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Mariasole Pollio, ‘Oltre’ tutto (social compresi)

A differenza di molti colleghi da svariati-kappa di follower, nella sua storia la recitazione è arrivata prima di Instagram: leggere il suo primo libro per credere, in cui a 17 anni racconta senza filtri di ansia e problemi alimentari


La differenza tra Mariasole Pollio e molti suoi colleghi da svariati-kappa di follower che pubblicano biografie da svariate-kappa di copie vendute, sta in un dettaglio che per me ha un peso: nella sua storia la recitazione è arrivata prima dei social. Prima che scoppiasse come fenomeno YouTube durante le scuole medie e che Francesco Facchinetti ne intravedesse il potenziale “talent”, prima che lei si tirasse dietro, su Instagram e TikTok, circa 1 milione e mezzo di follower. Insomma, che a 3 anni MSP fosse già iscritta a un corso di teatro e a 7 a una scuola di cinema, mi impone di cambiare punto di vista.

Così mentre leggo Oltre, il suo primo libro edito da Mondadori Electa, riesco a vedere effettivamente “oltre” l’operazione mediatica e una certa parabola di successo che oggi si ripete in serie. Trovo una ragazzina napoletana folgorata dal mito di Sophia Loren, scissa tra il sogno di recitare e il carico di una popolarità enorme che – per quanto studiata da professionisti – è dettata dalle regole del web, in cui, che ci piaccia o meno, una buona dose di meritocrazia fa la sua parte. E quantomeno il “televoto” funziona meglio che nei talent.

Oltre il primo ruolo da co-protagonista in Don Matteo, quello nel film di Pieraccioni Se son rose e la conduzione di Battiti Live, c’è un’adolescente che combatte contro il mostro dell’attacco di panico e le sue conseguenze ambigue sull’alimentazione. Tra festeggiamenti, provini, una schiera di fan e convocazioni all’alba sul set, alla sua età Mariasole Pollio avrebbe potuto sbattere la porta in faccia alle responsabilità in diverse occasioni: ma non l’ha fatto. Avrebbe anche potuto raccontarsi al minimo, senza esporsi troppo, senza tirare in ballo ex fidanzati che la leggeranno o approfondire le ombre della popolarità: il suo libro avrebbe venduto comunque. Invece. «Ho portato anche la verità degli attacchi di panico e dei problemi alimentari», mi racconta. «Volevo che questi aspetti non mi definissero come persona. Condividerli con il mondo significava lasciarmi andare: adesso non mi fanno più paura».

Mariasole Pollio con Leonardo Pieraccioni in ‘Se son rose’

Un libro a 17 anni. Hai avuto coraggio a esporti tanto.
Quando me lo hanno proposto ero scettica, pensavo di essere troppo giovane per avere qualcosa da raccontare. Non avevamo una storia e non poteva essere una biografia: a neanche 18 anni che biografia vuoi fare? Ma dopo i primi incontri con la ghost writer, parlando sono venuti fuori molti argomenti. Provo a spiegarti la sensazione: dentro di me c’erano delle cose forti, sentivo di essere una ragazza giovane che parlava alla sua generazione, ma che vive anche una vita insolita rispetto agli altri adolescenti.

Dallo scetticismo iniziale alla scelta di raccontare gli attacchi di panico, gli ex che ti hanno rifiutata e i problemi alimentari: cosa è successo?
Mi sono presa del tempo. A forza di parlare ci siamo ritrovati con i primi capitoli tra le mani e abbiamo capito che non avevamo bisogno di una storia ma della verità, quella che si tende a non voler raccontare. Perché ti fa più male. A me questa verità faceva ancora male? Sì. E infatti mentre scrivevo ho compreso molte cose e altre le ho lasciate andare. Sono orgogliosa di questo libro perché mi sono vista da fuori, mi sono rimproverata, dispiaciuta e poi sentita orgogliosa. Parlare solo delle mie emozioni non era sufficiente: se ti racconto la paura, ti dico quando ho avuto paura.

Leggendo il libro mi è rimasta questa immagine di te, sempre performante tra le persone mentre gestivi anche i sacrosanti drammi di un’adolescente. Come ti sentivi mentre tenevi in equilibrio tutto?
Ho sentito tante volte di non appartenere a niente. Mi chiedevo spesso: ma cosa sono? Sul set ero al massimo, come fossi a casa, ma fuori dal set mi sentivo più grande dei ragazzi della mia età. Bene, allora provavo a parlare con i più grandi, ma lì tornavo a sentirmi piccola. Ero in una confusione tremenda. Alla fine ho capito che i momenti brutti non vanno a distrarre le belle occasioni: potevo essere entrambe le cose, sia la mia forza che la mia fragilità. Avevo questo problema gigantesco e non riuscivo ad accettare di non essere perfetta. Mi confrontavo con aspettative talmente alte, che però non mi aveva messo davanti nessuno. Ad un certo punto l’ansia era così presente da non capire più se fossero gli attacchi di panico oppure l’adrenalina positiva di fronte ad una sfida professionale. Ho imparato ad accogliere tutto: anche se era un attacco di panico, veniva, faceva male e poi andava via. Piano piano è andato via davvero.

