Michela Giraud, e fare un film per fermare qualcosa che è dentro me | Rolling Stone Italia
M – Il mostro dei Parioli

Michela Giraud, e fare un film per fermare qualcosa che è dentro me

La storia di una generazione (i ragazzi dell’87), di una famiglia (la sua), di Roma Nord (che non è Buckingham Palace). Tutto questo è ‘Flaminia’, esordio alla regia della stand-up comedian che ha deciso di raccontare «la cosa più vicina a quello che sono nella vita». Riuscendo a convincere persino Mogol

Michela Giraud, e fare un film per fermare qualcosa che è dentro me

Michela Giraud

Foto: Erica Fava

Partiamo dalle questioni importanti: «Mogol ha mollato. Come non dirlo su Rolling Stone?». E ha mollato nientemeno che le Emozioni di Lucio Battisti, dietro lunghe trattative e con lo zampino di una lettera in cui Michela Giraud gli ha scritto: «Ti prego, dammi questa canzone, perché questo film è la cosa più importante della mia vita». Non scherzava, e quel brano non lo voleva per capriccio, ma per inserirlo nella versione cantata da sua sorella Cristina. Quella vera. Cioè la persona che ha ispirato il suo film d’esordio, Flaminia (al cinema dall’11 aprile), e il personaggio interpretato da Rita Abela (se in giro sentite dire che è stata fenomenale, è vero).

Senza tradire il suo storytelling – costruito in molti anni di stand-up e televisione – ma anzi sfidandolo nella sua forma filmica, Giraud si è tolta qualche sassolino. Dice che è un film dedicato ai ragazzi del 1987, una generazione cresciuta da una falsa promessa di futuro: lo studio porta lavoro, soldi e famiglia, e la felicità si trova proprio lì. Ma parla anche di tensioni familiari e delle ipocrisie del suo quartiere, attraverso la caricatura di una Roma Nord che per alcuni è stata trincea, mentre per altri ha rappresentato il conflitto crudele tra gli standard tollerati e la vita reale, fatta magari di corpi non conformi e di una sorella nello spettro dell’autismo.

Flaminia, dopotutto o prima di tutto, è una storia sulla neurodivergenza. Però Michela ci ha infilato dentro le sue passioni: tre canaglie patinate alla Mean Girls (Ludovica Bizzaglia, Catherine Bertoni de Laet, Francesca Valtorta), un matrimonio che s’ha da fare ad ogni costo (con Edoardo Purgatori, bravissimo) e un carrozzone di guest e amici di cui si è circondata per il puro gusto di combinarli tutti insieme (da Fabrizio Colica a Stefano Rapone fino a Nina Soldano e, per un infelice scherzo del destino, all’ultima apparizione di Andrea Purgatori, qui in scena accanto al figlio Edoardo). Tutto si evolve in pieno stile Giraud, che d’altronde il film se lo è cucito addosso, ma che stavolta è capace anche di carezze e perfino di lacrime. Le dico: «Ormai sei “la sensibile Michela Giraud”». Mi risponde: «Non ti preoccupare, sono sempre la solita merda».

FLAMINIA (2023) - TRAILER UFFICIALE

Catwalk, photocall, magnum face: ti stai facendo una promozione alla Beyoncé.
Be’, avevi dubbi?

Scherzi? So che hai girato il film anche per questo. Ci siamo viste la scorsa estate, eri al montaggio ed eri tesissima.
Lo ero, perché il film stava prendendo forma. Però adesso mi hai beccato in un momento giusto. Sono sicura di quello che ho fatto, dei suoi punti di forza e anche dei suoi limiti, dei quali non parleremo sennò mi sparano. Però ho fatto tutto quello che volevo e che potevo fare. Sai com’è, no? “Simba, essere re non vuol dire fare tutto quello che vuoi”. Da regista vale lo stesso, hai una visione condivisa con gli sceneggiatori, coi produttori, col distributore, con gli attori meno, perché se ce metto pure loro diventa troppo.

Era scontato questo esordio alla regia?
Prima di incontrare Giuseppe e Stefano (Giuseppe Saccà e Stefano Basso di Eagle Original Content, produttori del film, nda), ho sempre rifiutato delle proposte di film. Penso che oggi fare un film comporti il massimo sforzo per una media resa, se sei fortunato. Mi sono detta: se devo fare una cosa del genere, voglio farlo con una storia che mi interessa.

Sotto il genere-ombrello della commedia hai giocato con almeno altri quattro filoni: il wedding movie, la satira, la denuncia sociale e un coming of age da trentenne. Sei partita con questa intenzione?
Guarda, tu mi parli di cose e io non so cosa stai dicendo. Mi stai illustrando una splendida strategia, sembra una lezione di cinema alla Sapienza con Di Donato e Bertetto.

