Nicola e Marco De Angelis, non si può fare cinema senza sporcarsi le mani | Rolling Stone Italia
Risky business

Nicola e Marco De Angelis, non si può fare cinema senza sporcarsi le mani

Per l'uscita di 'Briganti' abbiamo chiacchierato senza filtri con i due fratelli fondatori di Fabula Pictures. Di musica (tanto), di cosa va e cosa non va nell'industry italiana, ma anche di Mila e Shiro (leggete!) e di Lanthimos

Nicola e Marco De Angelis, non si può fare cinema senza sporcarsi le mani

Nicola e Marco De Angelis

Foto: Fabula Pictures

Doveva essere una semplice intervista, poi quella con Nicola e Marco De Angelis si è trasformata in una chiacchierata sul cinema senza prigionieri né filtri, liberissima. Che poi è un po’ il loro modo di essere produttori, creativi, che si sporcano le mani: «Perché altrimenti che palle. Come fai come fai a fare ’sto lavoro, a provare un minimo di eccitazione se guardi tutto da lontano e sul set vai lì e fai il Papa, che senso ha?», mi dice Nicola durante la nostra oretta e venti su Zoom. Da cui è uscita la fenomenologia di una giovane società di produzione che non ha paura di prendersi dei rischi, crede fortemente nella “pancia” e pensa il cinema sia «carne viva», cit. Marco. Giuro che un po’ ho tagliato.

Punti di vista

La scusa per la nostra conversazione è l’uscita di Briganti (dal 23 aprile su Netflix), una serie che parte dalla Storia local per realizzare un prodotto internazionale che possa dire la sua in quegli ormai famigerati 190 Paesi and counting: «Individuare un punto di vista all’interno di una storia profondamente italiana ma sovrapponibile a tante altre, in un periodo storico in cui questo tipo di insurrezione popolare – l’abbiamo ideata in piena pandemia – può avere un significato se pensato dalla prospettiva dell’anarchico, ci sembrava molto interessante», attacca Nicola, Ceo & Head of Development and International Co-Productions di Fabula Pictures, che ha fondato insieme al fratello.

Briganti | Trailer ufficiale | Netflix

«Leggendo le prime reazioni all’uscita, si vede il contrasto tra quello che è il vecchio modo di concepire la serialità period e quello contemporaneo. Bisogna lavorare sui punti di vista: se la chiamiamo Briganti, è ovvio che vediamo tutto attraverso di loro, non parliamo di come oggettivamente sia andata la Storia. Abbiamo cercato di mantenere lo sporco sui volti, il dialetto. È un progetto che vuole cercare di modernizzare il linguaggio e farlo è sempre faticoso». L’attualizzazione passa anche attraverso la prospettiva femminile, che è sempre più al centro delle produzioni: «I tre personaggi principali – Ciccilla (Ivana Lotito), Filomena (Michela De Rossi) e Michelina (Matilda Lutz) – sono uno spaccato del brigantaggio al femminile: tre profili diversi di proto-femminismo, tre figure storiche che sottolineano come la donna forte sia sempre esistita, magari nascosta nei meandri del patriarcato. Filomena uccide il marito che è un poco di buono, mentre Ciccilla invece al marito è totalmente votata, perché l’ha salvata da tante angherie, e costruisce con lui una storia d’amore particolarissima, fatta anche di sottomissione che però non è per forza negativa o tossica. E poi c’è Michelina che invece è una leader ante-litteram», continua Nicola. «Sono dell’idea che il femminismo, il patriarcato, siano tutti movimenti che poi andranno piano piano a dissolversi, in modo che si possa misurare tutto semplicemente in base alla qualità delle persone al di là del genere, del sesso, dell’orientamento sessuale. E credo che Briganti abbia tentato di fare anche questo, pure con i personaggi maschili. Per esempio lo Sparviero, il personaggio di Marlon Joubert, ha una doppia faccia, e il pubblico le vede tutte e due per sottolineare che un essere umano può uccidere un altro essere umano, vedi Filomena, ma in fondo lo fa per rinascere come essere umano lei stessa. C’è del buono e del non buono in tutti noi, l’importante è avere un punto di vista dal quale raccontarlo».

