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Niccolò Ammaniti, l’arte di adattarsi

Letteralmente. Lo scrittore Ammaniti ha consegnato il suo romanzo ‘Anna’ nelle mani del regista Ammaniti. Che, dopo l’esordio con ‘Il miracolo’, firma un altro capolavoro. La pandemia (e la sua profezia), le parole, i bambini, la luce, l’orrore, la solitudine. «Questo non è un racconto»: è cinema

Anna di Niccolò Ammaniti, professione regista scrittore e profeta, ha come sfondo una pandemia che uccide i grandi e risparmia i ragazzini. Anna è un romanzo (uscito nel 2015) ed è una serie (dal 23 aprile su Sky e NOW). Un romanzo e una serie naturalmente pensati prima del Covid: lo dice, a scanso di equivoci, un cartello all’inizio di ogni episodio. Sbroglio subito la questione con l’autore: si sente obbligato a rendere conto a chiunque di questa profezia oppure è solo un caso e sticazzi? «No, non è affatto sticazzi», dice Ammaniti. «Ma non è neanche: devo rendere conto di questa storia a tutti. Dovrebbe essere una via di mezzo. Mi rendo conto che ci sono storie che rimbalzano sugli altri in maniera più forte. Il sogno di un autore è che la propria opera non lo faccia su quello che stiamo vivendo, così che la lettura o la visione resti più libera. Detto questo, con il Covid di mezzo la visione sarà evidentemente condizionata. Ma non sono preoccupato. Credo che la mia storia, per chi lo capirà, parta da delle premesse per raccontare altro. E quella era una premessa necessaria per accendere un fuoco, era la fiammella di cui avevo bisogno per raccontare questi bambini in un mondo in cui non ci sono gli adulti».

Anna (la magnifica débutante Giulia Dragotto), tredicenne siciliana, deve proteggere il fratello Astor (Alessandro Pecorella, esordiente pure lui) dopo che la mamma (splendida Elena Lietti) muore per colpa di quel virus infame. Basta una riga di trama, ma l’adattamento del libro in serie si arricchisce, divaga, aggiunge, toglie. Nei giorni in cui vedevo Anna, leggevo «Questo non è un racconto», raccolta di scritti di Sciascia sul cinema da poco uscita per Adelphi. Scrive Sciascia a proposito degli adattamenti dei suoi romanzi: «Se scrivessi qualcosa precisamente per il cinema, e cioè un soggetto, mi sentirei di partecipare; ma trattandosi di un racconto che è nato e vive come racconto, mi pare di elementare discrezione lasciare che un regista ne faccia “altra cosa”, e cioè un’opera autonomamente sua». Leggo questo stralcio ad Ammaniti, in controluce su Zoom davanti a una finestra stondata.

Niccolò Ammaniti sul set di ‘Anna’. Foto: Greta De Lazzaris/Sky

Dimmi: com’è invece adattarsi da soli? Quanto il film può essere autonomo, se scrittore e regista coincidono?
Diciamo che la serie Anna è possibile perché sono stati fatti dei film dai miei romanzi. E questo mi ha portato a farmi delle domande rispetto alla trasformazione delle mie storie in un’altra forma, che appunto è il cinema. L’idea è che ci sia sempre stata una distanza tra le cose che ho fatto io e quelle che hanno fatto i registi. Non che fossero belle o brutte, non sto dicendo questo: semplicemente non corrispondevano al mio immaginario, esattamente come accade a un lettore che legge un romanzo e poi vede il film; c’è quella specie di dissociazione per cui non capisce quanto gli è stato rubato del proprio immaginario. A un certo punto ho avuto l’opportunità di fare Io e te come regista, mi sembrava una cosa possibile perché era una storia semplice, e io ero molto interessato al cinema. Poi, per fortuna, è arrivato Bernardo Bertolucci, che ha detto: lo voglio fare io. E io: prego, vai, non c’è problema.

