'Making a Murderer 2': il caso di Steven Avery non è ancora chiuso | Rolling Stone Italia
Interviste

‘Making a Murderer 2’: il caso di Steven Avery non è ancora chiuso

Nella seconda parte della true crime serie viene introdotto un nuovo personaggio: Kathleen Zellner, avvocato celebre per aver fatto scagionare 17 uomini ingiustamente condannato. Ne abbiamo parlato con le creatrici e registe Laura Ricciardi e Moira Demos.

‘Making a Murderer 2’: il caso di Steven Avery non è ancora chiuso

“Non pensavo che a tanta gente importasse una cosa così piccola”, a commentare è Steven Avery in persona. Mezzo mondo infatti parla da mesi di Making a Muderer, la serie true crime del 2015 che ha portato all’attenzione del pubblico e dei media la sua vicenda.

Avery infatti, originario della contea di Manitowoc, nel Wisconsin, nel 1985 fu accusato e condannato per violenza sessuale su Penny Beerntsen, che lo aveva identificato. Lui ha sempre avuto un alibi e ha sempre sostenuto la sua innocenza.

Dopo aver scontato 18 anni di carcere, è stato prosciolto con il supporto dell’associazione The Innocence Project. Le prove del DNA hanno dimostrato che era innocente e che un altro uomo, Gregory Allen, era il vero autore dello stupro.

Dopo la sua liberazione, Avery ha deciso di presentare una causa civile per 36 milioni di dollari contro la contea di Manitowoc e vari funzionari, ma due anni dopo, con la causa ancora in sospeso, è stato arrestato di nuovo, questa volta per l’omicidio della fotografa Teresa Halbach. Avery ha affermato di essere innocente. Parallelamente c’è poi la versione del nipote di Avery, Brendan Dassey, anch’egli arrestato e condannato all’ergastolo.

La seconda stagione (in arrivo il 19 ottobre su Netflix) racconta il nuovo processo dopo la condanna e il caos emozionale di protagonisti e famiglie, introducendo un nuovo fondamentale personaggio: Kathleen Zellner, avvocato celebre per aver fatto scagionare 17 uomini ingiustamente condannati. “Il mio obiettivo è uno” dice “invalidare la condanna di Steven Avery”. Abbiamo fatto una chiacchierata con Laura Ricciardi e Moira Demos, che hanno scritto, diretto e prodotto Making a Muderer, vincendo anche 4 Emmy.

Nella prima stagione nessuno era a conoscenza della storia, ora le persone hanno visto la vostra serie e sanno tutto: come avete fatto a mantenere interessante qualcosa che il pubblico ormai conosce bene?

Moira Questa è una bella domanda. Ci sono sicuramente aspetti diversi nella seconda parte. Una delle differenze è che, appunto, ora le persone seguono la vicenda, quindi abbiamo davvero dovuto comprimere il lasso di tempo in cui lavoravamo. La parte di montaggio e di post-produzione è stata fatta mentre giravamo, per essere sicuri tra la fine delle riprese e il rilascio della nuova stagione trascorresse il minimo indispensabile. Ed è vero che puoi andare online o leggere i titoli sulla storia o le sentenze della corte, ma noi crediamo che il punto non sia come va a finire la vicenda, ma come ci si arriva, che percorso si segue. E il nostro obiettivo era quello di far fare al nostro pubblico un viaggio, un’esperienza. Li guidiamo in questo processo dopo la condanna, che è una parte davvero poco conosciuta del sistema: siamo sicure che anche in questa seconda parte ci saranno scoperte e cose inaspettate per lo spettatore.

Come siete riuscite a seguire insieme la parte burocratica del processo e tutta la questione emozionale che ci sta dietro?

Laura Nella seconda parte documentiamo il lavoro di due team legali: quello di Brendan Dassey, composta da Laura Nirider e Steven Drizin, che lavorano all’Università e dirigono la clinica legale, e Kathleen Zellner, che è un’avvocato di grande successo, un’istituzione del post condanna, che collabora non solo con investigatori privati, ma anche con scienziati per raccogliere le prove sul caso e certamente ha accesso ha avuto acceso a personaggi chiave, che hanno avuto un ruolo attivo nei primi passi del processo. Ma, come dicevi tu, c’è anche il lato emozionale di tutto questo: è stato importante per noi avere accesso a Steven Avery ancora una volta e a Brendan Dassey, alle telefonate con gli amici e le famiglie, e passare del tempo di nuovo con la famiglia Avery e Dassey per esaminare il prezzo emozionale di tutto questo.

