Ci sono poche case history, nel cinema italiano recenti, come quella di Vermiglio. Dal Leone d’argento – Gran premio della giuria a Venezia nel 2024 alla segnalazione italiana per l’Oscar, con la candidatura mancata per un soffio. Fino ai 7 David di Donatello, tra cui miglior film, miglior regista e miglior produttore. In mezzo, il successo ai festival e con il pubblico, anche il nostro: 2 milioni e 600mila euro l’incasso in Italia, una cifra importante per un titolo come questo.
Tutto fatto secondo una traiettoria inusuale, da queste parti. Nel solco di un indie che, più che cercato, si potrebbe dire genetico. «Cosa significa essere indipendente oggi? In generale vuol dire essere indipendente da una serie di logiche che costringono il lavoro, o che quasi lo ricattano», commenta la regista Maura Delpero, ora sulla mappa degli autori da tenere d’occhio del panorama globale (e tra i membri della giuria principale della prossima Mostra di Venezia). «Significa continuare a onorare e difendere il fatto che stiamo parlando di arte. Il nostro festival più importante in Italia, che è anche uno dei festival più importanti del mondo, è per sua definizione un festival dell’arte cinematografica e non dell’intrattenimento cinematografico. Fare cinema indie significa fare una ricerca identitaria, pensando l’opera in un’ottica di ascolto e di rispetto verso l’opera stessa. E ovviamente produrre in modo indipendente vuol dire dare la priorità al linguaggio autoriale e alla differenza tra un’opera e l’altra».
Leonardo Guerra Seràgnoli, regista anche lui (il suo ultimo film è l’adattamento degli Indifferenti di Moravia con Valeria Bruni Tedeschi), è nel team di produttori che hanno dato vita a questo successo, insieme a Francesca Andreoli, Santiago Fondevila Sancet e la stessa Delpero, insieme fondatori di Cinedora, che «è nata con Vermiglio», racconta lui. «Ci siamo detti: perché non facciamo qualcosa insieme? Però avevamo delle lacune, io e Maura eravamo due autori, e lì allora si è inserita Francesca. Santiago ha portato la sua esperienza di produttore teatrale argentino. Indie per me vuol dire esattamente questo, rimboccarsi le maniche e collaborare in modo orizzontale: se hai questo tipo di approccio al lavoro, lo puoi fare con qualsiasi livello di budget. Il tema economico esiste, ma il vero costo oggi è il talento, è il tempo dedicato alle persone che apportano valore al film. Un approccio indie è quello che usufruisce di altri punti di vista, che si allarga, che sa aspettare».
Il “contro”, se c’è, è appunto che «questo è un cinema più difficile da finanziare, per cui ci vuole più tempo», lo segue Maura Delpero. «Che l’industria scenda a patti con un’opera indipendente è sempre una scommessa. Però credo che si debba lottare per difendere questa forma produttiva, perché i risultati più belli spesso arrivano da lì. Non voglio demonizzare i prodotti di intrattenimento, semplicemente li considero altro. Poi certo, fare un film non è mai un processo “puro”, bisogna interfacciarsi con una serie di condizionamenti, di compromessi anche, ma a volte anche certi limiti aiutano il film a trovare sé stesso. Ecco, credo che in partenza il cinema indipendente, in Italia ma anche altrove, è quello che cerca di rispettare il suo cuore originario, l’ispirazione e la necessità che lo hanno motivato». Tra i cuori identitari di Vermiglio, girato tra le montagne trentine, c’è anche il dialetto. «Se avessimo ceduto e l’avessimo girato tutto in italiano», va a ruota Guerra Seràgnoli, «sarebbe stato un film completamente diverso. Invece siamo riusciti a proteggerlo. Il fatto di avere il pieno controllo su un film aiuta a non dover cedere a certe dinamiche dell’industria, che spesso tende a non rischiare, soprattutto nello scenario attuale in cui tutto è cambiato».
Maura Delpero viene dal documentario, il suo primo lungometraggio di finzione (Maternal, 2019) continuava a dialogare con il cinema del reale, e anche Vermiglio va in quella direzione di sguardo. Anche in quello sta l’andare controcorrente rispetto al mainstream. «È una pratica che aiuta a mettersi in ascolto, che insegna l’umiltà. È credere al fatto che la vita sia sempre più potente, che sia lei a guidarti, e nella dialettica tra i desideri demiurgici del regista e l’incontro con il reale si crea un dialogo che posiziona il regista in un’ottica anche etica per me molto interessante. Anche Vermiglio è partito dalla verità di quel territorio specifico, e si è chiesto cosa quel territorio gli potesse dare. È uno sguardo, quello del cinema del reale, dove la ricerca non si quieta, non ha fine, ed è proprio quello che a volte si rischia di perdere nella macchina pesante del cinema di finzione».
Poi però, dal locale, Vermiglio è andato nel mondo. Ma in un modo naturale, forse perché, dice Guerra Seràgnoli, «è un film molto italiano, sì, ma io lo trovo fondamentalmente europeo, anche per la sua storia di finanziamenti e interesse sollevato fin dall’inizio in vari Paesi. E, per natura, globale. Sarà perché noi stessi siamo un po’ dislocati: io vivo a Londra, Maura e Santiago stanno per gran parte dell’anno a Buenos Aires, e tutti noi abbiamo amici produttori di tante parti del mondo con cui ci confrontiamo continuamente, e con cui si ha sempre l’idea di poter fare cose insieme».
«Nel mondo ho sentito molte reazioni di fronte a Vermiglio, forse perché è un film che tiene insieme una “macro” e una “micro” storia», ripensa Delpero. «In generale, hanno apprezzato un certo rigore stilistico, la sensibilità verso i dettagli, le stratificazioni di significato, il lavorare su più personaggi senza perdere il fuoco del racconto. Ci sono tante cose che mi sono state dette e ripetute e che per fortuna coincidevano con una serie di obiettivi che avevo io stessa, perciò sono molto contenta che sia stato recepito nello stesso modo in tanti luoghi diversi. Penso che tutto questo faccia parte di quello che si diceva prima a proposito del cinema indipendente. Molti mi hanno detto: “Grazie che hai fatto un film così”, come se avessero sentito che c’erano delle mani che avevano impastato a lungo per dare vita a un’opera in cui c’è arte e c’è artigianato. E quel pane però sa ancora di pane, non si omologa, non fa l’effetto di uno di quei prodotti congelati che all’inizio sembrano buoni, ma poi ti rendi conto che hanno tutti lo stesso sapore. Si è sentito un film che aveva a cuore la propria identità e che quella identità sapeva difenderla. Si è sentito un cinema che prende una posizione, rispetto a quello che è – che può essere – il cinema d’autore oggi».
L’intervista a Maura Delpero e Leonardo Guerra Seràgnoli è tratta dal nuovo numero speciale di Rolling Stone, Il Cinema, in edicola dal 25/08 e acquistabile nello store on-line.