Brigante se more

Chi ha già visto la serie sa: i titoli di testa sulle note di Brigante se more di Eugenio Bennato cantata da Raiz, Heroes all’inizio del quarto episodio, ma anche un brano originale di iosonouncane, Viudas… Ecco, il discorso musicale va oltre la modernizzazione del period, con delle scelte ponderate e raffinate. «Ormai è stato tutto sdoganato da Tarantino, noi abbiamo cercato di fare un discorso meno fashion, ma non meno cool», racconta Marco De Angelis, Ceo, Head of Productions e – come avrete capito – Music Supervisor di Fabula. «Insieme a Valerio Errico, siamo entrati con molta delicatezza nel racconto, sempre attenti alle richieste della regia e non solo: ci abbiamo messo Peter Gabriel due volte, ma anche nomi più di ricerca tipo Valerie June e poi ovviamente iosonouncane, con un pezzo che ha scritto appositamente e un altro che abbiamo comprato, Ojos, da IRA, che per me è il suo album più bello. Jacopo è molto particolare, si sposava perfettamente con Briganti e le scene con la sua musica sembrano anche un po’ sperimentali». L’intenzione iniziale era quella di fare una sorta di Peaky Blinders, «ma loro, vabbè, hanno chiamato Thom Yorke, Nick Cave, Anna Calvi. Noi ovviamente siamo entrati più soft, anche perché la storia aveva bisogno di questa morbidezza qua e là. Brian Eno, Raiz – bravissimo – e poi Mannarino: subito mi aveva detto di no perché stava scrivendo in Brasile, poi ci siamo incontrati una volta in un’enoteca, gli ho fatto vedere un teaser vecchissimo. E lui: “Mi ci metto subito, mi piace da morire”. E ha scritto una canzone che è da lui ma non è da lui, perché fa molto colonna sonora, potrebbe avere un futuro da composer, come anche iosonouncane, che è un compositore da cinema nato. Se trovo il progetto giusto…».

Lo score da kolossal invece è opera di Michele Braga: «Per noi stava lavorando quasi in contemporanea su Un’estate fa e Pensati sexy, glielo abbiamo chiesto, ci ha fatto sentire qualcosa e siamo impazziti. Le reference erano Sherlock Holmes, Pirati dei Caraibi, e lui ci ha messo quel mondo però rendendolo anche molto nostro, molto italiano, perché ci ha aggiunto il sapore del Sud, le corde, i tamburelli».

Dalla musica alla produzione è chiaro che Briganti è frutto di un lavoro enorme, portato avanti con grande cura: «Abbiamo fatto un anno di preparazione, che per una serie è tantissimo. Il team è quasi sempre lo stesso nei nostri film, perché facciamo dei percorsi con i talent, gli sceneggiatori ma anche con le crew, che ci danno una sicurezza qualitativa molto alta», sottolinea Marco. «Ad esempio, la costumista Francesca Sartori aveva lavorato con noi 15 anni, poi si è rimessa a fare teatro, non la chiamavano. L’abbiamo voluta per Il divin codino e da lì è ripartita, perché ha un cuore enorme, così come lo scenografo Marcello Di Carlo e il direttore della fotografia Benjamin Mayer. Ci mettono proprio l’anima, fanno ricerche, tanti sopralluoghi, anche insieme, e si confrontano continuamente su tutto per arrivare a un’armonia». E nella serie quel lavoro certosino si vede, si vive persino: «Sto ricevendo chiamate da gente che non è del nostro mestiere e mi dice: “Ammazza che roba internazionale”. E io rispondo: “E invece è nazionale, l’abbiamo fatta noi italiani!”», ride.

Il cinema è carne viva

L’aspetto più sanguigno, più caratteristico e quindi più bello di Nicola e Marco è che sono chiaramente due produttori creativi – come dicevamo – che si sporcano le mani. «Ma proprio tanto!», commenta il primo quando dico che me li vedo lì sul set a prendere freddo pure loro e a sistemare le luci o qualsiasi altra cosa non gli funzioni: «La figura del produttore per noi è uguale a quella di un attore, anche i capireparto di cui parlava Marco li fagocitiamo quasi come fossero dei talent perché il talento lo tiri fuori se le mani te le sporchi, sennò il talento lo sopisci. Le facce che abbiamo scelto sono totalmente inusuali, vedere certi interpreti fare quello che hanno fatto dentro Briganti è totalmente opposto a come concepiamo il period drama in Italia. Di solito è una rottura di palle piatta e didattica, noi abbiamo ribaltato quello schema e può dar fastidio. Però sarebbe stato semplice ribaltarlo facendo una cosa super cool: “Sì, dai, mettiamoci i Muse”. No, dobbiamo rimanere coerenti con quello che eravamo, così abbiamo semplicemente messo in scena i briganti. Quindi niente studio alternativo e postmoderno alla Romeo + Juliet, non serviva. Abbiamo ripreso esattamente i costumi dell’epoca e li abbiamo sporcati, siamo abituati a vedere period dove sono tutti belli puliti. Sarebbe stato divertente ricreare i fasti dell’impero borbonico ma non era realistico, era tutto devastato. E allora più decadente è, meglio è. Spesso in Italia confondiamo la modernizzazione con il fare i fighetti, Briganti è sporco quindi è vero, ti lascia addosso quella sensazione di verità che non siamo abituati a vedere».