Se entra in campo Bertolucci, la partita non si può nemmeno giocare.
No, certo, ma sono stato molto felice così. Un po’ perché era un tale onore… E poi perché ho chiesto di poter lavorare con lui, e quindi abbiamo passato tanti mesi insieme, e abbiamo costruito un’amicizia che poi è durata fino alla fine. Quella era stata la prima occasione possibile. Poi è arrivato Il miracolo, e ho pensato: devo fare una storia che non è stata già raccontata attraverso un romanzo. Ho deciso che, se dovevo affrontare questo passo, lo dovevo fare con un soggetto originale. Normalmente succedeva che preparavo un soggetto per un film e, dopo un po’, mi veniva voglia di scriverlo. Il miracolo in realtà è stata la richiesta prezzolata di un soggetto che potesse funzionare, io avevo questa idea della Madonna che piange, ho buttato lì un soggetto di cinque pagine e poi, quando ho finito di scrivere Anna, mi hanno detto: lo devi fare. Quindi sono entrato in una dimensione nuova, perché non avevo mai scritto nulla di originale per il cinema. A quel punto però non potevo mollare il controllo, perché la storia mi piaceva moltissimo: quando la storia mi piace, o la consumo attraverso le parole oppure, se la lascio, me la rovinano. Ci devo stare dentro e così ho fatto, però un po’ in punta di piedi, non del tutto, ho fatto gran parte delle cose ma ero preoccupato dalla mia capacità anche solo tecnica di tenere in piedi un set. Ho imparato tante cose grazie a Lucio Pellegrini (che ha co-diretto gli episodi della serie insieme ad Ammaniti e Francesco Munzi, nda) e a tutte le persone coinvolte. E poi ho detto: vabbè, adesso devo fare una cosa da solo, e quindi cosa faccio? Un film? Potrei fare un film, certo. Oppure posso fare Anna, ho pensato. Perché nell’adattamento di Anna avrei potuto mettere molte cose che nel libro non ci sono. Per dire: nel libro c’era un cane, qui Anna perde un braccio. La serie è un’altra cosa, ci sono molti più personaggi, backstory molto diverse. Sono tutte le storie che avevo immaginato nel corso del tempo e che avevo voglia di sviluppare, ma per farlo avrei dovuto scrivere Anna 2, o una specie di “writer’s cut”, e non si poteva. Perciò mi sembrava giusto far diventare Anna un film. E poi c’era un’altra cosa. Mi sono chiesto: ma vogliamo vedere se questi bambini di cui scrivi da venticinque anni possono essere finalmente rappresentati come piace a te? Proviamo a farlo, ho pensato, e devo dire che sono soddisfatto.

Alessandro Pecorella è Astor, il fratellino di Anna. Foto: Greta De Lazzaris/Sky

Il passaggio dalla scrittura alla regia a qualcuno fa ancora effetto: Ammaniti diventa regista, ma che gl’importa, perché non continua a scrivere e basta?
Non è piacevole per nessuno l’idea di un autore che fa due cose diverse, perché ciascuno tendenzialmente deve stare nel proprio recinto. Non è cattiveria, è naturale che sia così. Sei uno scrittore? E allora fai lo scrittore. Sei un regista? E allora fai il regista. Il regista, o il musicista, o il generale dei carabinieri che scrive un libro però dà meno fastidio, perché scrivere è un istinto primario, chiunque di noi lo può fare anche senza avere i mezzi. Fare il regista è una cosa più complessa, richiede più soldi, più conoscenze. Quindi, in qualche modo, sembra che strafai. E magari è così. Però io ho capito tardi, nella vita, che c’era qualcos’altro che mi interessava.

Ti hanno sempre detto: come sono cinematografici i tuoi libri. Scrivevi già pensando alle immagini, anche solo ipotetiche?
Quello che penso – e che ho ripensato nel corso degli anni – è che, se avessi avuto un po’ più di sicurezza in me e fossi stato un po’ più avventuroso, probabilmente invece che scrivere dei libri avrei fatto il regista, perché ero molto appassionato di cinema. Ma poi piano piano la parola mi ha conquistato, e scegliere le parole è stata – ed è – una fatica meravigliosa, che vale tanto quanto fare le inquadrature. Devo ringraziare il lavoro di scrittore, che a un certo punto mi ha permesso di avere delle persone che si fidavano di me e mi hanno messo dietro una macchina così complessa come quella del cinema basandosi solamente sul fatto che sono capace di scrivere i libri. Ma non credo basti la fiducia degli altri. Bisogna anche avere l’ossessione per le inquadrature, per il senso della luce, la voglia di parlare con gli attori, di trovare i luoghi giusti, di far partecipare le persone al tuo immaginario. Non basta saper scrivere in maniera cinematografica, per tornare a quello che dicevi: bisogna avere una reale passione per questo lavoro.

