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‘Moonage Daydream’ è il film definitivo su David Bowie

Cinque milioni di registrazioni e filmati inediti e cinque anni di lavoro. Brett Morgen ci svela come ha lavorato all’opera monumentale dedicata al Duca Bianco. Un racconto che «ti fa entrare nel suo mondo più intimo», e che riesce a svelare il mistero della più misteriosa delle icone rock

Foto: Universal Pictures

È molto più di un documentario. Moonage Daydream di Brett Morgen (nelle sale il 26, 27 e 28 aprile) è un’immersione totale nella vita di David Bowie, nella sua musica e non solo; nell’atelier dove dipingeva e che apriva a pochissimi, nei suoi alter ego (Ziggy Stardust, il Duca Bianco), nei travestimenti iconici che nessuno negli anni ’70 ancora definiva gender fluid ma che hanno influenzato moda e umori di generazioni a venire, nei video inediti e nelle interviste in cui lui stesso si racconta. Dopo la scomparsa nel 2016, a 69 anni, il regista ha avuto accesso all’immenso archivio personale di Bowie con cinque milioni tra filmati e registrazioni inedite, perché l’artista inglese conservava ogni traccia del suo percorso.

In quattro anni di lavoro Brett Morgen, 54enne americano già autore di Kurt Cobain: Montage of Heck, è riuscito a restituire un viaggio dove è la stessa voce di Bowie ad accompagnarci nella sua avventura umana e artistica, quasi “station to station”, citando un suo album, raccontando anche le scelte che lo misero alla prova. Come l’anno e oltre trascorso a Los Angeles (1975), città che odiava, “per capire come quell’ambiente avrebbe cambiato la sua arte”, dove girò il suo primo film (L’uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg). Poi – per disintossicarsi in senso lato – si trasferisce a Berlino, inizia a collaborare con Brian Eno, pubblica la trilogia composta da Low, Heroes e Lodger. E siamo solo agli anni ’70. Qui il regista Brett Morgen racconta la sua, di avventura.

Come hai avuto accesso agli archivi personali di Bowie?
Avevo incontrato David già nel 2007 per proporgli di girare un film, ma lui disse che non era il momento giusto, anche perché lo avrebbe impegnato per 50 giorni. Quando è scomparso ho ripreso il nostro contatto in comune spiegando che avrei voluto fare non tanto un documentario classico, biografico, con interviste a chi lo aveva conosciuto, ma una vera immersione da vivere quasi come esperienza. Seppi allora che David aveva conservato tutto degli ultimi trent’anni, e anche lui non avrebbe mai voluto un documentario. Insomma ho avuto accesso a cinque milioni di inediti, ma ho poi aggiunto la mia ricerca fra altri materiali, arrivando a visionare forse dieci milioni tra filmati, foto e registrazioni.

Un lavoro immenso. Quali ti hanno colpito di più, svelando il Bowie meno conosciuto?
Ho trovato un filmato meraviglioso in cui lui emerge dal buio ballando ma senza audio, non si sa che musica stia ballando e di sicuro non era un suo video, ma è bellissimo e l’ho usato perché inedito. E poi le riprese in cui lo si vede dipingere e fare videoarte, anche a casa sua: a volte si sente musica di sottofondo, altre la sua stessa voce che spiega cosa fa. C’è un momento in cui, senza vederlo, si sente parlare John Lennon, non c’è dubbio che sia lui, e ascolti David mentre gli racconta la sua creazione. È materiale che ti fa entrare nel suo mondo più intimo, lo mostra com’era lontano dai riflettori e dai media.

Hai definito Moonage Daydream una “guida alla sopravvivenza nel XXI secolo”. Pensi valga anche per i nostri anni?
Assolutamente sì, proprio perché lui era un visionario. Nel 1971, in un mondo analogico precedente a internet e ai social, parlava di quanto fossimo bombardati da immagini e stimoli, quanto il cervello umano avesse da elaborare in un’epoca che avanzava così velocemente. Si chiedeva in cosa credere dopo che, senza Dio e religione, tutti siamo preda dell’ansia. La sua è anche la nostra colonna sonora.

Il suo look scandalizzava molti all’epoca: era gender fluid in anni in cui non esisteva neppure la definizione.
Sì, ma ha formato il passaggio della mia generazione dall’infanzia all’adolescenza, intercettando bisogni nuovi. Quando avevo 14 anni ed ero in cerca della mia identità sessuale, nel 1983, David era l’unico a darti l’idea della libertà: guardandolo capivi che anche tu potevi esplorare. A 12 anni avevo l’album Scary Monsters e trovavo lui ultraterreno e quella cover così meravigliosa.

Con tanto materiale a disposizione, come hai trovato il filo rosso del tuo film?
Ci sono voluti cinque anni per vedere il materiale e capire come selezionarlo e sceneggiarlo. Poi ho capito che le due parole chiave, e la cifra di Bowie, sono caos e transitorietà. Ha avuto un senso profondo anche per me personalmente. A 47 anni ho avuto un infarto e non è stato un caso: lavoravo troppo, non c’era equilibrio nella mia vita e mi sono chiesto che esempio stessi dando ai miei tre figli. Mi sono ripreso proprio attraverso David: ho capito che mi stava offrendo una guida a una vita appagante, a vivere ogni giorno al meglio. È stata la mia convalescenza, fisica e spirituale. E attraverso il film ho potuto lasciare questa guida ai miei figli. E anche riguardando il film sul grande schermo, al Festival di Cannes, mi sembrava che David parlasse a me personalmente. In realtà ha intercettato le nostre proiezioni collettive.

Perché hai scelto Moonage Daydream come titolo?
Inizialmente avevo pensato di intitolarlo Station to station, ma non rendeva l’idea del film, che, appunto, non è un documentario tradizionale perché lo stesso David Bowie non è “spiegabile”. Era misterioso, enigmatico, si nascondeva dietro i suoi alter ego. E, come lui stesso ha detto in qualche intervista, sperava che il pubblico riempisse quegli spazi vuoti che lui stesso percepiva nella vita e che cercava di interpretare con la sua stessa ambiguità. Ecco perché Moonage Daydream mi è sembrato il titolo più giusto, tra il lunare e il visionario, comunque un po’ inspiegabile.

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