Salutiamo Di Donato e Bertetto, i nostri ex professori.
Salutiamoli, anche perché grazie a loro so quelle due o tre cazzate sul cinema: la Golden Age! Questo per dirti che tu stai vivisezionando un film con elementi tipo M – Il mostro di Düsseldorf, ma io non l’ho pensato con una strategia. Poi ognuno ci trova delle cose, mi hanno pure detto che c’è una citazione di Ghost. Io posso dirti che questo film mi somiglia, perché sono una persona abbastanza complessa e questa complessità l’ho messa anche nella stand-up.

Michela Giraud sul set. Foto: Vision Distribution

Allora, senza strategia: cosa volevi raccontare e quali esigenze avevi?
Tante. Volevo fare un film che parlasse ai ragazzi della mia età, perché non se li caga nessuno. Volevo parlare del tema della disabilità e della diversità. E poi volevo prendere per il culo il mio quartiere, amorevolmente. Volevo che qualcuno andasse al cinema e si facesse delle domande sulla vita che sta vivendo. È chiaro che parliamo di white privilege, ma all’interno delle nostre vite – specialmente quelle dei ragazzi del 1987 a cui è dedicato questo film – siamo una generazione che ha fatto cose sulla base di una promessa fallace: se tu studi, avrai un lavoro e dei soldi, avrai una famiglia e sarai felice. Allora noi abbiamo studiato, anche cose che non ci piacevano, perché ci avevano detto che così andava fatto. Nel mentre ci sono altre generazioni che schizzano avanti come dei razzi, e noi non sappiamo più come raggiungerle. Allora è lì che a un certo punto ti chiedi: “Ma veramente ho vissuto la vita che volevo? O per mancanza di coraggio mi sono arreso?”.

Tu hai avuto coraggio o hai avuto culo?
Tutt’e due. Ho avuto coraggio e mi ha detto culo. Oggi è tutto più sdoganato, ma quando ho iniziato io la gente mi guardava come se fossi pazza. Avevo amici che mi schifavano: “Vieni a casa nostra e mentre noi studiamo diritto privato, tu studi dizione?”. Questo è il mio ambiente e questi sono i miei anni, quindi all’epoca forse ho avuto un po’ di sconsideratezza e molto coraggio. Ma citando male Seneca: la fortuna è il caso che incontra l’occasione.

Non scomodiamo ancora Bertetto, ma mi è piaciuto lo scontro concettuale tra l’amare e il meritarsi.
Vengo da una storia di perdenti, mi affascinano molto di più quelli che nella vita non riescono. Io forse in alcune cose sono riuscita, ma lo studio del meschino mi incuriosisce sempre: in un momento in cui siamo tutti primi e tutti belli, che ne è degli altri? Tutti gli altri che fanno? Ogni villain ha una storia di fallimento, il cattivo è prigioniero. A me la felicità e i primi della classe m’annoiano.

Allora non hai paura di annoiarti, in questa fase felice della tua vita?
Innanzitutto vediamo come va ’sto film, perché io sono di un pessimismo e di una pesantezza che non hai idea. Però uno si annoia quando non ha niente da dire e da dare, infatti io cerco di diversificare. Con la stand-up avevo fatto tantissimo e sentivo di non poter più dare qualcosa, così mi sono dedicata al film. Viceversa, adesso non vedo l’ora di tornare sul palco. A maggio riparto dall’Europa con il nuovo spettacolo e sarà un tour in cui torno alle origini, al mio caro vecchio istinto animalesco.

Foto: Erica Fava; Abito: Orha Roma; Scarpe: Anghara

Parliamo di sterzate verso la libertà. C’è stato un momento della tua vita in cui, come Flaminia, hai guardato Roma Nord e hai detto: “Vi saluto, mica siamo a Buckingham Palace”?
Sì, da bambina. Sono stata una bambina molto brava, buona e ligia, ma io quella roba lì l’ho fatta da subito. Hai voglia a mettermi le scamiciate di velluto.

Rita Abela ha raccontato che le hai proposto il ruolo dicendole: “Ti sto affidando la cosa più importante della mia vita”.
Be’, è vero. O lo sai, o te ne vai.

E lei non se n’è andata.
No, lei è rimasta. Conta sempre chi resta, e lei è rimasta con un carico bello forte. Io l’ho diviso con lei, che si è fidata di me.

Il personaggio è ispirato a tua sorella Cristina. Sei riuscita a gestire la cosa con distacco?
No. Delle volte mi sentivo molto crudele, perché io volevo quella cosa lì. Delle volte Rita ha molto sofferto, e io con lei. Sembravo un mostro, perché piangevo e poi tornavo regista: “Però adesso me la rifai così?”. Mi è dispiaciuto per i miei attori. Ho fatto dire alle mie attrici delle cose molto dure. Però io dovevo fa’ il film, mi dispiace.

