«Sono sempre felice di parlare con Rolling Stone perché sono stato uno dei primi, sai, facevo parte della generazione rock and roll. Era il nostro giornale. E mi piace pensare che David e io fossimo un po’ i rockettari della televisione», mi dirà alla fine della nostra chiacchierata Mark Frost, aka il co-creatore di Twin Peaks, che dal 13 giugno è sbarcata con tutte e tre le stagioni (1990, 1991 e 2017) su MUBI. «Ecco perché quella battuta sul rock nella serie (per la cronaca: “Let’s rock!”, ndt) era davvero significativa sia per David che per me», mi racconta su Zoom dalla California, cappellino da baseball blu in testa e una normalissima t-shirt bianca addosso, come se non fosse la metà della più grande serie tv di sempre, quella che non fluttua nei sogni, ma li struttura. Per dirla come piacerebbe a lui: una sorta di Paul McCartney per il John Lennon di David Lynch (leggete e capirete).
Certo, ora che Lynch se n’è andato (e in qualche misura si parla della possibilità di un’espansione della serie attraverso la figura di Carrie Page: «C’era qualche idea, niente ha fermato la creatività di David, ora vedremo cosa succederà», ha detto Frost) pare quasi strano tornare in qualche modo a Twin Peaks. E quando Mark regala qualche chicca qua e là il brividino è inevitabile. Glielo dico, lui sorride ogni volta. Tra amarcord e visioni lucide sul presente (e sul futuro), lo sceneggiatore e regista classe 1953 ripercorre l’origine del mito, racconta i retroscena del ritorno, difende la potenza del mezzo televisivo e ci guida tra Douglas fir, ciambelle e domande a cui forse non vogliamo davvero dare risposta.

Sheryl Lee (Laura Palmer). Foto: MUBI
Twin Peaks è sempre stata una sorta di sogno che abbiamo condiviso. E ora che David non c’è più, parlarne dev’essere diverso. Cosa significa oggi per te?
È un mondo che abbiamo creato e nel quale abbiamo invitato amici, collaboratori, persino familiari, per aiutarci a costruirlo. Non avevamo idea di come il pubblico avrebbe reagito. E ora, 35 anni dopo, sembra quasi una dimensione immaginaria che esiste da sola e che noi abbiamo semplicemente scoperto per primi. Il tempo passa in un attimo, non percepisci davvero quanto ne sia trascorso. In un certo senso, è irrilevante. E, dall’altra parte però, sembra che Twin Peaks sia sempre esistita: noi siamo stati soltanto i primi a trovarla.
MUBI consegna Twin Peaks a una nuova generazione di spettatori. Cosa speri che vedano nella serie? E cosa speri che invece si perdano?
Inizio dalla seconda parte della domanda. Per fortuna si perderanno tutto il nonsense che abbiamo dovuto sopportare con il network americano. Era già una specie di rumore di fondo allora, e ora è solo un lontano ricordo. Non ci penso molto, non mi piace farlo. Credo che invece oggi possano godersi la serie con più tempo e spazio, ai loro ritmi. È la prima volta che tutte e tre le stagioni sono disponibili nello stesso spazio per il pubblico, ed è fantastico. Siamo felicissimi di essere su MUBI per ciò che rappresenta: David ed io siamo da sempre grandi fan del cinema d’autore. Lavoravo come maschera in un cinema d’essai al liceo: ho visto centinaia di quei film, mi sono entrati dentro. Amavo il cinema americano, ma sapevo che c’erano molti altri strumenti nell’orchestra che suonavano altre canzoni. E Twin Peaks ci sta benissimo in quel catalogo. È la prima serie a cui MUBI si è interessata perché la vedono come cinema, in un certo senso.
Be’, certo: è Cinema.
E molti l’hanno precipita così: Sight & Sound, i Cahiers du cinéma. È così che è stata percepita, ed è come l’abbiamo pensata. La televisione era solo un mezzo. La città, la storia, il mondo che abbiamo creato erano il messaggio. Il medium conta meno del dare al pubblico la possibilità di entrare in quel mondo e viverlo appieno.