Orlando Cinque (Pietro Monaco) e Ivana Lotito (Ciccilla Monaco) in ‘Briganti’. Foto: Netflix

Poi Nicola torna alla mia provocazione: «Noi viviamo in un’industria, sta a noi nuove generazioni cambiarne un po’ la mentalità. Le cose come stanno non funzionano più e infatti produciamo roba brutta in ambito artistico, musicale e cinematografico». Interviene Marco: «Sul discorso musicale non sono d’accordo. Prendi la colonna sonora di Briganti, ad esempio, su dieci canzoni cinque sono italiane e cinque straniere, e a me questo dà fiducia. Sotto il punto vista musicale l’Italia sta crescendo, artisti come iosonouncane non è facile trovarli, per me lui è geniale, mi ricorda alcuni album dei Radiohead. Lo stesso Daniela Pes, con cui Jacopo collabora spesso, che mi è venuta in mente troppo tardi, ma se dovessimo fare una seconda stagione di Briganti la vorrei a bordo. Di pop dentro il sangue ne ho poco sotto il punto vista musicale, sono più di ricerca, ma ogni volta questa metodologia ripaga, l’idea di far diventare popolare qualcosa che non lo è. La musica è pancia, a me piace tanto esse’ de pancia».

Prende la parola Nicola: «Marco non te lo dirà mai per ovvi motivi, ma in Italia si dà poco ascolto e ancora poca fiducia alla figura del Music Supervisor, mentre all’estero è tipo Dio. Qui tutti vogliono dire la loro, e quindi le colonne sonore spesso sono un’accozzaglia di pareri. Lui combatte questa pratica di cannibalizzazione del gusto cercando di imporre delle scelte, magari anche di nascosto. Poi però in qualche modo quelle idee passano». Su Baby, ad esempio, Marco ha collaborato tanto con i registi: «Ho trovato terreno fertile in Andrea De Sica, che ci ha messo del suo e ha fatto delle scelte molto azzeccate. Quando trovi dei professionisti che hanno i gusti giusti per il titolo è molto bello, quando invece devi lavorare con registi non acculturati, che vogliono dire per forza la loro, diventa un po’ un problema perché poi alla fine devo vincere io per forza, sennò va tutto a discapito del prodotto».

Palla a Nicola: «Sai qual è il punto? Io credo fortemente che il cinema in senso lato non sia la settima arte, è troppo piena di collaborazioni per essere considerata un’arte pura, è un’arte ma è impura e come tutte le cose impure ha bisogno di un capo. E un capo a un certo punto deve venire fuori, chi si assume la responsabilità creativa di decidere. Noi siamo due produttori che ci mettono del loro nella ricerca del prodotto, tutti i nostri titoli non li vedrai mai “comuni”». Marco racconta come l’altro giorno abbia condiviso una riflessione con la moglie (Claudia Pandolfi), che l’ha fatta commuovere: «Il cinema non è solo soldi e gestione, se non si capisce questa cosa non andiamo da nessuna parte: il cinema è carne viva».