Quanto li hai fatti entrare nella tua vita e quanto hai scelto di tenerli fuori?
Ho voluto che Rita sfiorasse appena Cristina, doveva conoscerla un attimo e poi andare via. Doveva avere la libertà di muoversi nel personaggio, perché se avessi voluto fare un film su Cristina avrei fatto un documentario. Invece io di Cristina ho preso l’aspetto favolistico. Guarda, ho sempre avuto in canna questo paragone, ma a te lo faccio: una volta ho sentito Greta Scarano dire: “Ilary Blasi c’è già” (Scarano ha interpretato Blasi nella serie Speravo de morì prima, nda). Ecco, io Cristina ce l’avevo già. E sapevo che rischiava di divorare Rita a livello emotivo, perché mia sorella è davvero una tempesta d’amore, di sofferenza, di paraculaggine, di rabbia. Farle alimentare l’un l’altra sarebbe stato impossibile e ingiusto nei confronti di entrambe. Non era una questione di sfiducia, anzi: Cristina è il mio metro di fiducia. Se conosce una persona e non le piace, vuol dire che quella persona è un infame. E se io ti faccio conoscere Cristina, vuol dire che mi fido di te.

Michela Giraud con Rita Abela. Foto: Vision Distribution

Temevi il giudizio di tua sorella?
Certo. All’inizio mi ha detto: “No, non mi piace questa cosa. E poi mi avete rubato lo spazzolino”. Ovviamente lo avevamo comprato, lo spazzolino uguale al suo, perché dal punto di vista del look e dello stile non ho voluto cambiare molto. Le ho detto che, se preferiva, poteva non andare avanti a guardare il film, ma lei ha voluto vederlo tutto. E dopo averlo visto, a un certo punto mi ha guardato dal bagno e mi ha detto: “Complimenti”. E lì ho capito.

Ti offendi se ti dico che, come attrice e come regista, ti ho trovata molto più rivelatoria nelle scene drammatiche? L’impressione è che tu ti sia liberata di qualcosa, e poi non siamo abituati a vederti fragile.
Oh mamma mia! Sono così abituata, giustamente, a sentire rivolgere tutti i complimenti attoriali a Rita, che non me lo aspettavo. Ho sempre provato imbarazzo, perché quando fai il comico prendi per il culo tutto, anche te stesso. Così ho sempre scelto la strada più semplice. Ma quello che sono nel film è la cosa più vicina a quello che sono nella vita. E non ho mai voluto che qualcuno lo vedesse. Quando ho girato la seconda parte della storia ho avuto paura di sembrare ridicola. Quindi grazie, perché ho abbattuto un tabù.

Ok, perché quella canzone di Battisti?
Quella è la voce vera di mia sorella, lo sai? Ho sempre voluto diffondere questa sua cover, quindi ho fatto carte false perché Cristina cantasse nel film. Ho fatto impazzire i produttori, perché non è semplice utilizzare un pezzo di Battisti. Grazie per averne parlato, perché spesso questa cosa me la scordo, ma ragazzi: Mogol ha mollato! Come non dirlo su Rolling Stone?

Com’è andata?
Ci sono state delle trattative molto lunghe. Sono stupita, perché evidentemente la forza della storia li ha convinti. Io ho scritto una lettera molto onesta a Mogol, nella mia mente voglio pensare che sia stato merito di quella lettera.

Aspetta: tu hai scritto a Mogol?
Esatto, sia alla vedova di Lucio Battisti che a Mogol. Tipo: “Ti prego, fammi usare questa canzone, perché questo film è la cosa più importante della mia vita”. Ho usato tutta la capacità retorica della quale spero di essere in possesso, ma alla fine abbiamo avuto Emozioni nel film. Infatti ad oggi non c’è mai stato un momento in cui abbiamo festeggiato, perché abbiamo ancora il terrore che ce la tolgano prima dell’11 aprile.

Michela Giraud con, da sinistra, Andrea Purgatori, Lucrezia Lante della Rovere, Antonello Fassari e Nina Soldano. Foto: Vision Distribution

Un’emozione paragonabile all’avere Marina Giordano nel cast?
(Ride) Esatto. Voglio mettere in luce che in questo film ci sono tutte le mie passioni, compresa Nina Soldano (Marina Giordano è il nome del suo personaggio in Un posto al sole, nda). Hai visto quanto è brava?

Altro che Un posto al sole.
Eh, ma abituatevi, ragazzi: perché questo è il mio cinema!

Il caso ha voluto che fosse anche l’ultima apparizione di Andrea Purgatori. Insieme al figlio Edoardo, e proprio nei ruoli di padre e figlio. In qualche modo rende il tuo film anche un documento, che effetto ti fa?
Spero che sia un documento per i suoi figli, e che siano felici di questa cosa. Edoardo sta affrontando tutto con un coraggio e una serenità incredibili, quindi automaticamente sono serena anch’io. Lui è il mio metro sulla questione, ho sempre un occhio fisso su di lui, per capire come sta.

Ormai sei “la sensibile Michela Giraud”.
Non ti preoccupare, sono sempre la solita merda. Ci tengo a dirlo, perché devo tornare sul palco tra un mese. E sul palco voglio essere il solito animale.

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Foto: Erica Fava
Digital: Sara Meconi
Assistente: Carolina Smolec
Post-produzione: Angela Arena
Location: Coraline Luxury Concierge, Sentho_Roma
Production: MURO Productions
Stylist: Valentina Rossi Mori
Make-up: Valeria Cipolla

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