Maria Sole Tognazzi, la vita (e il cinema) che ho deciso | Rolling Stone Italia
(Non) viaggio sola

Maria Sole Tognazzi, la vita (e il cinema) che ho deciso

Il suo nuovo film, ‘Dieci minuti’, che è una sfida al cambiamento (anche di sé stessa come regista). E poi il metodo, l’eredità, il successo dell’amica Paola Cortellesi, i “mi hai rotto il ca**o” che servono quando ci sentiamo «strappati». Una chiacchierata libera, come i suoi film

Maria Sole Tognazzi, la vita (e il cinema) che ho deciso

Maria Sole Tognazzi dirige Barbara Ronchi sul set di ‘Dieci minuti’

Foto: Luisa Carcavale/Vision Distribution

Quest’intervista sarebbe dovuta durare dieci minuti, ma con Maria Sole Tognazzi come si fa, quanto ce piace chiacchiera’, come diceva quel vecchio spot (con un’attrice che peraltro lei ha meravigliosamente diretto). Dieci minuti – che è anche il titolo del suo nuovo, bel film, in sala dal 25 gennaio – tanto basta per le prove che dovrebbero svoltarti la vita, o almeno svoltarla a Bianca (Barbara Ronchi), piantata dal compagno dopo diciott’anni e in pieno smarrimento. Arrivano una psichiatra (Margherita Buy) e una sorella ritrovata (Fotinì Peluso) a tamponare la crisi, ma si capisce che dovrà farcela da sola. Però c’è un giochino ad aiutarla: ogni giorno una cosa nuova, solo per dieci minuti. Che è invece il titolo del romanzo di Chiara Gamberale da cui il film è tratto, adattato per il cinema da Tognazzi con Francesca Archibugi.

Io il libro non l’ho letto, ma te lo posso dire? Per me il film è sicuramente meglio.
(Ride) Proprio come concetto generale, dici?

Sì, ne sono certo.
Io posso solo dirti che sono tanto soddisfatta. Non è vero che l’ultimo film che fai è sempre quello che ami di più, però a questo mi sono tanto affezionata, mi è entrato dentro gradualmente, l’ho capito realmente quando l’ho finito neanche di girare, proprio di montare.

E dire che è nato, diciamo così, su commissione.
Detto così sembra brutto, ma, per capirci, sì. Indiana ha preso i diritti del romanzo e ha offerto a me la regia e a me e Francesca la scrittura. Abbiamo accettato volentieri di collaborare perché non ci conoscevano, era la prima volta che lavoravamo insieme. È strano, perché i miei film sono sempre nati da idee e soggetti miei, questa era la prima volta dopo Petra (la serie tv dai romanzi di Alicia Giménez-Bartlett, su Sky e NOW, nda), che era la mia primissima esperienza di adattamento.

Margherita Buy e Barbara Ronchi in una scena del film. Foto: Luisa Carcavale/Vision Distribution

Non vorrei fare spoiler…
Massì, ma sticazzi, spoilera tutto.

Allora, il bello di questa tua nuova protagonista è che sarebbe tradizionalmente “la vittima”, e invece poi si ribalta tutto. E quindi ti ringrazio per questo film davvero per spettatori adulti, dove nei personaggi e nelle storie si mette una certa complessità.
È stato il mio motivo di interesse, l’idea era proprio quella di scrivere un personaggio così. Non abbiamo stravolto il romanzo, sia ben chiaro, ma ci siamo ispirate diciamo molto liberamente. Il romanzo aveva quell’idea di fondo dei dieci minuti che secondo noi funzionava proprio cinematograficamente. Poi però ci siamo permesse – io e Francesca nella scrittura, io da sola come regista – di trasformare il libro di Chiara Gamberale nel mio film. E quindi abbiamo aggiunto, cambiato. Il personaggio della sorella, per dirti, non esisteva, nasce da mio fratello Thomas.

“Il norvegese”.
Sì, lui. A un certo punto nella nostra vita è spuntato questo fratello dalla Norvegia (Thomas Robsahm, figlio di Ugo Tognazzi e dell’attrice norvegese Margarete Robsahm, nda), e allora anche per il film ho pensato: mettiamoci Jasmine, una sorella che Bianca non conosce, che arriva nella sua vita improvvisamente e je tira du’ pizze. Jasmine è Thomas. Ho cercato, insomma, di far diventare mio il libro di Gamberale, con molta libertà anche da parte sua: io le ho detto che avrei preso il suo romanzo nelle mie mani, mantenendone il senso e il cuore ma cambiando delle cose, e lei è stata molto carina, ci ha detto: “Fatene ciò che volete”.

