Fino a 46 anni Pietro Marcello non aveva mai avuto un produttore. Più indie di così: «Tornato dalla Francia, ero stanco di fare tutto da solo, regia, montaggio, produzione. Avevo bisogno di qualcuno che mi proteggesse, mi affiancasse, che mi stesse vicino in quel senso». Ovviamente gli sono arrivate diverse proposte, «ma ho scelto Carlo: sapevo che era il produttore giusto per me».
A sua volta Degli Esposti, fondatore di Palomar, era rimasto folgorato da Bella e perduta (2015): «Un film apparentemente semplicissimo, che usciva dal reale ed entrava nel fantastico. Alla fine, quelle bufale erano di famiglia». Dov’è finito il bufalotto? «Me lo sono preso, ovvio. Che dovevo fare?», sorride Marcello. E poi l’adattamento di Martin Eden (2019): «Con quella capacità di muoversi tra presente e passato… insomma, una maestria tutta sua».
Da questa sintonia è nato Duse, in concorso a Venezia 82 (e in sala dal 18 settembre), che in realtà non è il loro primo progetto insieme: «Avevamo cominciato a scrivere un’altra sceneggiatura, su cui torneremo dopo l’uscita di questo film», racconta Carlo. Ma poi creando una inedita sinergia tra una grande produzione come Palomar e una società arthouse come Avventurosa, si sono concentrati sugli ultimi anni di Eleonora Duse «con grande entusiasmo, insieme a Letizia Russo, autrice teatrale, e Guido Silei». A quel punto è toccato al produttore costruire «una macchina per un film d’epoca, ma che mantenesse quel rapporto con il “selvatico” indispensabile a Pietro per lavorare. Che per lui significa sperimentare, mantenere la libertà espressiva».
Marcello conferma: «È stata la prima volta che mi sono dedicato esclusivamente alla regia. Quando c’erano piccoli problemi da risolvere, sapevo chi chiamare. Sembra una sciocchezza, ma per me è importantissimo». Il volto della Duse? «Ho subito pensato a Valeria (Bruni Tedeschi), il film è stato proprio concepito su di lei in scrittura. È un’attrice straordinaria». Degli Esposti aggiunge: «Sembra nata per interpretare questo film. E l’ha fatto con una sincerità espressiva impressionante, anche con il coraggio di invecchiarsi». Di nuovo Marcello: «Abbiamo lavorato tutti in uno stato di grazia. Io poi, stando sempre in macchina e mai al monitor, ho avuto un rapporto diretto con i miei attori: loro cercano la macchina, io cerco loro. È il mio modo per approcciarmi alla finzione: vengo dall’archivio, dal documentario… è lì che il mio cuore continua a battere».
Eppure sul cinema del reale è netto: «A differenza di tanti altri, io non ci credo. Esiste la trasposizione del reale attraverso lo strumento del cinema. Il montaggio è arbitrario, è sempre un punto di vista. C’è sempre una visione, anche quando Joris Ivens, Chris Marker, Paul Meyer facevano il cinema con il metodo del documentario, trasponevano la realtà». Duse (prodotto da Palomar – a Mediawan Company –, Avventurosa con Rai Cinema e con PiperFilm in co-produzione con Ad Vitam Films) segna appunto una svolta nel percorso produttivo di Marcello: «A me non basta il rapporto economico con il produttore per fare il film, ho bisogno di condividere uno sguardo sul mondo. Il cinema non è soltanto industria, è anche una vocazione comune: non si utilizza l’io ma il noi». Carlo racconta divertito: «Pietro è rimasto interdetto solo quando l’ho portato a pesca di tonni. Forse non credeva che ce l’avremmo fatta, ma appena abbiamo preso un tonno di un centinaio di chili, ha telefonato al suo agente e gli ha detto: “Se chillo piglia i registi come acchiappa i tonni, siamo spacciati”. Insomma, siamo amici prima di tutto».
