Maurizio Lombardi ha visto cose | Rolling Stone Italia
To be, to be or not to be

Maurizio Lombardi ha visto cose

Il secondo tempo della sua carriera con Paolo Sorrentino, l'ispettore nella versione seriale di 'Ripley' (da oggi su Netflix), la faccia da Buster Keaton, l'eleganza elitaria, il ritorno in teatro «perché sennò morivo». E quella maglietta di Billy Elliott

Maurizio Lombardi ha visto cose

Foto: Attilio Cusani

Styling: Rebecca Baglini; Ass. Styling: Maria Meinero, Alberto Sardella; Hair & Makeup: Annamaria Negri; Shirt: Missoni

In pochi riescono ad animare un oggetto come fa lui: gli basta parlarne, gli basta indossarlo in scena. Racconta di come un taccuino debba frusciare e di come una penna debba scattare, di occhiali e sigarette che vanno sfilate dal pacchetto in una certa maniera. Con Maurizio Lombardi diventa sempre un discorso sul fascino. Il suo, quello della sua voce e degli abiti in cui si muove, dei gesti che ha spiato da bambino, di quelli che lo attraggono oggi, e ovviamente dei ruoli che alcuni registi da Oscar gli hanno affidato. È iniziata con Philip Haas, Matteo Garrone, Gabriele Salvatores e Ridley Scott. Poi è arrivato il grandioso secondo tempo della sua carriera con Paolo Sorrentino, The Young Pope e The New Pope. Il cardinale Mario Assente e quel balletto che ha girato il mondo, Paolo Conte e L’Orchestrina. To be, to be or not to be.

Ed ecco che è successo di nuovo. Stavolta con un titano come Steven Zaillian (lo sceneggiatore dietro Risvegli, Schindler’s List, Hannibal, Gangs of New York, The Irishman), che lo ha scelto per interpretare l’ispettore Pietro Ravini nella serie Ripley, da oggi su Netflix. Un noir in 8 episodi tratto dal famoso romanzo di Patricia Highsmith, come fu per Delitto in pieno sole nel 1960 e poi nel 1999 per Il talento di Mr. Ripley. Ma incredibilmente Maurizio Lombardi non si preoccupa dei precedenti: al provino ha portato una personalissima visione di Ravini, «non il classico italiano buffoncello, ma una versione più misteriosa, più vanitosa ed elegante». Insomma, più sua. In inglese non perde un colpo, e fotografato dal bianco e nero di Robert Elswit diventa un attore senza tempo, mentre con Dakota Fanning combatte un’abilissima partita tra fuoriclasse. Ne parliamo e lui si perde tra linee, architetture e poesia. Perché dice che far poesia è complicatissimo, ma la verità è che non può farne a meno.

Ripley | Trailer Ufficiale | Netflix Italia

Ho letto che ti sei presentato a un’intervista con la maglietta di Billy Elliott. Non è una maglia qualsiasi, vero?
La comprai andando a vedere lo spettacolo a Londra, trovo che il film sia una delle commedie più riuscite e con un personaggio scritto da Dio. Ma hai toccato un tasto importante, perché quella è la mia maglietta intoccabile. La porterò anche a New York e Los Angeles, rappresenta un mio immaginario molto forte.

Ho appena visto Ripley, ed è vero quello che hai scritto: sei di nuovo parte di qualcosa di grandioso. Che effetto fa?
È come ottenere una laurea per ciò che tu sei naturalmente, per la tua passione.

A prescindere da come andrà?
I player in campo sono di altissimo livello e la qualità del lavoro è eccelsa, ma il massimo sarebbe che questa serie fosse riconosciuta tra le top, tra quelle che si contano sulle dita di una mano. Lì non sarebbe più una laurea, ma un successo importante.