Be’, ha avuto culo: era in ottime mani. Le vostre, e pure quelle di Barbara Ronchi, che si è data completamente a questo ribaltamento.
L’intento era quello di sorprendere, e sai quanto ci sono stata sempre attenta. I miei ultimi lavori sono sempre stati dedicati a figure femminili, e ho sempre cercato di raccontare quelle donne che avrei voluto vedere sullo schermo e che non vedevo rappresentate. Questo personaggio era complesso proprio perché pieno di debolezze, limiti, difetti, non era il santino della donna perfetta, tutt’altro. E Barbara ci ha permesso di esplorare ogni sentimento, ogni turbamento di questo strappo che vive dopo diciott’anni di relazione, finendo per capire di essere stata anche lei causa della rottura. Quello mi interessava, il mettersi in discussione, e ancora prima il racconto di quello strappo che porta le donne – ma anche gli uomini – a entrare in quell’ossessione, in quella forma di vittimismo tale per cui la gente che ti sta attorno non ne può più. Nel film pure la sua psichiatra a un certo punto di fatto le dice: “Mi hai rotto il cazzo”. E allora le propone quel giochino che in realtà sono una serie di incontri, e attraverso quegli incontri quella matassa si comincia a sciogliere, perché questo succede quando stiamo male: non riusciamo più a osservare realmente gli altri, siamo talmente concentrati sul nostro dolore che vogliamo solo farci ascoltare, e questo è accaduto a tutti nei momenti di separazione, di dolore grande. Perdi proprio l’osservazione del mondo che ti circonda.

Maria Sole Tognazzi sul set con Barbara Ronchi. Foto: Luisa Carcavale/Vision Distribution

C’è questa cosa nel tuo cinema – e penso a Passato prossimo come all’Uomo che ama, e ovviamente a Viaggio sola, Io e lei, adesso Petra – e cioè che ci metti sempre un’eleganza speciale, morbida, un tocco che è soltanto tuo. Per dire: è bella pure la Rinascente – quella di Roma peraltro: se proprio Rinascente dev’essere, allora quella vera, quella di Milano.
(Ride) Ti ringrazio tanto. Ma sai, quella è una forma di equilibrio. Qualunque regista cerca di avere un tocco, di essere esteticamente interessante, perché è con le immagini che lavoriamo. Ma allo stesso tempo crescendo – perché è una cosa che si impara e perché dopo un po’ di tempo ti inizi a conoscere meglio nel lavoro – anche la forma estetica o il virtuosismo della macchina da presa non ti interessano quasi più: quello che viene, se viene bene, accade in maniera spontanea, naturale. Istintivamente ho trovato la mia cifra, può essere bella o brutta ma è la mia, e io semplicemente la seguo senza ragionarci tanto sopra. Non c’è mai il desiderio di stupire, di fare “la cosa elegante”. Se poi lo diventa o lo è per sua natura sono ancora più contenta, perché non era stata pensata a tavolino.

Ora ti dico delle parole magiche: lo sguardo femminile.
Che due coglioni…

Ecco, sì. Da una parte che due coglioni, dall’altra però, in questo cinema che ha scoperto la retorica delle “registe donne”, puoi permetterti di alzare la manina e dire: “Ragazzi, io è da mo’ che ce sto, col mio sguardo femminile”.
Guarda, è sempre il solito concetto: io non credo nello sguardo femminile, credo nella sensibilità di un autore, che sia uomo o donna, e nel modo in cui lo racconta, quel femminile. È un concetto che ho sempre ribadito, dai tempi di Viaggio sola: è il modo in cui metti in scena le donne, non il fatto che lo faccia una donna. Io faccio dei film, punto. Ed è vero che forse le mie storie trovano una maggiore identificazione con il pubblico femminile, però se – e lo dico in questo momento storico in particolare – anche alcuni spettatori uomini, vedendo le donne rappresentate in un certo modo, capiscono delle cose o cambiano il loro punto di vista, allora sono ben contenta. Questo è il mio modo di fare politica senza mai voler essere ideologica. Io non mi esprimo mai sulle grandi questioni sociali, lascio parlare i miei film. Quello che posso fare, da donna, è esprimermi attraverso le storie che racconto, che sono l’unico mezzo che ho. Non sono né abbastanza preparata per farlo in un altro modo, né mi interessa, ti arrivo a dire. Lo so fare solo così. È il mio contributo a voler definire o cercare di cambiare la visione.

Barbara Ronchi è Bianca. Foto: Luisa Carcavale/Vision Distribution

Parlando di cambiamento di visione, quello di Paola Cortellesi è stato uno scossone. Con Paola hai fatto Passato prossimo, il tuo primo film e uno dei suoi primi, e ora Petra, ed è una persona a te molto vicina…
Per me è stata una gioia che non ti so dire. Ho visto il film in sala due volte, una da sola e l’altra ci ho portato mia madre. E posso solo dirti che sono felice, ma non solo per il classico ragionamento “finalmente un film di una donna”, e bla bla bla; semplicemente perché Paola è stata estremamente coraggiosa, voleva fare da anni il suo debutto e ci ha lavorato come una matta: lo so perché c’ero. E sono felice che la professionalità, l’impegno, l’intelligenza che ha messo per realizzare questo suo primo film siano state non solo premiate, ma prima di tutto riconosciute. È stato riconosciuto questo suo gesto importante, che ha ottenuto oltre l’immaginabile.

