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Nuovo Cinema Indie: Alessio Rigo de Righi, Matteo Zoppis e Tommaso Bertani

Un percorso artistico condiviso fino dagli esordi, e ora l'arrivo in sala di 'Testa o croce?' dopo il passaggio al Festival di Cannes. E una certezza: se possiamo chiamarli "indie", è solo grazie al cinema mainstream. Ecco l'intervista tra registi e produttore
Matteo Zoppis, Alessio Rigo de Righi, Tommaso Bertani

Foto: Gioele Vettraino per Saccage Agency

Quanti frontman può avere un gruppo musicale? Se vi chiamate Alessio Rigo de Righi o Matteo Zoppis (e non fratelli Gallagher), magari pure due, nonostante il singolare del termine. In una retrovia decisamente prominente troverete poi Tommaso Bertani, produttore, fondatore di Ring Film nel 2010: una sezione ritmica a cui piace indirizzare la chitarra solista, o meglio scoprirla e supportarla. Un tutto artistico che abbia il potenziale di evolversi, di maturare e accrescersi. Anche se, come lui stesso ricorderà durante la nostra chiacchierata, la scelta finale spetta sempre al regista, o in questo caso ai registi.

Si sono conosciuti a un festival, i tre, e da lì mai più mollati. O meglio, Tommaso li conosce lì. Alessio e Matteo avevano già le mani in pasta insieme. Dal 2013 precisamente, quando debuttò il loro cortometraggio documentario Belva nera, storia di un vecchio cowboy e cacciatori di pantere. Dopo l’attacco, nel 2015 il secondo lavoro firmato insieme, debutto documentario al lungometraggio: è il 2015, il nome di Bertani figura già nei crediti di produzione, il titolo è Il Solengo, narrazione di un uomo che si affranca dalla propria comunità e, come un maschio di cinghiale spaiato, si ritira dalla società. Da lì, sei anni dopo, Re Granchio (2021), anche qui racconto di un solitario, di un colpo di testa e del destino, tra leggende, matti di paese e attori non professionisti che lasciano una patina di vero, irrimediabilmente vero.

E quest’anno, 2025, Rigo de Righi e Zoppis hanno portato il loro ultimo film, Testa o croce?, al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Un film di genere (western), un’America che sbarca in Italia tra butteri, Roma, amori impestati e impossibili, e un lungometraggio che non ha paura di sbilanciarsi tra finzione e realismo. Il tutto senza fare ricorso a grandi e grandissime produzioni. A questo punto, doveroso porre la domanda: di che cosa parliamo, oggi, quando parliamo di cinema indipendente?

«Vuol dire fare film in modo libero, senza vincoli. Vuol dire raccontare una storia nel modo in cui si vuole raccontarla». A rispondere è Matteo, ma tutti concorderanno. E infatti Alessio chiosa: «Essere indipendenti e quindi indie è fare cinema in modo che nessuno possa dirti come si fa. È una pratica preziosa, in un panorama che standardizza e di molto la proposta estetica e contenutistica». Importante precisarlo, secondo loro, perché a volte sembra che l’indie sia una categoria che debba indicare una distribuzione ridotta, su meno sale, o una minore fruizione da parte del pubblico.

«Ma io credo che il pubblico non abbia pregiudizio verso le produzioni più piccole», aggiunge Matteo. «Semmai lo hanno le distribuzioni, o le produzioni stesse. È assurdo, perché la storia del cinema è fatta da film indipendenti e d’autore che hanno sempre portato il pubblico in sala». Se indie è libertà, d’espressione in primis, viene pure difficile trovarne i lati negativi, e infatti nessuno sa bene come rispondere. Comincia Bertani: «Se vogliamo, la fatica, che però non è un lato negativo, è quella di mettere insieme il budget, può servire più tempo. Però lo si fa, come dicevano i ragazzi, per fuggire dalla standardizzazione del prodotto. Sembra che chi non è coinvolto nei lavori faccia più fatica a mettere a fuoco il target di pubblico, anche perché in questi ragionamenti vengono tirate dentro le mode del periodo, a livello di gusti del pubblico. Poi certo, vuol dire rischiare di più, ma non si creda che le grandi produzioni non si assumano dei rischi. Il cinema indipendente è l’anima del cinema stesso. È il cinema che rischia a definire la storia, a rimanere nel tempo».

Tommaso prosegue, e anche lui ricorda che alla fine, be’, il cinema si è sempre fatto così, perché la dialettica tra indie e mainstream è sempre esistita e ha sempre portato nuova linfa all’industria. Come nella New Hollywood, quando Steven Spielberg e George Lucas prima si arrabattavano, poi arrivavano ai grandi budget. «Il cinema non è più un medium centrale, ora le immagini si consumano in modi anche diversi. Però agli Oscar, negli ultimi anni, hanno vinto tanti film indipendenti. Allo stesso tempo, è più interessante prendere come paragone per l’Italia un Paese come la Francia che non gli Stati Uniti, che hanno un metodo di finanziamento privato del tutto diverso dal nostro, mentre in Francia è fondato sul denaro pubblico. Ed è solo un ragionamento di mercato, non di qualità di quello che viene prodotto. Viviamo in un’epoca di schemi, e che sia mainstream o no, tutto trova il suo schema del momento». Conclusione: e se fosse proprio il cinema indie internazionale a prendere il posto (e sta già succedendo) dei grandi film “da Oscar” di un tempo, ora che la produzione mainstream si vota ai franchise e alle piattaforme?

Quello che dice Tommaso, comunque, rimane vero: i film indie hanno meno budget. «Questo limite si trasforma sempre, per noi, in fattore creativo», dice Matteo. «Che poi io penso all’Argentina, dove ho vissuto tanto tempo, e mi sembra assurdo il modo in cui parliamo di cinema indipendente in Europa, perché lì non ci sono nemmeno i fondi degli indie, c’è solo indipendenza vera e pura», questo Alessio. «E comunque sono film che possono finire, e che finiscono, nei circuiti dei festival internazionali».

Proprio con i festival i due registi hanno un rapporto consolidato. «Siamo cresciuti nei festival, li abbiamo sempre frequentati, e sono stati una prima forma distributiva per i nostri film». Un modo per creare network, comunità. Trovare e ritrovarsi. Testa o croce? è uscito a inizio ottobre al cinema. Perciò intanto c’è da pensare al presente, e al futuro a breve termine. Senza dimenticare il passato di questo trio, rintracciabile nell’evoluzione attraverso la triade di film a cui, per ora, ha lavorato. C’è uno stesso metodo che perdura, ci dicono, e poi diversi tasselli che si uniscono, come per esempio aver lavorato per la prima volta con tutti attori professionisti (tra gli altri, Alessandro Borghi e John C. Reilly). Continuità nell’evoluzione umana e artistica, proprio come le migliori band.

«Sto tornando sempre all’inizio della conversazione», salta su a un certo punto Tommaso, «ma la domanda che mi pongo sempre da produttore, alla fine della giornata, è: accettiamo questi fondi che potrebbero procurarci dei vincoli in futuro verso qualcuno, o stiamo nella libertà e lavoriamo sul limite che essa ci impone?». Però ora è vacanza, c’è caldo. Continueremo a pensarci domani.

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