In un altro bellissimo librino sul cinema uscito di recente – Il mistero del cinema, La Nave di Teseo – il tuo amico Bertolucci racconta di quando, a ventun anni, girò il suo primo film, La commare secca. E ricorda quanto fosse strano essere ancora il ragazzo che dormiva col fratello nella cameretta della casa dei genitori e, insieme, l’uomo che andava sul set e dava ordini a tutti. Tu hai provato questo stesso senso di inadeguatezza, quando hai iniziato a dirigere?
Quando fai il regista, ovviamente c’è anche un piacere nel comando. Se sei una persona remissiva, o fai un brutto film oppure non lo fai proprio. Quando hai un’idea il mondo complotta costantemente contro di te, e tu devi ristabilire quotidianamente le regole, perché le regole si sciolgono col passare del tempo, anche semplicemente per incomprensione da parte delle persone di quello che vuoi dire. Quindi è un lavoro completamente diverso, un lavoro difficilissimo e molto faticoso, soprattutto dal punto di vista fisico, cosa che il lavoro di scrittore non è: allo scrittore al massimo vengono le emorroidi. Quella di Anna in particolare è stata una prova fisica durissima, ne sono uscito abbastanza provato.

Se davanti a quel bivio romanzi/film, a patto che di bivio si sia trattato, avessi preso la strada dei secondi, quale sarebbe stato il tuo cinema?
Sicuramente non il cinema che c’era a quel tempo in Italia, cioè la commedia, che m’interessava poco. Io amavo da Apocalypse Now a Herzog all’horror splatter anni ’80 e ’90, mi piacevano gli zombie, le storie d’avventura, tutto quello che poi ho messo nei miei libri.

Anche qui hai messo lo zombie movie, ma la tua idea di distopia – perdona la parola – mi pare lontana dall’iconografia a cui siamo ormai abituati. Quello scalone palermitano ricoperto di vestiti nel primo episodio mi pareva, se mai, un’installazione di Pistoletto.
Quando vuoi costruire una tua idea, l’importante è capire quello che non ti piace, prima di quello che ti piace. Il mondo che io volevo evitare era quel genere di post-nucleare da bombardamento scuro, nordamericano, delle grandi praterie nere di fuliggine, che invece è uno dei grandi cavalli di battaglia del film post-apocalittico. Volevo il buio ma solo negli ambienti, e poi un sacco di luce, e che la luce fosse forte, mediterranea, che ci fosse l’esplosione della natura, e poi delle installazioni luminose, esattamente Pistoletto, ma pure le buste di plastica appese, e il pupazzone all’ingresso della villa di Angelica. Avevo questa idea di raccontare la bellezza dell’Italia. Io Anna l’avrei anche potuta mettere in un palazzo orrendo, e invece mi sembrava molto bello che fosse presente la memoria dei palazzi nobiliari siciliani.

Il buio è, prima di tutto, l’orrore dentro una storia di bambini, un orrore di cui i bambini sono anzi complici se non esecutori, altra cosa impensabile nella televisione di una volta, ma pure un eterno tabù culturale e sociale.
Io lo so che Anna è una serie dura, anche più del libro. Però i film che mi hanno colpito di più sono quelli che mi hanno tolto il fiato perché erano forti, violenti, perché ci stavo scomodo dentro. E quindi in questa mia ricerca non potevo fare altrimenti, se avessi reso questa storia gradevole a tutti non sarebbe stata quella che volevo raccontare.