È un’affermazione un po’ controversa adesso, dove c’è chi traccia ancora confini molto netti tra cinema e Tv.
Sì, e bisogna dare merito a David, perché all’epoca in cui abbiamo realizzato la serie io avevo fatto più televisione di lui, conoscevo quel mondo che lui invece non aveva mai approcciato. Ma era un curioso della Tv, era interessato a vedere cosa potesse fare come mezzo. E si è rivelato un veicolo capace di iniettare qualcosa nella coscienza collettiva di una nazione in modi che un film poteva solo sognare. Raggiungeva molte più persone, tutte insieme. È questo che rende la Tv un mezzo così potente.

Kyle MacLachlan (Dale Cooper). Foto: MUBI
Il pilot di Twin Peaks resta uno dei più radicali mai trasmessi in televisione. Quando avete capito che non stavate facendo un semplice giallo, ma qualcosa di ancora più strano e forse più pericoloso, persino per voi?
Penso che lo sapessimo fin dal primo giorno, era proprio la nostra intenzione. Ed è importante anche capire la posizione in cui si trovava ABC quando ci ha proposto l’idea: erano l’ultima rete televisiva del panorama, il terzo canale in una corsa a tre da ormai cinque anni. Insomma, erano disperati. E quello è il momento migliore per vendere un’idea in questo ambiente, perché sono disposti a rischiare. Così gliel’abbiamo detto subito: “Se siete pronti a buttarvi e a restare fedeli alla parola data, avete trovato le persone giuste”.
E quando avete capito che sarebbe diventato un fenomeno?
Avremmo dovuto essere dei pazzi o dei veggenti per pensarlo… Ma devo dire che alla prima proiezione pubblica, con una sala piena, abbiamo sentito che stava succedendo qualcosa.
Dalle reazioni?
Sì, si percepiva nell’aria. Sai quando capisci di aver in qualche modo catturato il pubblico? È successo dal primo momento, e poi non lo abbiamo più lasciato andare. Abbiamo iniziato ad avere il presentimento che c’erano ancora un sacco di ostacoli da superare, ma questa storia aveva una possibilità di arrivare da qualche parte. E, alla fine, c’è arrivata.
Eccome. “Chi ha ucciso Laura Palmer?” era il gancio, ma il dolore, la repressione e questa sorta di terrore esistenziale erano il vero punto di forza.
Proprio così!
Come avete bilanciato l’idea della soap di provincia con quello spirito surreale e oscuro?
È un po’ come la vita quotidiana. La mortalità e la violenza ci circondano. Da sempre, fanno parte della storia dell’umanità. Questo Paese ha spesso finto che non esistessero, con risultati disastrosi. La serie parlava apertamente di perdita e dolore come nessun’altra cosa in Tv. Erano temi che appartenevano al romanzo, al teatro, forse al grande cinema, ma di certo non alla televisione americana. E questo è stato l’aspetto più audace. Ero convinto che, giocando bene le nostre carte, avremmo potuto cambiare il modo in cui la gente vedeva il mezzo.

Sheryl Lee (Laura Palmer). Foto: MUBI
Tutti attribuiscono a Lynch il surrealismo, ma Twin Peaks ha anche un sottotesto politico, storico e letterario molto forte. Quanto è dipeso dalla tua influenza? E quanto tutta quella struttura mitologica è stata intenzionale?
È stata del tutto intenzionale. Io vengo dal teatro, dalla letteratura classica e dal grande cinema. Avevo quel bagaglio in testa, ma non avevo mai avuto l’occasione di usarlo nel mio lavoro in Tv. Qui, invece, ho avuto un partner che condivideva quel senso del mistero, quell’umorismo, quella visione. Se io riuscivo a portare una cornice mitologica, David sapeva tradurla in immagini, suoni, performance. Era un regista di formazione classica, con una padronanza assoluta del mezzo. Un vero maestro, pochi lo sono davvero.
La formula “creato da Mark Frost e David Lynch” ha sempre avuto un ritmo particolare, come due strumenti molto diversi che suonano la stessa partitura jazz. Come sarebbe andata se uno dei due avesse lavorato da solo?