Qual è la più grande lezione di cinema che hai ricevuto?
Ti direi l’osservazione. Prima di esordire ho fatto l’aiuto regista per tanti anni, e lì ho studiato tanto, proprio da autodidatta. Ho imparato tutto guardando i film e osservando i registi che li facevano, e tutto quello che so l’ho appreso a volte involontariamente, ovviamente anche dalla mia famiglia: pur essendo stata tanto distante dal lavoro di mio padre, perché ero una bambina, sono cresciuta in una famiglia di cinema, tutto quello che mi è arrivato è stata una lezione, e me lo sono poi ritrovato tra le mani nel momento in cui ho intrapreso una carriera. Non ero neanche sicura di essere capace, l’ho imparato facendolo e senza nemmeno essere tanto rapida. In questi ultimi anni sto macinando tanto perché tra un po’ vado in pensione, so’ le ultime cartucce, ma quando ero più piccola tra un film e l’altro ero lentissima, ci mettevo cinque anni, manco fossi chissà chi. Invece mi sono resa conto nell’ultimo periodo e soprattutto con Petra, che è stata una cosa faticosa perché la serialità ti porta a mesi e mesi di riprese, è proprio un altro modo di rapportarsi al lavoro, ecco mi sono resa conto che più ho lavorato – e so’ stanchissima, sto per morì – più ho imparato qualcosa di nuovo. Ed è meraviglioso, è un allenamento bellissimo. Se ti fermi perdi delle cose, invece se fai capisci meglio cosa sei in grado di fare e cosa per niente.

Paola Cortellesi in una scena di ‘Petra’. Foto: Sky

Tu cosa sai fare?
Negli ultimi anni ho iniziato a lavorare con gli attori in maniera diversa, molto più libera. C’è questa psicologia che devi inevitabilmente mettere in atto, nel momento in cui ti rapporti con gli attori, e anche quella è una cosa che impari. Impari non solo a saperti spiegare, ma anche a capire che ogni attore è diverso dall’altro, e che quindi il tuo rapporto con lui o con lei non potrà mai essere lo stesso. Questo non va di pari passo con la grandezza o la bravura dell’attore, ma con l’essere umano che hai di fronte. Oggi faccio un lavoro molto più preciso rispetto a prima. Quando ero più piccola ero anche più attenta a tutto quello che riguarda i movimenti macchina, come dicevamo, adesso me ne sono liberata. Siamo continuamente in evoluzione come persone, e questa evoluzione che si mette in atto – si spera per crescere – ti permette di cambiare, e cambia anche il modo in cui ti rapporti al lavoro. Quando sono riuscita a mettere in moto questo cambiamento, che per me è sempre stato frutto di paura, ho capito che quella paura non ce l’avevo più e sono cresciuta, lavorativamente parlando, e forse pure nella vita. Che poi è proprio il tema del film: attuare il cambiamento attraverso gli incontri, e quelle famose prove.

Alla fine pure il giochino serve, vedi?
Io un po’ di quei dieci minuti li ho fatti, ma mai durante le riprese. Ultimamente diciamo che ce provo.

Un esempio.
L’altro giorno ero a farmi le mani nel posto in cui vado sempre, conosco le ragazze da una vita e loro mi dicono: “Allora Sole, adesso esce il film…”. Lì accanto a me c’era questa signora americana, e io a un certo punto penso: “Ma a questa che cazzo je frega?”. Allora mi volto e mi dico proprio: “Mo’ faccio i dieci minuti”, e le dico: “Signora, mi spiace che ha dovuto sentire questo noiosissimo dialogo, ma insomma ha capito che faccio la regista”, e lei annuisce, e io allora le racconto la storia del film, e alla fine le dico: “Mi deve dire la verità: lei lo andrebbe a vedere?”, e lei mi risponde di sì, mi chiede pure in che sale lo daranno. Questo per dirti che non avevo mai fatto questa cosa di raccontare un mio film a un’estranea totale, arrivando persino a farmi promettere che andrà a vedere il mio film. Adesso potrei andare avanti, fermare la gente per strada… però non ho continuato, il giochino è rimasto lì.

Dieci minuti (2023) - Trailer ufficiale - Dal 25 gennaio al cinema

Ancora gli incontri…
Eh sì, perché quello è il tema, ed è semplice. Tutte le donne e tutti gli uomini hanno vissuto quello strappo, e il film indica che l’unica strada per attraversarlo invece di subirlo è mettersi in discussione, giocare, allargare il campo visivo fino a scoprire dov’è davvero la ferita profonda che quello strappo ha riaperto. È una cosa proprio facile facile.

Tu sei mai stata strappata?
Porcoddue… ma non così tante volte in realtà, perché non ho avuto tante storie. Ma ho vissuto come tutti il dolore, l’abbandono, ho collezionato boccette di vari ansiolitici, ho fatto analisi, ho rotto il cazzo… Quanto siamo noiosi quando soffriamo per amore, quante telefonate facciamo agli amici, quanto narcisismo gli buttiamo addosso. E se l’altro te vuole bene te deve sta’ pure a sentì: siamo una rottura di coglioni senza pari.

E si torna al “mi hai rotto il cazzo”.
Si finisce sempre lì. Il film si poteva anche intitolare così: Mi hai rotto il cazzo. Non era brutto per niente.