Generazionali

Baby | Trailer Ufficiale | Netflix Italia

Nel curriculum di Fabula ci sono almeno tre serie generazionali: oltre a Baby, anche Zero e Noi siamo leggenda. Con un minimo comune denominatore: sono tutti teen drama risky, vuoi per il tema trattato (le baby squillo dei Parioli), vuoi per la prospettiva supereroistica: «È sempre stato il nostro sogno fare Young Adult, da quando siamo stati YA noi stessi. All’inizio sono andato personalmente a prendere i diritti per adattare Skins e Misfits in Italia e ho ricevuto porte in faccia anche con quei format», ricorda Nicola. «Credo fortemente che la generazione che può comprare o fare il mercato è quella che va più o meno dai 15 ai 25 anni. E, rispetto a serie per adulti che hanno uno storytelling più classico e scontato, il teen drama ti dà la possibilità di viaggiare, di fare delle cose folli, mettendoci dentro anche il supernatural o temi bigger than life come succede in Baby. Anche Un’estate fa lavora sull’effetto nostalgia e su quelli che erano YA nel 1990, ma pure sulla Generazione Z a cui appartengono gli attori come Filippo Scotti. E quel tipo di narrativa noi ce la porteremo anche su nuovi progetti, perché per me è proprio parte integrante del DNA di Fabula. Penso di nuovo a Baby: dare a dei ventenni, i GRAMS* (che poi hanno sceneggiato anche Briganti), la possibilità di scrivere storie su ventenni è più giusto che dare a un sessantenne la possibilità di scrivere storie sui ventenni, cosa che succede ormai regolarmente quando si cerca di allargare il cerchio del teen drama, del YA, ed è per questo che non vengono bene, perché sono indirizzati agli adulti e non ai teenager, che in più vanno verso il prodotto americano e quindi perdono l’italianità. Ed è un dramma, perché abbiamo anche ottimi attori, scrittori e registi giovani».

Un’estate fa, una delle serie più seguite di Sky («là sono belli matti, ci piacciono») e anche un investimento sui generis per una società come Fabula, è stata il tentativo (riuscito) di creare un prodotto d’autore che fosse allo stesso stesso tempo pop, con delle venature sci-fi: «È il discorso dell’high concept», sempre Nicola, «dell’elevated pitch, come dicono gli americani colti. Noi ci ispiriamo a produttori americani tipo A24: se tu prendi un tema, lo inserisci in un altro contesto, lo allarghi sempre di più, stai facendo un 360° intorno a un concetto semplicissimo; in questo caso, il sentimento mai sopito di un uomo che si ritrova a dover fronteggiare il ricordo dell’estate in cui ha perso l’amore della sua vita. Poi ci metti l’elemento sci-fi dei viaggi nel tempo, il thriller, il romance, l’effetto memorabilia, quello musicale…». L’ultima parola chiama Marco: «Vuol dire che sperimentare con un’idea più mainstream, più pop, funziona pure in Italia, però bisogna saperlo fare. È inutile commentare la colonna sonora, perché sono tantissimi brani ed è stato facilissimo e divertentissimo. Abbiamo anche chiamato Francesca Michielin e gli Altarboy per la cover di Un’estate fa. La serie è ambientata negli anni ’90 e ho visto delle critiche sui social: “Eh ma sono tutte musiche degli anni ’80”. Sì, perché gli anni ’90 erano appena iniziati, quindi musicalmente c’è la coda degli anni ’80. E poi il resto l’ha fatto di nuovo Braga, che è davvero trasversale, e invece prima lo chiamavano quasi solamente per le commedie».

Un’estate fa | Nuova serie | Trailer

L’annosa questione delle etichette: «Se fai la commedia puoi fare solo la commedia… è una mezza cazzata. Quando hai dei professionisti seri, puoi cercare di portarli sempre al risultato che vuoi attraverso lo studio. La gente purtroppo attacca l’etichetta perché non ha voglia di sbattersi per migliorarsi, è questo il problema», afferma Nicola. «Per dire, la costumista di Briganti Francesca Sartori è una signora costumista, ha fatto Pensati sexy e dei look di Valentina Nappi si è parlato pure all’estero. In Un’estate fa è tutto in linea, perfetto, pure cool, poi io quando vedo quelle cose anni ’90 penso sempre a Non essere cattivo: per Baby scelsi la costumista di quel film, Chiara Ferrantini, perché aveva un tocco più fresco e moderno, con quei colori che non aveva paura di far vedere. Perché oltre al discorso del patriarcato eccetera, avevamo anche timore di far vedere tanto nel cinema e nella televisione… invece adesso siamo tutti un po’ più liberi. Invito chi non l’ha già fatto a vedere Povere creature! e a mostrarlo pure nelle scuole da una certa età in su, perché è educativo. Parlavo con Valentina Nappi, una donna intelligentissima, proprio di questo film e dicevamo che il sesso è troppo chiacchierato: in realtà è una cosa normalissima, non dobbiamo averne paura. Serve un po’ più di naturalezza, bisogna parlarne senza troppi tabù, con un pudore giusto, non esagerato». A questo punto Nicola tira fuori un cuore di ceramica dalla scrivania a favore di telecamera: «C’è scritto “All I Want for Christmas Is You“», ride, «ma non importa: bravo!».