Dubito che Twin Peaks sarebbe mai esistita. È il risultato di due menti e due anime che ci hanno messo tutte loro stesse.
Com’era il vostro processo creativo?
Ci sedevamo insieme in una stanza, consumando quantità esagerate di caffè. Facevo uscire David quando voleva fumare. Io non fumo, non l’ho mai fatto e non volevo iniziare in quel momento. E poi ci siamo fatti un sacco di risate. Ci divertivamo molto, era davvero una gioia per noi lavorare insieme. Nessuno di noi due l’aveva mai fatto prima in modo così costante e intenzionale con altri, e sapevamo fin dall’inizio che sarebbe stato come… non so se fosse così quando i Beatles fecero il loro primo concerto, probabilmente avevano bisogno di più prove. Ma c’erano tutte le competenze che servivano in quella stanza, e abbiamo semplicemente iniziato a fare buona musica fin dall’inizio. Bisogna anche sottolineare che avevamo lavorato insieme per tre anni, quindi non è che non avessimo avuto il tempo di mettere insieme il nostro materiale. Era un po’ l’equivalente del Cavern Club a Liverpool e di quei locali ad Amburgo, quando i Beatles imparavano a intrattenere il pubblico. E, quando è arrivata la nostra occasione, per fortuna le cose sono andate per il verso giusto.
Se posso chiedertelo, qual è il tuo ricordo più caro o divertente di David quando lavoravate insieme?
Non ho mai conosciuto nessuno che mi facesse ridere così tanto in vita mia. E viceversa, ci facevamo morire dal ridere a vicenda. C’era sempre questo senso di gioia nella nostra collaborazione, la aspettavamo entrambi con ansia, arrivavamo preparati. Ed era come guardare Alcaraz e il tuo connazionale Sinner in quella straordinaria battaglia durata cinque ore al Roland Garros. Scrivere è un po’ come giocare a tennis con qualcuno, spesso ci rimbalzavamo le battute, come se fossimo proprio due personaggi che dialogano. Se riesci a trovare qualcuno che sappia rispondere al tuo servizio e che sappia fare quegli scambi così lunghi, puoi davvero arrivare a qualcosa di bello. Abbiamo scoperto subito un processo che avrebbe dato i suoi frutti.

David Lynch nei panni di Gordon Cole. Foto: Suzanne Tenner/SHOWTIME
Qual è stato il primo pitch, la prima volta che avete parlato di Twin Peaks?
Avevo scritto un progetto che David avrebbe diretto, non ci siamo incontrati di persona, ma è così che ci siamo conosciuti nel 1985. E ci è piaciuto molto lavorare insieme. Quel film non è stato realizzato, molti titoli non vengono realizzati per un sacco di ragioni strane, ma noi volevamo comunque lavorare insieme. Abbiamo scritto un altro film, questa volta seduti nella stessa stanza, e nemmeno quello è andato in porto sei settimane dopo l’inizio della produzione, a causa di una cosa ancora più assurda che è successa… ma questo è lo showbusiness. Così abbiamo lavorato su un paio di altre idee che avevamo in mente. E poi un giorno abbiamo ricevuto una chiamata da uno dei nostri agenti che ci ha chiesto: “Ehi, cosa ne pensate di fare una serie televisiva?”. E da lì è iniziata una conversazione e ci siamo incontrati con i vertici di ABC solo per ascoltarli, non avevamo idea se fosse qualcosa che ci sarebbe piaciuto fare. E quella piccola scia di briciole di pane alla fine ci ha condotto dritto nel cuore più oscuro della foresta.
Dale Cooper è spesso visto come una proiezione dello spirito creativo di Lynch: intuitivo, eccentrico, ossessionato dai sogni. Ma ovviamente avete creato il personaggio insieme.
Sì, e anche con Kyle [MacLachlan], è come se lo avessimo costruito in tre, è stato uno sforzo collettivo. Ci sono alcuni manierismi evidenti che Kyle ha preso e che riflettono David, ma ha anche adattato alcuni dei miei, è stato il collaboratore perfetto per dare vita alla nostra idea. Ed è un carissimo amico ancora oggi.