Avete visto i vostri personaggi cambiare in qualche modo, crescere dalla prima alla seconda stagione?

Uno dei più grandi temi della seconda parte è il tempo che è passato, ti rendi conto di quanti anni ci vogliano. Ne sono trascorsi dalla condanna e continuano a passare mentre Steven e Brendan cercano di avere un’altra opportunità di appello alla corte. Vedi i genitori di Steven che invecchiano, con tutta la pressione su di lui e sul suo avvocato Kathleen Zellner, sapendo che c’è l’orologio che fa tic tac.

Qual è stata la cosa più facile e quella più difficile di questa seconda parte?


Gli aspetti più semplici sono stati un paio: identificare quale sarebbe stato il vero tema di questa stagione, abbiamo provato al nostro meglio a chiarirlo sia nella serie che nel comunicato stampa: sentire due individui, Steven e Brendan che sono stati condannati per un crimine terribile e stanno scontando l’ergastolo ma che, attraverso i loro avvocati, stanno cercando di mettere in discussione la loro condanna per riguadagnare la libertà e ripulire il loro nome. Immaginiamo che paghi un prezzo altissimo chiunque sia toccato da questo, inclusa ovviamente la famiglia della vittima, perché ne abbiamo parlato e crediamo non ci sia nessun vincitore in questa storia, tutti hanno sofferto. Per noi trovare la drammatica domanda centrale della storia è stata la cosa più facile. L’aspetto più complicato invece è stato fare del nostro meglio per dare agli antagonisti una presenza nella storia, abbiamo contattato tutti i livelli, da quello della Contea al Procuratore Generale dello stato per capire se avrebbero partecipato e condiviso la loro prospettiva con noi: hanno scelto di non partecipare e abbiamo dovuto trovare modi di includere comunque il loro punto di vista.

Vi aspettavate il grandissimo richiamo che ha avuto la prima stagione di Making a Murderer?

No, non c’era modo di prevedere il livello di risposta alla serie, mentre lavoravamo alla prima parte come storyteller e filmmaker ovviamente stavamo facendo un lavoro con la volontà di condividerlo e pensavamo agli spettatori tutto il tempo, mentre cercavamo di costruire un’esperienza per un pubblico. Ma poi capire, avere un feedback sul nostro operato, sui personaggi, sui temi, è stato davvero gratificante.

Come hanno reagito gli abitanti di quel sobborgo in Wisconsin alla serie?



C’è stato un range di reazioni diverse. Per la prima stagione ci siamo trasferite in Wisconsin da New York dove vivevamo dopo la laurea e quando eravamo in location a filmare c’era una narrativa dominante: Steven Avery potrà anche avere l’appoggio dello stato perché il DNA ha esonerato qualcuno che stava scontando un crimine che non aveva commesso, ma secondo le forze dell’ordine non dovrebbe più avere quella solidarietà perché ha fatto una scelta per la sua vita quando ha deciso di uccidere una giovane donna innocente, Teresa Halbach. Quindi quella era l’opinione della maggioranza, ma dopo che è uscita la serie, abbiamo iniziato a sentire persone che hanno vissuto con lui in comunità avere delle riserve, non capivano perché uno come Steven avesse combattuto per essere rilasciato, fosse finalmente riuscito a uscire di prigione, avesse in corso una causa di risarcimento da 36 milioni di dollari con la contea, e commettesse un gesto del genere.

Perché le documentary series, e in particolare le true crime stories, hanno molto successo ultimamente?

È difficile parlare per tutti quei prodotti, però quando penso alla nostra serie in particolare, sentendo anche le opinioni degli spettatori, credo che abbiamo catturato molti temi universali, che le persone abbiano riconosciuto delle dinamiche di potere importanti e delle storie di underdog in cui molti si identificano. Viviamo in un tempo dove la differenza tra chi ha e chi non ha è profondissima, tra quelli che hanno il mondo in mano e quelli che devono combattere contro di esso: molte persone credono che le istituzioni non diano loro molte chance.