Prossimamente

Su cosa stanno lavorando in questo momento? E attenzione, perché c’è LA notizia, ci arriviamo. «A giugno dovremmo essere sul set di una serie per Mediaset che si chiama La regola del gioco, una light spy story – quindi sempre un genere sperimentale – con Alessandra Mastronardi, che ha un volto rassicurante e qui viene invece usata in un altro modo», ribadisce Nicola. «Poi abbiamo in ballo un procedurale e una miniserie Rai in costume. Ma abbiamo anche iniziato a scrivere la seconda stagione di Un’estate fa, speriamo di poterla portare a casa perché nasceva limited e, lo ribadiamo, stiamo lavorando su L’Uomo Tigre, che è un prodotto di punta molto, molto grosso, pensiamo a una trilogia». Rimaniamo in Giappone, visto che di recente sono stati siglati dei patti di co-produzione tra i ministeri e Nicola e Marco sono andati in delegazione con altri produttori e dirigenti: «Avevamo già in cantiere anche Fucking Sakura, tratto da una graphic novel, una rom-com su due ragazzi trentenni che partono per l’ultimo viaggio da fidanzati prima delle nozze e si scannano sull’aereo per poi fare il viaggio da separati una volta atterrati», spiega Marco, che spara la bomba: «Mentre eravamo là abbiamo chiuso anche il deal per Mila e Shiro, vorremmo farne una serie live action. È la prima volta che lo diciamo». L’attenzione quindi è alta anche su fumetto, graphic novel e videogame, «che intercettano molto la pop culture di oggi», secondo Nicola. «Abbiamo comprato i diritti di Cinzia di Leo Ortolani, quindi il discorso lgbtq+, e di Battaglia, che è veramente figo e anche un po’ più complicato. E poi un altro mio grande pallino è Cinque allegri ragazzi morti: dopo quella seriale, stiamo scrivendo anche una versione cinematografica. Naturalmente ci sono anche le cose più istituzionali, però Fabula ha una rotaia che va verso quei mondi colorati, inesplorati, un po’ più nostri».

Marco e Nicola De Angelis. Foto: Fabula Pictures

Che cosa manca al cinema italiano oggi? «A noi in Italia manca fortemente l’indie, inteso proprio come categorizzazione del prodotto, dell’attore, del regista, dello stile, del tono, del colore, della musica», dice ancora Nicola. «Se tu prendi l’indie e lo metti dentro la serialità, vedi in America, crei Breaking Bad, però prima passi da Juno e Little Miss Sunshine. Il pubblico indie in Italia è più grande di quello che sembra. Il problema è che noi pensiamo che quello sia un pubblico inutile, invece oggi compra e soprattutto comprende anche una grossa ala di giovani che vogliono storie aspirational leggere. I distributori hanno un’idea di mainstream che è completamente distorta, legata a storie che non portano neanche più la gente al cinema, che stanno disintegrando l’interesse del pubblico».

Marco è più fiducioso sull’Italia, anche se «per me c’è troppo giudizio dentro ai progetti italiani, per questo torno sulla libertà. Juno affronta un tema importante che vivi con lei, invece qui c’è sempre il giudizio. Prendi i film lgbtq+, c’è sempre il dramma. Invece noi abbiamo fatto un lungometraggio che è uscito al cinema a febbraio e in estate arriverà su Prime Video, Maschile plurale, il seguito di Maschile singolare, ed è semplicemente una storia d’amore, punto».

Secondo Nicola, «il cinema in Italia è pregiudiziale, e il pregiudizio non ti permette di andare fuori dalla commedia pernacchiona o dai soliti noti. I nuovi talent, i nuovi registi hanno paura. I nuovi autori non partoriscono idee perché temono di calpestare delle merde, invece le merde le devi cercare. Non rinnovi nulla se prima non rompi davvero quello che c’è. Ma puoi farlo anche con furbizia». Di nuovo Marco: «E poi sai cosa manca? Dirigenti che hanno fatto davvero cinema e sanno che cos’è. Perché la maggior parte delle volte ci sono persone al comando che il prodotto non lo acchiappano, il progetto non lo capiscono». E ritorna su Lanthimos: «Per me è il più grande regista contemporaneo, ha una libertà di pensiero che pochissimi hanno. Quando vedo i suoi film mi sento libero, mi sento leggero, mi immedesimo, e poi crea dibattito. Ma i Lanthimos in Italia non ci stanno, non esistono. E allora: via il giudizio, più libertà, più “azzardo”, più accettazione, e meno rotture di coglioni nel cervello».