In Twin Peaks tu hai fatto anche un breve ma memorabile cameo nei panni del giornalista Cyril Pons. È stato un Easter egg o volevi lasciare un’impronta ancora più personale su quel mondo che hai co-creato?
La vedevo proprio così. Avevo già recitato un po’, vengo da una famiglia di attori: mio padre interpretava Doc Hayward, mia sorella Lindsey è un’interprete di successo, mia madre, Mary Virginia Calhoun, era un’attrice formidabile. E, visto che consideravamo Twin Peaks un affare di famiglia, volevamo tutti farne parte. David ha interpretato Gordon Cole ed era esilarante. E ogni tanto avevamo bisogno di un giornalista davanti alla telecamera, quindi mi sono prestato e gli ho dato un lungo arco narrativo di cui abbiamo visto i risultati nella terza stagione. Ed è stato molto divertente perché ho potuto recitare in una scena con l’immortale Harry Dean Stanton e passare del tempo con lui per giorni. È stato fantastico. Quando ci sei dentro, sei completamente immerso, sei parte della città. Ed è così che la pensavamo riguardo a Twin Peaks. Ne abbiamo sempre parlato come se fosse un posto reale.
Ecco: Twin Peaks. Come è nata questa cittadina di provincia piena di melodrammi, ciambelle e agenti dell’FBI?
Noi lavoriamo sul microcosmo: scegliamo una cittadina e in un certo senso le chiediamo di rappresentare tutta l’America. Anzi, tutto il mondo. Perché quando le persone si organizzano in una piccola società come questa, i ruoli sono molto ben definiti. Tutti conoscono tutti. È la base di come la civiltà umana si è formata e ha progredito, anche da un punto di vista sociologico. Quindi quale organismo migliore per studiare, per capire le persone, di questa organizzazione socioeconomica molto contenuta e facilmente penetrabile? La verità è che abbiamo creato prima la cittadina, abbiamo proprio disegnato una mappa.
Cioè?
David l’ha tratteggiata sul retro di una tovaglietta in un bar. Ed è da lì che è nato il nome. Avevamo disegnato tutte le strade e dato un nome a tutti gli edifici. L’abbiamo guardata, ci chiedevamo come potessimo chiamarla. E ho detto: “Be’, qui abbiamo White Tail Mountain e lì Blue Pine Mountain. Perché non la chiamiamo Twin Peaks?”. E non abbiamo mai discusso su questo. Sentivamo che avrebbe funzionato.

Kyle MacLachlan (Dale Cooper), Laura Dern (Diane Evans), David Lynch (Gordon Cole) Foto: Suzanne Tenner/SHOWTIME/MUBI
Poi avete ripreso la storia nel 2017 con Il ritorno, una terza stagione che in qualche modo è riuscita ad essere ancora più misteriosa, più radicale e più straziante. È stata una specie di chiusura del cerchio? Com’è stato tornare a Twin Peaks?
È stato fantastico sotto ogni punto di vista, perché è successo quando eravamo pronti.
Ma qual è stata la scintilla?
Ho chiamato David per la prima volta credo nel 2012, riflettendo sul fatto che per tutto quel tempo la serie stava andando avanti, aveva una seconda e una terza vita. E una volta che siamo arrivati ai DVD e ha iniziato a diffondersi in tutto il mondo, è letteralmente rinata. Avevamo iniziato a organizzare queste convention di fan, gli attori che avevano partecipato allo show ci stavano aiutando a far sì che tutto questo accadesse. Così ho detto: “Proviamoci”. E a David è piaciuta l’idea che avevo. Questo ha portato a un anno intero di discussioni per sviluppare il tutto e poi a una sceneggiatura di quasi 500 pagine, che abbiamo scritto senza interruzioni tra un episodio e l’altro. Boom, questo era il nuovo Twin Peaks. Non sarebbe stato il vecchio show, sarebbe stato qualcosa di nuovo. Avrebbe raccontato chi eravamo diventati, com’era cambiato il mondo, com’erano cambiate tutte le persone che conoscevamo e che avevano fatto parte della città. Il passare del tempo è diventato uno dei temi principali del Ritorno. Ed è qualcosa di piuttosto universale, è la vita.