I precedenti sono impegnativi: Plein soleil nel 1960, ma soprattutto The Talented Mr. Ripley nel 1999.
Sono passati tanti anni e sono autori diversi. Nel 1999 c’era la regia di Anthony Minghella, che è lezioso seppur elegante, con tre attori uno più bello dell’altro, perché si sta parlando di tre dèi. Invece qui gli attori principali hanno una bellezza neorealista. Andrew Scott non è Matt Damon, Johnny Flynn non è Jude Law e Dakota Fanning non è Gwyneth Paltrow. Sono bellezze diverse, ma forse persino più potenti.

Tu parli spesso di bellezza, e quando parli della tua è come se non percepissi fino in fondo il potere di un’estetica non canonica. Possibile?
Io vengo dall’architettura ed è vero, ci sono dei canoni. A me l’arte greca e romana non è che mi fa schifo, in base a quei canoni si è formato un po’ il nostro gusto. Poi però ci sono percezioni di bellezza estrema, ne subisci il fascino senza capire perché. E io in realtà preferisco le imperfezioni alla bellezza canonica: ecco qua che una Dakota Fanning mi sembra uscita da un Pontormo. Sai, queste donne dai visi tondi e gli occhi grandi, meravigliose.

Maurizio Lombardi nei panni dell’ispettore Pietro Ravine in ‘Ripley’. Foto Netflix

La regia di Steve Zaillian ha compiaciuto il tuo gusto personale come immagino?
Di più. Grazie a lui sono riuscito ad assaporare ed apprezzare di nuovo la bellezza della nostra Italia. Non è stata quell’operazione americana di inquadrarla in maniera stupida e puerile. Invece è stato un vestire l’Italia degli anni Cinquanta con una raffinatezza quasi unica, fatta di linee. Il nostro design in quegli anni stava sbocciando in maniera prepotente, poi siamo arrivati alla grandezza degli anni Sessanta e Settanta, con altezze vertiginose che hanno arredato tutte le grandi case del mondo.

Quindi casa tua com’è?
(Ride) È anni Settanta. Colori che vanno dal beige al nero. Amo vestirla con un bellissimo oggetto. Poche cose ma scelte bene. La casa non la puoi riempire troppo, sennò perde identità e diventa volgare e piena di polvere. In questi giorni mi son fatto arrivare da un mercatino francese delle ciotole che risalgono agli anni Trenta.

In Ripley il fascino scatena ossessioni estreme, è una storia che parla alle nostre pulsioni più oscure. Riesci a comprendere quel genere di pericolo?
Il meccanismo dell’affascinare può essere davvero molto pericoloso. La grande penna di Patricia Highsmith ha scritto un archetipo di personaggio più unico che raro: Tom Ripley subisce totalmente il fascino di Dickie, ed è autentico. È capitato che io abbia perso la testa per uomini affascinanti pur non desiderandoli, ma ritrovandomi succube del loro modo di gesticolare, di vestire.

Anche il fascino di un regista premio Oscar è autentico? Puoi sentirlo davvero che è capace di una visione più alta?
Lo senti perfettamente. Puoi percepirlo nella visione, nel carattere e addirittura nelle maestranze, che a cascata seguono il flusso della sua idea. E senti che quel film è già un pianeta a parte, che farà parte della costellazione del grande cinema.

La visione di Zaillian in quali dettagli si rivela?
Nell’accuratezza di quello che ci dava in mano, nella pignoleria di muovere un posacenere sopra un tavolo per minuti interi. Per ogni ciak faceva piccoli aggiustamenti: “Non ridere qui, fuma la sigaretta qua, poggiala su quel punto preciso”. Costruiva i nostri movimenti nel luogo in cui ci aveva immersi. In un film l’attenzione è come la carta: se hai scritto un pessimo romanzo o una brutta lettera d’amore, rimane.

Come si fa a lavorare con Zaillian senza chiedergli tutto dei suoi film?
Io l’ho fatto, soprattutto per Risvegli e The Night Of, una serie che mi ha sconvolto. L’ho vista e mi sono detto: “Wow, chissà come dev’essere lavorare su un noir del genere con un regista così potente”. Qualche mese dopo arrivò il provino per Ripley.

