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Mi chiamo Virginia Valsecchi

Produttrice di ‘Mi chiamo Francesco Totti’ e regista esordiente con ‘Il cielo da una stanza’, è uno dei nomi di punta della nuova industry. Ma non cadete nella retorica della ‘giovane donna’ o della ‘figlia di’: lei non ci sta

Foto: Instagram @virgivalsecchi

Ho conosciuto Virginia Valsecchi durante un panel, si dice così, l’autunno scorso, tema Milano contro Roma, io nel team Milano, lei in quello Roma, anche se poi io sembravo il romano (per cialtroneria) e Virginia la milanese (per produttività). E però è come se fossero passati vent’anni, nel frattempo è cambiato tutto, è arrivata la pandemia che tutti i panel si porta via, e con molta retorica si può oggi dire che Milano e Roma son tornate sorelle, sempre coltelle ma unite prima dal lockdown e ora nel coprifuoco. Senza retorica ma invece con leggerezza Valsecchi esordisce alla regia alla Festa del cinema di Roma, sezione Alice nella città, con il doc personalissimo e instant-issimo Il cielo da una stanza. E, con la sua giovane società Capri Entertainment, è anche la produttrice di nobili natali cinematografari – papà Pietro e mamma Camilla Nesbitt hanno fondato la Taodue, artefice, tra le altre cose, dei film sbancatutto di Checco Zalone – che sempre a Roma ha portato il documentario più applaudito di tutti, Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli, appena passato nelle sale e a novembre su Sky.

Il cielo da una stanza cerca di vedere il lato positivo del lockdown.
Sì, ti fa capire che, nonostante tutto, noi italiani sappiamo affrontare pure queste situazioni. Ed è il racconto di quelli come me che stavano chiusi in casa e però scalpitavano, volevano far qualcosa. Nel mio settore è normale uscire, fare incontri, riunioni. Come in tanti altri, d’accordo, ma in più nel cinema c’è la cosa pratica del set, che era totalmente bloccata. Avrei voluto avere il tesserino dei giornalisti e – funzionava così, giusto? – poter andar in giro con una piccola camera a fare un po’ di riprese. Ma non l’avevo, non potevo, e allora ho trovato un modo alternativo per raccontare quel momento, per dire andiamo avanti comunque. Il lavoro del cinema è fotografare la realtà. Ma volevo trovare una chiave diversa da tutti i documentari sul tema, perché ne avranno fatti tantissimi…

Bah, in realtà direi che sei la prima.
In Italia forse sì. Di sicuro la prima ad averlo annunciato. Forse è perché, essendo più giovane di altri, stavo sempre su Instagram, e con le stories entravo nelle case degli altri, vedevo quello che accadeva. Ma erano scene piccole, io volevo esplorare, sapere di più. Come quando mi affacciavo da casa mia e facevo tipo La finestra sul cortile, aspettavo il delitto, che però non arrivava mai.

Un’immagine del ‘Cielo da una stanza’ di Virginia Valsecchi. Foto: Capri Entertainment

Nel film ti sei riservata un cammeo, appunto, hitchcockiano.
Non volevo fare un documentario su di me, ma su quello che vivevano tutti gli italiani. E tra loro c’ero anch’io, mi mettevo alla finestra a guardare gli altri e pensavo: cosa stanno facendo? Cosa stanno cucinando? Ma quei due si amano? Vedevo che a Milano succedeva una cosa, e a Roma un’altra; che la gente metteva canzoni diverse sui balconi, creava sinergie diverse nelle case. Allora ho pensato: proviamo a fare questo esperimento sociale. E il 21 marzo è partita sui social una call to action, un po’ di attori e influencer l’hanno ripresa, e poi testate come Repubblica e Corriere. Sono arrivati 500 video, e la maggior parte erano dei confessionali. Tante persone erano da sole, avevano bisogno di qualcuno con cui parlare, e il fatto che quel qualcuno fosse uno sconosciuto, anzi una produzione, forse li ha paradossalmente convinti ad aprirsi.

Poi viene il discorso: produttrice (e regista) che sbarca sul mercato in un’annata così stramba.
Io sono entusiasta, te lo dico. Si comincia quando si deve cominciare: se è ora, va bene così. La società è nata due anni fa, il primo progetto annunciato è stato quello su Totti. Ora è stato strano vedere il film prima alla Festa di Roma e poi in sala, e svegliarsi la mattina dopo alle 6 per scoprire il risultato al box office. È una cosa che a casa mia ho sempre vissuto, ma è la prima volta che la vivo da sola, ed è molto emozionante. Sono stata felice di presentare Mi chiamo Francesco Totti a Roma, perché il protagonista del film non è solo lui, è anche la città. E al cinema – nonostante il periodo d’incertezza che stiamo vivendo, i contagi che risalgono, le nuove ordinanze – c’è stata una risposta molto positiva, siamo arrivati a 600mila euro in tre giorni.