Il vero collante del libro e della tua vita credo sia il rapporto con la tua famiglia. Brilli di una luce che appartiene solo ai figli grati. Quale pensi sia il più grande merito dei tuoi genitori?
Da quando sono nata hanno avuto un paio di ali da darmi. Erano già pronte mentre ero nella pancia di mia mamma, lei è una donna fortissima. Mi hanno cresciuta con molti valori e con un forte senso di responsabilità, ricordandomi sempre: «Scegli cosa filtrare, cosa ascoltare e tenere con te del mondo che hai davanti». Soprattutto, però, quando le ali si sono spezzate mi hanno insegnato a prendere da sola l’ago e il filo per ricucirle: questo ti fa crescere consapevole e ti dà la forza di non dipendere da nessuno.

Styling: Mimina Cornacchia/Gabriella Piluso. Look: Stella McCartney

Anche quando faticavi a mangiare o portavi avanti quella che hai definito «una relazione tossica» con un ragazzo.
Sì, mi rendo conto che è stato difficile per loro. Sono sempre rimasti un passo indietro, anche quando un altro genitore sarebbe andato sei passi avanti. Mi hanno sempre amata e protetta ma facendomi sentire autonoma: è grazie a loro se adesso posso farcela anche senza di loro.

A 8 anni c’è stato il tuo primo rifiuto professionale, precoce anche qui. Ti hanno scartata all’ultimo per il ruolo da protagonista in una fiction. Lo hai definito un trauma: oggi come vivi i rifiuti?
Benissimo. Fatico di più ad accettare il rifiuto personale. Quello lavorativo ora è benzina per la mia macchina. Mi dici che non sono capace, che non sono adatta per quel ruolo? Non mi trovi simpatica e non vuoi prendermi nel tuo cast? Va bene, cercherò di essere meglio di come mi sono presentata a te.

Nel tempo hai calibrato anche il modo di presentarti sul set. Quando hai capito che la tua esuberanza andava adattata al contesto lavorativo?
Mi rendevo conto che amando il lavoro rischiavo di prenderlo in modo troppo espansivo. Altre persone avevano un approccio diverso dal mio, esprimevano felicità anche solo con un sorriso. Per me invece era tutto sempre over, over, over. Mi è capitato che mi dicessero: «Mary, stiamo girando», oppure: «Mary, piano, qui stanno ripetendo le battute…». All’inizio ascoltavo poco ed era un problema, ero sempre concentrata su quello che volevo dire. La mia mente andava troppo veloce. Ecco, ho imparato a prendermi il mio tempo e ascoltare. Dosare l’energia. Capire con chi poter essere al cento per cento e con chi essere allegra ma più contenuta.

E nella vita privata?
L’attenzione all’ascolto che ho imparato sul set l’ho portata anche nella vita privata. Adesso mi soffermo molto, mi impegno a prendermi un secondo in più per capire e per rispondere.

Su Instagram hai raggiunto 1,4 milioni di follower, mentre su TikTok sono addirittura 1,5. Spesso tanta popolarità social si tira dietro anche il pregiudizio e la discriminante di “influencer che fa l’attore”. Senti mai questo conflitto?
Mi sento fortunata perché non sono partita dal social per poi iniziare a studiare recitazione. Vengo da una formazione scolastica, ho iniziato a studiare teatro e cinema da bambina, lavorando sulle scene e sulla memoria fino alla morte. Il web è sempre stato il mio tramite di condivisione con il pubblico, mi sono servita dei social per portare il mio lavoro anche lì. Non sento la pressione di un conflitto con il lavoro di attrice, anche se ogni tanto qualcuno confonde le cose. Penso che tutti possano fare tutto ma bisogna studiare. Sono per la meritocrazia, non mi piace chi arriva in alto perché ha già un milione di follower.

Essere un personaggio social però è ancora un’etichetta negativa.
Sì, è come se fosse una cosa brutta. È vero anche che molte persone si nascondono dietro al numero di follower per definirsi, e questo pregiudica tutta la percezione verso gli altri.

Non avevi paura che anche il tuo libro potesse rientrare nel calderone “influencer che pubblicano libri”?
Tantissima. Ma quando ho letto le prime parole e mi sono emozionata, ho detto: «Ok, va bene lo stesso. Io in ogni caso lo farò per me stessa».

La musica ha un ruolo dominante nella tua vita da adolescente, e con la conduzione di Battiti Live è entrata anche nella tua carriera. Nel libro hai stilato una playlist dei tuoi brani must. Te ne cito tre: Polynesia di Gazzelle.
Polynesia per me è libertà, adolescenza, amici. Bar, viaggi, aperitivi. Quella canzone è la mia leggerezza. Non sono mai stata ad un live di Gazzelle ma voglio recuperare presto.

L’estate addosso di Jovanotti?
Per me rappresenta l’estate in sé, quando sono la versione migliore di me. Senza trucco, al mare con gli amici e con il telefono staccato.

A Sky Full of Stars dei Coldplay?
Lì dentro c’è tutto il mio lavoro. La voglia di raggiungere sempre più obiettivi e l’emozione di sentirmi fiera. Mi dà carica, mi fa immaginare a Sanremo o ai David.

Hai affermato senza giri di parole che il mondo dello spettacolo non è molto accogliente. Sei all’inizio ma lo hai già capito con grande lucidità: cos’è che non accetterai mai?
Non mi piace chi cerca di schiacciarti ad ogni costo per affermare sé stesso. Non accetterò mai le ingiustizie e i compromessi, anche di fronte a chi è più potente di me. Se sei così non mi vai bene, preferisco rifiutare. Al contrario ci sono moltissime persone che fanno questo mestiere per amore puro. Ma non è sempre così, e quando l’ho capito è stata una brutta botta. Se trovo l’ambiente sbagliato cerco di schermirmi: diventano solo colleghi, non devo andarci a cena, non devono ostacolare il mio sogno.

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