Come è successo?
Con una chiamata di Francesco Vedovati (il direttore di casting, ndr). A quel punto ho studiato tutto di Steve, ho cercato di capire che regista fosse e cosa volesse. Al provino ho portato una mia proposta molto seria, non il classico italiano buffoncello. Pietro Ravini mi è sembrato subito un ispettore di polizia tosto, e credo che a Steve sia piaciuta questa impostazione più misteriosa, più vanitosa ed elegante, perché poi mi ha chiesto di giocarci.

È l’aspetto che ho preferito. Credo dipenda da questa tua eleganza così inafferrabile da essere, per certi versi, elitaria. Tuttavia non è mai algida né aliena, perché la contraddici con elementi eccentrici che fanno quasi simpatia. In Pietro Ravini ho ritrovato tutto questo.
È vero, Ravini gioca sulla raffinatezza e sul modo d’essere sornione. Ho visto molte foto degli avventori dei bar della Milano anni Cinquanta. Erano uomini col cappotto, le sciarpe, snelli e affilati. Così mi sono divertito a sfruttare anche la mia, di eleganza, a partire dagli abiti, che vanno animati. E poi il taccuino doveva frusciare e la penna doveva scattare, e le sigarette con il pacchetto morbido andavano tirate fuori in una certa maniera. Nel nostro mestiere l’abito fa il monaco, e per i miei ruoli questo vale sempre.

Foto: Attilio Cusani; Styling: Rebecca Baglini; Ass. Styling: Maria Meinero, Alberto Sardella; Hair & Makeup: Annamaria Negri; Total Look: Boss

Sei d’accordo sul fatto che la tua eleganza sia quasi elitaria?
Potrebbe essere. Elitaria in che senso?

Quasi come un privilegio di nascita. Per quanto tu possa averla allenata, è un po’ come la bellezza canonica: non s’improvvisa.
Venendo dalla campagna e dalla provincia, chiaramente non ero circondato da quella che possiamo chiamare eleganza. Ero circondato da una verità bellissima, ma non raffinata. Però i miei vendevano mobili, quindi sono cresciuto in mezzo a poltrone e divani, educato al gusto di scegliere. Il fatto è che mi piace proprio il gesto, perché il gesto è tutto. Se una persona poggia il mento sulle mani in una certa maniera, oppure si gratta dietro la nuca o sistema il polsino della camicia, mi attrae subito. Mi sono un po’ costruito guardando i gesti degli altri, credo sia la mia deformazione. Io rubo da tutto, non solo dal gentleman o dal nobile, ma anche da chi ha un fascino più rude e potente.

Nelle scene con Dakota Fanning giocate una partita sibillina, portando in campo elementi molto simili. La famosa tensione che viaggia sul non detto e sul non fatto.
Lei è una macchina, era totalmente immersa nel suo ruolo. Mi sono divertito perché all’inizio ci sono state un po’ di schermaglie taciute, della serie: “Ok, vediamo cosa sa fare questo attore italiano, visto che io ho lavorato con tutti i più grandi”. Allo stesso modo, anch’io ho pensato: “Vediamo cosa sa fare davvero questa attrice americana”. La competizione così è bellissima, siamo atleti delle emozioni.

Invece mi piace pensare che l’altro lato, quello eccentrico, tu l’abbia esplorato ai tempi in cui facevi l’animatore in Sardegna. Rinneghi o rivendichi?
Non rinnego niente, anzi, mi sembra fosse un villaggio turistico a Capo Ceraso, nel nord della Sardegna. La gente che veniva lì era un po’ come se ti dicesse: “Adesso facci ridere”, e se non li facevi ridere era un problema. È un’esperienza che consiglio ad ogni attore. E poi ricordo che la direttrice mi disse una cosa molto bella: “Chi fa l’animatore a Capo Ceraso, gli porta fortuna”. Ha avuto un po’ di ragione, no?