Essere indipendenti, in fondo, vuol dire anche questo: scegliere. Scegliersi. E farlo in due. «Ho fatto una lunga gavetta, realizzando film con 500 mila lire, girando con la pellicola scaduta. E in questa nuova esperienza non ho trovato nessun limite alla mia indipendenza, anche perché sono stato educato fin da piccolo a dire “no” a quello che non mi corrisponde. E nulla è cambiato, anzi, questa volta avevo accanto qualcuno di deciso e preparato con cui confrontarmi». Degli Esposti aggiunge: «Indipendente significa esserlo con la testa e con l’anima. Io resto indipendente anche se ho una società che negli anni si è irrobustita. E lo sono soprattutto nel cinema. In Palomar facciamo soltanto i film che ci convincono e, soprattutto, con gli autori che ci piacciono. Amo le storie che spaventano i miei competitor: dentro a quella sensazione di rischio c’è una delle essenze del cinema».
Per dirla con Marcello: «Non si può vendere l’anima. Per fare un film come Duse è inevitabile avere alle spalle un vero budget. Ma io continuo anche a realizzare piccoli film di archivio, documentari, inchieste che raccontano il mio modo di fare cinema… Se non li facessi, il mio diventerebbe un semplice mestiere». E se il cinema indie è sperimentazione, rimane però anche responsabilità: «Ho imparato fin da giovane che i soldi investiti nei film sono sacri e vanno spesi bene. Per me anche un ritardo è una vergogna. Come dicevano i registi della Nouvelle Vague: non bisogna mai mettere la produzione in difficoltà. È una sorta di verbo divino».
Proprio lì, nel rispetto della fatica e nella condivisione, c’è la chiave del la collaborazione più proficua. «Capita pure che io e Carlo ci mettiamo al montaggio insieme, ci divertiamo, dialoghiamo: tante intuizioni su questo film sono state le sue». Nessun legame commerciale, insomma: «Non parliamo mai di questi aspetti: discutiamo della scena, delle cineprese oppure delle nostre passioni come le piante e l’arte dell’innesto. Ho dei principi un po’ all’antica, a volte basta una stretta di mano per instaurare un rapporto di completa fiducia». Come in questo caso. «Penso di essere molto aperto mentalmente perché un regista si nutre del dubbio, che è linfa vitale, non dell’insicurezza. Non si può essere insicuri quando si fa un film. Ma coltivare il dubbio è fondamentale. E nella realizzazione di un film, è importante che tutti condividano i propri dubbi e gli interrogativi».
E i festival? Servono ancora al cinema indipendente? «Certo, anche se per due come noi è una sofferenza vestirsi da pinguini», scherza Carlo. «Ma i festival sono anche uno specchio per confrontarsi con il resto del mondo. Uno dei rischi più grandi per registi e produttori è l’illusione di essere soli, che si infrange nel momento in cui il film incontra gli spettatori. Ai festival invece ti rendi conto immediatamente dell’esistenza di tante anime e hai l’opportunità di studiarle, con un mantra che condivido con Pietro: arrivare al pubblico nel modo giusto». Pietro Marcello rilancia: «Una volta i film servivano a creare dibattito, discussione morale, protesta. Oggi questo, se avviene, accade in modo molto marginale. Continuo però a pensare che il cinema resti un mezzo potentissimo. Già nel ’75 Guy Debord scriveva che il cinema era morto. Forse è arrivato il momento di interrogarci su questo nodo. Viviamo in una società contrassegnata dalla cultura del narcisismo, in cui anche per noi è complicato capire da che parte stare».
Degli Esposti sembra averlo capito già da tempo: «Io sono stato forse uno dei primi a intuire la forza dei social con prodotti televisivi come Braccialetti rossi. E ora ho deciso di allontanarmi dai social perché stanno diventando uno strumento di potere. Forse è il momento di ricominciare ad avere un rapporto diretto con il pubblico. Trovo più raffinato ed etico andare nelle sale, guardare negli occhi le persone e dire “C’è una storia che forse può interessarvi”». «Quello che afferma Carlo è emblematico», chiude il cerchio Marcello. «Ritirarsi dai social oggi è un gesto sano, necessario. Ma ciò che fa davvero paura è pensare a cosa sarà il futuro per le nuove generazioni. Continuiamo ad avere un mandato, a mantenere un punto di vista sulle cose. Continuiamo a dire no. A esistere, a definirci, a fare qualcosa che sia davvero diverso dagli altri».
L’intervista a Maura Delpero e Leonardo Guerra Seràgnoli è tratta dal nuovo numero speciale di Rolling Stone, Il Cinema, in edicola dal 25/08 e acquistabile nello store on-line.
