A un certo punto, Carolina Cavalli ha visto una story sul profilo Instagram di Sean Baker. Le faceva i complimenti per il suo primo film, Amanda, passato nel 2022 alla Mostra di Venezia nella sezione Orizzonti Extra e letteralmente diventato il dark horse (scusami, Cavalli) che ha infiammato proiezioni, festival, profili Letterboxd in tutto il mondo. E pure l’attenzione di futuri premi Oscar. Due anni dopo, la stessa autrice milanese avrebbe vinto il premio John Cassavetes agli Spirit Awards, massimi trofei del cinema indie americano, come sceneggiatrice di Fremont, altro piccolo grande titolo diretto dal fedele collaboratore Babak Jalali, che monta tutti i suoi film.
È, per vocazione, una ragazza del mondo, Carolina, che difatti nel suo nuovo film – Il rapimento di Arabella, prodotto da Elsinore Film con The Apartment e PiperFilm, a Venezia 82 stavolta nel concorso di Orizzonti – è riuscita a piazzare Chris Pine, accanto alla grande protagonista che è la sua musa Benedetta Porcaroli, mai diretta così bene come da lei.
Tiriamo fuori subito anche con lei la parolina magica: indie. «Per me indie non riguarda per forza un contenuto o un’estetica», dice Carolina, «però è ovvio che in un certo cinema ci sono possibilità di contenuto e di estetica diverse, garantite dalla sua modalità che è fondamentalmente libera. Tutto questo nonostante i budget siano solitamente piccoli: e questo può sembrare un limite, ma spesso aiuta a sviluppare la creatività e un modo non convenzionale di raccontare». Il suo compagno di ventura, in questo modo non convenzionale di pensare il cinema, è Antonio Celsi, giovane produttore a capo di Elsinore Film, che fa dei piccoli budget non un vanto, ma il terreno su cui crescere nuovi autori. «È ovvio che tutti vorrebbero – e anche noi vorremmo poter dare – 3 o 4 milioni per girare un’opera prima, ma questo porterebbe a rischiare di meno. La nostra sfida è puntare su budget contenuti, almeno all’inizio, e da lì far crescere i nuovi autori. L’idea è guardare un po’ più in là nel tempo, cosa che molti hanno smesso di fare».
È questo il vero investimento. «Con un modello come questo puoi produrre molto di più, scoprire più talenti, permetterti più facilmente di stringere un patto di fiducia con nomi emergenti. È un modello start-up, non so come chiamarlo altrimenti. E poi c’è un’altra ambizione». Fa una pausa. «Pensare, sempre guardando più a lungo termine, che ogni film – e ogni autore – è diverso dall’altro. Tutti oggi hanno la stessa idea di successo: andare ai festival, avere pubblico in sala, vincere i premi per il miglior esordio. Ma ci sono dei film il cui successo è principalmente il riconoscimento del pubblico, altri per cui è quello della critica, per altri ancora è la circolazione internazionale. Soprattutto all’inizio della carriera di un nuovo regista, per me è fondamentale avere con lui o con lei una conversazione in cui capire insieme qual è il suo vero potenziale, che sia d’autore o commerciale. Anche arrivando a riconoscere insieme che la direzione del suo progetto non è per forza il festival, oppure che ha un taglio troppo “arty” e magari c’è bisogno che prima cresca un po’. Sono molto contento di Amanda, che considero una storia di grande successo, perché è un film molto bello ma anche molto piccolo, partito da una sezione molto piccola di Venezia, che però ha fatto il giro del mondo, finendo pure nella lista dei 50 migliori film dell’anno del Guardian. E quando fai una cosa anche con una certa incoscienza e vedi che viene vista e compresa dappertutto, be’, dà una bella soddisfazione».
Di Carolina Cavalli, però, una ce n’è. Anche se lei per prima pensa al cinema come a un lavoro collettivo. Fa discorsi, rispetto al rapporto autore-produttore, che oggi è raro sentire. «Questa modalità di fare cinema permette a un autore di sentirsi libero, ma al tempo stesso di avere un produttore dialogante e che è anche un partner realizzativo. E questo è molto importante soprattutto nel momento della scrittura che è estremamente solitario, almeno per me che scrivo da sola. È un momento in cui è facilissimo confondersi o perdersi nella propria testa, perciò è fondamentale avere qualcuno che è interessato e anche forte sulla parte editoriale, che non è semplicemente un lettore ma una persona con cui puoi condividere anche una debolezza che senti nella scrittura, con cui puoi parlare di tutti gli aspetti del copione. La possibilità di avere un contatto molto diretto e anche molto libero credo sia il vero vantaggio del cinema indipendente. Poi il produttore deve aiutarti nel rendere possibile tutto ciò, perché io in fase di scrittura non penso mai alla realizzazione concreta delle cose: infatti poi arriva sempre lo scontro con la realtà…». Ride.
A parlare con Carolina, si avverte un’autrice che è rimasta una spettatrice appassionata. «Tu dici regista indie, ma io mi sento da sempre parte di una comunità che ama il cinema indipendente già da spettatrice, che va al cinema e ai festival. Sono ancora così». È diversa la comunità USA da quella italiana, ora che in quelle sale e a quei festival ci va da “director”? «Forse là c’è un’apertura maggiore, io qui sono ancora “la giovane autrice”. Negli Stati Uniti c’è un’industria diversa, anche economicamente ovvio, e forse anche una curiosità diversa».
Ma gli stessi problemi, per quanto riguarda la circolazione del proprio lavoro? «Questo non lo so, io per ora sono stata molto fortunata. Però, pensando al futuro, sarebbe bello immaginare nuovi modi di accompagnare il proprio film anche fisicamente, in sale o festival magari ripensati, o attraverso piattaforme nuove, per far sopravvivere quella comunità di spettatori di cui parlavo prima e che per me ancora esiste».
Arriva dall’America il riferimento che Antonio ha in mente, quando si parla di quel fare cinema indie anche un po’ corsaro. «Shiva Baby è costato 250mila dollari, che per il sistema americano sono davvero spiccioli, ed è un film incredibile: capivi da due scene che era nata un’autrice. Ecco, l’ambizione è immaginare storie e modelli come quello». E l’ambizione più grande per un giovane produttore di oggi, in uno scenario audiovisivo dove è cambiato tutto? È sempre la stessa del vecchio ’900? Grandi incassi, grandi premi… «Be’, ovvio che quell’ambizione rimane. Però l’importante è mantenere la propria identità. Io dico sempre: il giorno che facciamo Parasite chiudo la società, sto a posto. Vinco la Palma d’oro e l’Oscar con un film che la gente capisce ovunque ma che è profondamente locale e ha una complessità di contenuto molto alta, e che proprio per questo ha stima del suo pubblico, lo reputa intelligente.
«Quello è il sogno. Poi ci sono dei sogni intermedi, ma ne parliamo strada facendo…».