Direi proprio di sì. In Ripley mantieni la tua vocalità anche in inglese, senza che l’emissione in una lingua diversa alteri la tua timbrica. Si dice che la voce sia la tua arma di seduzione più forte, lo sai?
Davvero? Chi lo dice? Però mi fa piacere. Ok, capisco che c’abbia una bella timbrica, è vero. Credo sia dovuta anche a un nodulino che da pischello mi venne. Recitare in inglese mi piace, perché sono tutte parole sospese. Ha una caratteristica di vocali e consonanti disposte in modo da permettermi di mantenere una vocalità bassa, ovvero la mia. E mi piace quando i personaggi partono dalla voce, perché voglio capire se metterla in testa, in maschera, in gola o di petto. Questa fissazione mi venne leggendo un’intervista di Laurence Olivier, lui aveva un logopedista che gli cambiava l’emissione della voce in base ai personaggi.

Com’è stato, invece, fare a meno della voce nella serie L’Ora – Inchiostro contro piombo?
Divertentissimo. Con Piero Messina ci abbiamo fatto le notti a ragionare. Dovevo usare un fonografo vero? Uno finto? Simularlo io? Aggiungerlo in post? Alla fine Claudio Santamaria mi prendeva in giro: “Me sembri me quando faccio Batman”.

Stavo pensando che se tu scomparissi domani, il cardinale Mario Assente sarebbe il tuo ruolo da titolone. La cosa ti impressiona?
Be’, per ora sono d’accordo con te. C’è stato un connubio di scrittura e di vestito, perché lì l’abito non fa solo il monaco, ma proprio il cardinale. E poi c’è stato un gesto in particolare, quello di togliere l’occhiale in una certa maniera, che è stato una richiesta di Paolo. Se per ora vogliamo eleggere il cardinale come ruolo iconografico, mi sembra corretto. E spero lo sarà anche Pietro Ravini, perché siamo negli stessi ambiti.

Maurizio Lombardi è il cardinale Mario Assente in ‘The New Pope’. Foto: Sky

Nel frattempo sei tornato a teatro con un monologo, Ho visto cose. Hai detto che non potresti farne a meno, ma pure che “chi cazzo te lo ha fatto fare”.
(Ride) In teatro io son dovuto ritornare perché sennò morivo. Venivo da quattro anni di non teatro ed era diventato insostenibile. A un certo punto è stato il corpo a richiedermelo.

Di cosa si tratta davvero? Del bisogno di convertire la paura in adrenalina?
Questo. E poi sentire che il corpo risponde in maniera elastica anche se l’età avanza, come un ballerino che faceva le piroette e ha paura di non riuscirci più. Invece devi sentire che quello che possiedi naturalmente, e che poi hai allenato negli anni, risuona ancora. E hai bisogno di dire qualcosa di nuovo: questo spettacolo tratta la depressione, ho anche scritto una canzone che si intitola Ho sfiorato l’abisso.

Se “hai visto cose”, cos’è che hai visto davvero?
Ho visto come una madre guarda suo figlio, come un padre guarda sua figlia. Ho visto due amici parlare, e chissà cosa si dicono due amici quando parlano. Ho visto un amore finire, e quando un amore finisce, per un momento la terra smette di girare. È un attimo piccolissimo e infinito, percepito solo dagli amanti. Ho visto due persone abbracciarsi così forte, che ho capito perché voi esseri umani respirate.

Il secondo tempo della tua vita mi sembra molto bello. Hai ancora il coraggio di dirmi che avere una faccia da Buster Keaton anziché alla Paul Newman sia più complicato?
(Ride) Te lo assicuro, a me Paul Newman piace da morire. Era una roba quasi inguardabile, per quanto era bello. Però mi tengo questa faccia qua. E spero che possa lavorare il meglio possibile in questo secondo tempo, che comunque è iniziato bene. Il problema è che c’è già un Buster Keaton. Sarebbe bello se un giorno domandassi a qualcuno: “Che cosa si prova ad avere una faccia alla Maurizio Lombardi?”.

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