Elena Lietti è la mamma di Anna e Astor. Foto: Greta De Lazzaris/Sky

I bambini di Anna sono anche molto soli, e in generale c’è tantissima solitudine nei tuoi libri, ora anche nel tuo cinema. Anzi: c’è questa idea della solitudine come formazione, il fatto che le cose della vita si imparino stando soli.
Io credo che la solitudine sia il primo luogo di ognuno di noi. Tutte le cose migliori che ho fatto nella mia vita sono quelle che non ho condiviso con gli altri, tutte le mie intuizioni migliori erano difficili da esprimere agli altri. L’idea di una storia, o di un personaggio, o di qualcosa che ti atterrisce: quell’idea, nel momento in cui si fa, non si condivide. O almeno io non l’ho mai condivisa. Ho sempre trovato la solitudine un momento ricco di riflessioni, di spunti. La solitudine di Astor è una solitudine perfetta, una solitudine in cui lo mette la sorella, che gli dice: il tuo mondo è questo, se vai fuori di qui muori. E quel mondo è un recinto dell’infanzia quasi inattaccabile dall’esterno, una condizione di benessere, un momento solo tuo, magico, bellissimo, quello in cui costruisci le tue paure, i tuoi desideri. Ma c’è anche la solitudine terribile di Io non ho paura, quella del bambino che è chiuso in un buco in mezzo a un bosco e non sa perché è stato rapito, e allora si immagina che il mondo sia crivellato di buchi, e che ogni abitante della Terra stia in un buco come il suo, perché questo lo rassicura. La solitudine apre a narrazioni infinite, più i personaggi stanno soli e più mi stupiscono, accendono la mia fantasia.

Nell’ultimo anno anche a noi è stato detto: dovete stare chiusi nel vostro mondo, altrimenti morirete. E tanti si sono sentiti rassicurati dallo stare chiusi – da soli, ma tutti insieme – nel proprio buco. Altri hanno detto: no, io voglio uscire comunque, anche se mi dicono che morirò. Perché è successo? Perché non sappiamo, di fatto, stare da soli? Perché non siamo più bambini?
Stare da soli non è semplicissimo. La gente, soprattutto le famiglie, era abituata a usare la casa in un modo, e improvvisamente la casa è diventata tutto il suo universo, di colpo doveva condividere con gli altri il giorno e la notte, e non sempre era facile. La tua solitudine la puoi trovare in un libro, ma i libri sono diventati un materiale difficile da gestire in questo momento, perché non è che si legga tantissimo. Prima il libro era una fuga meravigliosa, ti mettevi lì nel silenzio e leggevi senza disturbare nessuno. Non facevi rumore, e adesso invece ognuno fa rumore, ha davanti uno schermo e magari c’ha pure le cuffie, ok, ma comunque è portato a fare rumore. La solitudine funziona finché non è richiesta, nel momento in cui diventa una condizione obbligata aneliamo agli altri. E la solitudine di oggi ci dice che non ci possiamo avvicinare agli altri, perché gli altri sono potenzialmente degli untori, sono delle persone da cui ti devi allontanare perché ti infettano o perché rischi di infettarle. Che è una condizione interessante per un romanzo, ma da vivere è una merda.

Dici che è il tempo del rumore. Anche per questo sei andato dove c’è rumore, cioè nelle immagini, e ti sei allontanato dai libri?
Quando ho cominciato a fare lo scrittore, la sera di parlava di libri: anche perché incontravo molti scrittori, d’accordo. Ma capitava in tante situazioni, si parlava tanto degli ultimi libri letti. Adesso, se vai a casa di qualcuno, può succedere una volta l’anno che un libro abbia abbastanza successo per cui la gente ne parla, ma per il resto è rarissimo. La gente parla delle serie che ha visto. La mia intenzione è conquistare le persone, l’ho pensato in questi termini quando ho fatto Il miracolo, lì ho capito che mi sarebbe piaciuto misurarmi con la serialità.

Il vantaggio è che ora, immagino, la sera non t’incontri coi registi.
No, ma perché non m’incontro più con nessuno da anni. Non incontro proprio le persone, mi vedo solo con pochissimi.