Twin Peaks fa ormai parte della memoria cinematografica globale: viene insegnata nelle università, citata nei meme e anche copiata da altre serie in streaming. Che effetto fa?
È meraviglioso. Se racconti storie, tutto ciò che desideri è che continuino a vivere nei cuori delle persone. E a quanto pare ci siamo riusciti. E questo, per me, è il riconoscimento massimo, l’esperienza più appagante che abbia mai avuto nella mia vita professionale.
C’è una serie che consideri una sorta di erede spirituale di Twin Peaks?
Di solito preferisco lasciare questo genere di cose ai critici, perché non voglio scegliere una serie a discapito di un’altra. Ma so che ha ispirato molti showrunner. Alcuni hanno cercato di prendere tutti gli elementi identificabili per copiarne la ricetta, ma questi tentativi per la maggior parte non hanno funzionato perché mancano il cuore e l’anima. Altri invece sono stai ispirati a creare la propria magia con le loro storie. David Chase, per esempio, mi disse che I Soprano non avrebbe avuto così tante sequenze oniriche se non avesse visto Twin Peaks. E questo, per me, è il complimento più bello.
Ti è mai capitato di guardare una serie e pensare che avresti voluto scriverla tu?
Ce ne sono state un paio in particolare che mi hanno davvero ispirato quando ero più giovane: The Prisoner di Patrick McGoohan mi ha sconvolto, così come in quel periodo 2001: Odissea nello spazio. E poi una serie britannica, The Singing Detective di Dennis Potter. E – di nuovo – nel cinema: Giulietta degli spiriti, Il posto delle fragole, La regola del gioco. Ma parliamo di titoli che sono venuti tutti prima di Twin Peaks. Sono sicuro che mi sia capitato anche con qualcosa di più recente, ma al momento non me ne vengono in mente.

Catherine E. Coulson (La Signora Ceppo). Foto MUBI
Cosa ti piace guardare adesso?
Come avrai capito, sono un grande appassionato di sport. Ero un atleta. Ho un nipote che gioca nella Major League di baseball. Adoro il golf, su cui ho realizzato anche un paio di progetti. Mi piace guardare lo sport perché, diversamente dalle storie, non so come andrà a finire. C’è una sorta di suspense che mi cattura e che cerco di ricreare in quello che scrivo. E poi guardo tante serie, mi faccio consigliare. È un’epoca incredibile per chi ama le storie. Siamo in un enorme supermercato narrativo: mai avuto così tante possibilità. Mi piace ancora nutrirmi di una bella storia.
Quanto è cambiata l’America da quando avete scritto Twin Peaks?
Basta guardarsi intorno. Abbiamo scritto l’originale all’inizio degli anni ’90, la guerra in Iraq è iniziata proprio nel bel mezzo della messa in onda della seconda stagione, e ha avuto un impatto significativo sulla nostra capacità di raggiungere il pubblico, perché continuavamo in qualche modo a essere interrotti. Il mondo reale ha un modo tutto suo di intromettersi nelle storie. E quando siamo arrivati a scrivere Il ritorno percepivo un’oscurità, un’aria minacciosa nel nostro Paese. Noi narratori siamo come canarini nella miniera, avvertiamo i cambiamenti e vogliamo in qualche modo scriverne. Faceva parte della mia motivazione su dove siamo arrivati con la terza stagione. 25 anni dopo c’era moltissimo in più da dire sull’America rispetto a prima. Quindi volevamo che la serie affrontasse tutti questi aspetti anche nel nostro mondo contemporaneo. E a quanto pare ne abbiamo pure anticipato alcuni.
Ultima, inevitabile domanda: l’agente Cooper è ancora lì da qualche parte? Dove? E quando?
La parola chiave è “da qualche parte”. Ma, per quanto mi riguarda, sì.
Quindi non è solo un altro sogno da cui continuiamo a cercare di svegliarci?
Questa è una domanda di cui non conosceremo davvero la risposta, almeno finché saremo vivi. E forse nemmeno dopo. Ma sperare che non lo sia è già una buona ragione per andare avanti.