati da trovare quella che ritengo sia una soluzione fantastica a tutto.
DiCaprio: È stata proprio questa apertura nel porre domande e nell’inventare cose nuove che ha reso le riprese un’esperienza così diversa. Ecco perché quando Benicio è arrivato… Guarda, Paul ci stava lavorando da molto tempo, c’erano molte parti in sviluppo e molti livelli di complessità. Eravamo circa da tre mesi dentro al film quando Benicio si è presentato, e ha avuto subito tutte queste idee. L’energia è cambiata. All’improvviso è stato come se [del Toro] e io fossimo in un road movie alla Cheech & Chong per circa una settimana (ride). In alcuni momenti, sembrava tipo: “Ci stiamo già lavorando da un po’”. Con Paul, era come se dicessimo: “Ok, voi ragazzi capite questi personaggi. Vediamo cosa succede”.
Anderson: C’era la sensazione che il film avrebbe potuto prendere una direzione più cupa, e non andava bene a nessuno dei due. E poi, quando è arrivato Benicio e ho visto come interagivano i loro personaggi, ho pensato: “C’è un’altra opzione”. Mi è sembrato meglio. Aveva più senso.
Leo, c’è un momento straziante in cui il tuo personaggio parla di non poter acconciare i capelli di sua figlia. Lo stesso in cui Benicio dice: “Non sparire, non mollare, Bob”. È proprio questo il rapporto. È lui che continua a riportarlo nel presente.
DiCaprio: Quel riferimento ai capelli viene dal padre di Maya, giusto?
Anderson: Sì. Voglio dire, non è un segreto che Maya [Rudolph, la compagna di Paul] abbia perso sua madre [la cantante Minnie Riperton] quando era molto piccola. E il padre di Maya ha avuto davvero difficoltà, essendo un padre single, a pettinarla. Perché, sai, posso dirtelo: da padre di ragazze meticce, è quasi impossibile per me pettinare i loro capelli. È stato qualcosa che mi ha colpito come padre, e che sapevo essere una sfida per lei e per lui. È una frase molto personale per me.
Leo, prima hai menzionato Days of Rage di Bryan Burrough…
Anderson: La cosa fantastica di quel libro è che non è solo molto esaustivo su quell’epoca ed è così ben scritto. [Burrough] fa una cosa fantastica alla fine: nelle ultime cinque o sei pagine intervista i figli di questi rivoluzionari e i figli dei poliziotti uccisi da questi gruppi. Parla con questi uomini e donne di 30-40 anni che sono cresciuti senza genitori per questo motivo, ed è stato un modo incredibilmente commovente di concludere quella storia. È un libro ben documentato, ma il fatto che lo concluda con così tanto cuore e umanità è stata una grande influenza per noi.
C’erano altri punti di riferimento a cui vi siete ispirati?
Anderson: È sempre una buona idea riguardare La battaglia di Algeri come esercizio cinematografico per emozionarsi. E chiaramente, avevamo la nostra personale versione della Battaglia di Algeri nella grande sequenza di Benicio, dove ci sono i tunnel sotterranei e l’inseguimento, con tutta l’azione che si svolge al suo interno.
DiCaprio: L’altro grande riferimento è stato Vivere in fuga di Sidney Lumet.
Un gran film sulla vita da “nascosti” e sui radicali esausti, sì.
Anderson: C’è una scena in cui [il personaggio interpretato da] Christine Lahti deve andare a trovare suo padre e chiedergli di prendere suo figlio. Lui dice: “Guarda, l’ultima volta che ti ho visto mi hai dato del porco fascista. Questo è da ricchi, vero?”. E poi, alla fine, lei inizia ad alzarsi e lui la afferra… oh, mi uccide. Mi vengono le lacrime agli occhi solo a pensare a quella scena. Vedi la sua prospettiva, quanto sia affranto per quello che lei gli ha fatto. E capisci il punto di vista della figlia, che era: avevo solo 18 anni, volevo cambiare il mondo, ero solo una bambina. Eppure i peccati che la perseguitano ora vengono trasmessi ai suoi figli.
DiCaprio: E River Phoenix in quel film…
Anderson: Potremmo dedicargli un intero capitolo di questa intervista. (Rivolgendosi a Leo) Parlo a nome tuo e di molte altre persone quando dico che era un eroe. Era semplicemente più grande di noi, ed era una specie di luce guida con le sue interpretazioni e le sue scelte.
Quel film pone una domanda simile a quella che fa il vostro, ovvero come ci si impegna per una causa senza esaurirsi?
DiCaprio: È per questo che Days of Rage è stato così fondamentale per me. In quel libro si percepisce davvero l’estremismo politico di queste persone, così come il senso di colpa che provavano per aver ucciso persone che in realtà erano proprio come loro. La domanda per me è sempre stata quanto Bob fosse cambiato in quei 16 anni, da giovane rivoluzionario a esaurito. E per me, la risposta è sempre stata: “Molto”. L’altro film che continuavo a guardare mentre giravo Una battaglia dopo l’altra è Quel pomeriggio di un giorno da cani. In parte per l’interpretazione di Al Pacino, così nervosa, e in parte per le scene delle telefonate.
Anderson: Quello è il massimo del cinema delle buone telefonate, amico! (entrambi ridono) Ma tornando al punto, sai, come fai a non arrenderti? Che tu stia parlando di grandi cose, di combattere una battaglia dopo l’altra per com’è il nostro mondo, o di battaglie quotidiane, dall’alzarsi la mattina e semplicemente prendere il cappotto, accompagnare i figli a scuola, lavarsi i denti e sbattere l’alluce contro uno spigolo. Voglio dire, questo è il tuo lavoro. Combatti queste battaglie quotidiane. Sii gentile. Tieni la testa bassa. Vai avanti con la prossima battaglia, ma non arrenderti.