Avreste potuto fare quello che stanno facendo in molti: rinviare il film al 2021, di sicuro avrebbe fatto più soldi.
Assolutamente. Ma il pubblico ha fame di contenuti nuovi, oggi più che mai. E Totti non è solo un film, è un’esperienza. Totti è un eroe del popolo, e il popolo si è sempre aggregato per tifarlo, quindi anche questo film andava vissuto collettivamente. Non potevamo rimandare, dovevamo dare questa cosa al pubblico oggi. La gente ha aspettato troppo. E, se nessuno comincia, non si rilancia nemmeno il cinema. Ora poi le logiche distributive stanno cambiando. Il documentario il 16 novembre andrà su Sky, la finestra tra sala e sfruttamento in tv si sta accorciando, il che per me è solo un bene.

Sei anche produttrice di Speravo de morì prima, la serie Sky con Pietro Castellitto sempre dedicata a Francesco Totti. Tutto quello che riguarda Totti deve passare da Virginia Valsecchi?
No, magari! (ride) La cosa nasce in questo modo. Io sono romana e romanista, Totti m’ha accompagnata per tutta la vita. Quando è uscito Un capitano (l’autobiografia scritta con Paolo Condò, nda), la prima cosa che ho pensato è stata: qualcuno prenderà i diritti per farne un film, è matematico. Allora ho chiamato mio padre e gli ho detto: dobbiamo prendere i diritti e farlo noi, subito. Mio padre non ha potuto, e allora ho contattato Mario Gianani e Lorenzo Mieli di Wildside, con cui avevo già lavorato in passato, sono rimasti due maestri. Da lì è nato il doppio progetto: prima il documentario e poi la serie.

Si può combattere la retorica del pur giustissimo dibattito “le donne nell’industria del cinema sono ancora troppo poche” con i fatti?
Ma sì, son quelli che contano. La differenza è reale. Ma la mia ambizione, con Capri Entertainment, è costruire una nuova generazione che non parli neanche più di questa cosa. Che tra cinque, dieci anni non si ponga proprio più la domanda. E poi mi viene da ridere perché io, se mai, ho un problema di quote azzurre. Lavoro solo con donne, non mi chiedere perché.

Di te diranno anche: va bene, è una donna, è giovane, ma è pur sempre “figlia di”, non fa testo.
Io ho un’identità diversa da quella di mio padre. Ho la fortuna di essere figlia di una coppia di produttori che ha avuto successo nella vita. Sono privilegiata perché ho respirato quel mondo da quando ero piccola, rubando con gli occhi e con le orecchie quel che potevo. Però non lavoro con loro. È un’altra società, un’altra storia.

Quindi oggi ti confronti da pari?
Mi confronto sulle idee, sempre. Ma non mi siedo al tavolo pensando che sono alla pari con Pietro Valsecchi. Magari facessi la sua carriera, me lo auguro. Io nasco oggi, non mi metto alla pari con nessuno.

Prima di Capri Entertainment, hai lavorato con tua madre alla serie Made in Italy. Per tornare al nostro Milano contro Roma, qui da noi all’inizio è stata molto sbeffeggiata: mo arrivano ’ste romane, a spiegarci la moda… E poi è invece diventata, pur cei suoi difetti, un cult, forse anche uno stracult. Comunque l’abbiamo vista tutti, e aspettiamo trepidanti la seconda stagione.
So che è stata dibattuta, mi sono arrivati un sacco di messaggi pure durante il lockdown. Io sono molto orgogliosa di Made in Italy. Da romana, ho capito la discussione iniziale a Milano, ma poi è piaciuta a tutti, dài… E gli addetti ai lavori della moda ci hanno scritto entusiasti. Pure quelli che abbiamo citato.

La tua foto su WhatsApp è un ritratto di Godard, su Instagram metti Fellini e Pasolini. Fare la produttrice oggi è frustrante? Voglio dire: uno può anche sognare quel cinema là, ma poi deve fare i conti con la realtà di oggi.
Ma sì, proviamoci. E magari il nuovo Fellini te lo trovo (ride). Quelli sono i capisaldi, li devi studiare. Ma poi si deve andare avanti. E oggi una rinascita nel cinema italiano c’è.

È la storiella che ci raccontiamo da anni, ormai è un po’ come «Al lupo! Al lupo!». Però forse stavolta sta succedendo davvero.
Per me sì. Guarda Pietro Castellitto, che è attore, e autore… e su Totti sta facendo un lavoro incredibile, non posso dirti nulla se non che sono pazza di lui. Lo scenario sta cambiando eccome, e la domanda che mi faccio tutti i giorni è: come sarà l’industria audiovisiva tra cinque anni? I mezzi di fruizione condizionano il racconto, e oggi cambiano a una velocità impressionante. Netflix con House of Cards ha scardinato le regole del gioco. Ha inventato una modalità di palinsesto diversa, una maniera di raccontare nuova. Ed era tipo ieri.

Ultima domanda, fammi sognare questo scontro fra titani: a Checco il documentario su Totti l’hai fatto vedere?
No, non l’ho ancora fatto vedere a Luca (Medici, il vero nome di Checco Zalone, nda). Però gli devo chiedere un commento, per forza. Oh, il film è andato benissimo pure a Bari.

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