Clara Tramontano nei panni di Angelica. Foto: Greta De Lazzaris/Sky

L’altro vantaggio è che – per temi, scelte narrative e, permettimi, età – nessuno può darti del regista generazionale, quando invece da scrittore sei stato per molti la voce di una generazione. E mi chiedo: cosa vuol dire? Quand’è che non lo si è più? L’essere generazionali ha una data di scadenza?
Il regista generazionale di solito è, appunto, giovane. E ha qualcosa da dire sulla sua generazione, intende raccontare qualcosa del momento in cui vive. Io non ho questo problema, hai ragione. Ma non mi sono mai sentito neanche uno scrittore generazionale, o almeno è quello che credo io. Poi forse per alcuni lo sono stato perché c’è stata la generazione dei Cannibali, quegli scrittori che sembravano voler mettere a ferro e fuoco la letteratura e poi non l’hanno fatto. Una generazione di cui io non volevo assolutamente fare parte: cioè, non che non lo volessi, semplicemente la guardavo con poco interesse, guardavo solo alle mie storie. La mia ossessione è sempre stata quella di intrattenere un bambino che ogni sera deve essere addormentato, e ogni sera tu gli devi raccontare una storia. Ero – e sono – ossessionato dal momento in cui cala la luce, e c’è quel bambino che sta lì, e io devo trovare un’altra storia buona, un po’ come Shahrazād. Questo è il mio problema. Ha poco a che fare sia con la società sia con le generazioni.

Adesso scrittura e regia se la giocano alla pari? Se hai una storia in testa, può diventare un libro come un film?
Diciamo che adesso comincio a guardare le storie anche dal punto di vista tecnico: l’uso degli effetti visivi, l’idea di poter lavorare, che so, ambientando un racconto nell’800… È come per uno scalatore cominciare a fare una serie di montagne sempre più alte. E siccome io nei libri ho sempre alzato l’asticella, adesso ho la tentazione di fare serie o film ancora più complicati. E poi ovviamente cadere, a un certo punto.

Lo scrittore Ammaniti ha una storia e la dà al regista Ammaniti, e poi gli dice: mo so’ cazzi tuoi.
Esattamente così. Gli dico: riesci a fare un horror ambientato durante il Risorgimento con degli zombie garibaldini? Forse sì, chi lo sa.

Durante la pandemia hai lavorato principalmente ad Anna, ma c’è qualcosa che hai letto o visto che ricordi in particolare?
Durante la produzione di Anna non leggevo, non vedevo, non facevo nulla se non lavorare, mangiare e dormire. I film mi servivano esclusivamente per addormentarmi perché faccio fatica a dormire, le parole dei film spesso le uso solo per quello. Quando sono tornato a casa, in pieno lockdown, ho fatto comunque fatica a leggere, ero molto preoccupato, ho letto soprattutto saggi, libri di biologia, un saggio bellissimo sul Congo… E poi ho visto Parasite solo quest’anno, ed è il film che probabilmente m’è piaciuto di più. Mi piace molto il finale, perché va tutto a schifo. È come se tu montassi la tua torta e, a un certo punto, diventa così grande e importante che le dai un cazzotto e la finisci. Un po’ quello che era successo a me quando ho scritto L’ultimo capodanno dell’umanità, un racconto che cresceva e cresceva e cresceva fino a mezzanotte e poi esplodeva, fino a quell’ultima parte un po’ splatter della festa che mi era sembrata una bellissima conclusione, dava senso a tutta la storia di prima. Ho sentito persone che hanno trovato il finale di Parasite un po’ affrettato, io invece l’ho trovato perfetto.

Giulia Dragotto alias Anna. Foto: Greta De Lazzaris/Sky

Mi pare che adesso, nelle tue storie, tu tenda a distruggere meno. Le torte le lasci intere.
Adesso la grande esplosione finale, il botto, lo faccio solo con gli adulti, perché mi hanno rotto le palle. Penso che l’ultima vera distruzione sia quella di Che la festa cominci (il suo romanzo pubblicato nel 2009, nda), quando alla fine c’è l’invasione dell’acqua. Quando ci sono di mezzo gli adulti ho delle tendenze omicide più forti, quando tratto i bambini ci metto più attenzione, lascio degli spiragli di speranza forti, dei finali un po’ più aperti. Vorrei che fosse il lettore o lo spettatore a trovare quello più adeguato.

Stai scrivendo?
Sto facendo più cose insieme. Sto pensando a un film, a una serie, a un libro. Ma prima di tutto vorrei che arrivasse l’estate, e vorrei vaccinarmi, fare un viaggio, e poi starmene in campagna e tornare a tutto quello che c’era prima. E ricominciare a lavorare.

Con questa cosa dell’essere scrittore e regista insieme ti sei incasinato da solo.
Mi sono incasinato da morire. Da una parte sento la campana di chi dice: lascia perdere di fare il regista, rimettiti a fare i libri. Dall’altra quella di chi dice: no, devi continuare. E io chi devo ascoltare?

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