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Maccio Capatonda: l’intervista (che sta tra la prevista e la postvista)

La comicità, gli inizi e, ovviamente, il successo della seconda stagione di ‘LOL , Chi ride è fuori’. Dialogo-fiume con uno degli autori dello show cult di Prime Video. Che riconferma che come Maccio non c’è nessuno

Foto: Prime Video

Ricordo ancora come se fosse oggi la prima volta che vidi in tv Maccio Capatonda. Era l’ottobre del 2004. Il divano scomodo era uno sketch all’interno di Mai dire Grande Fratello & Figli, l’instant show della Gialappa’s nato come spin-off comico-filologico del padre di tutti i reality. Si tratta di una parodia che in pochi fulminanti minuti sviscera tutti gli stilemi, l’iconografia, la comunicazione tensiva tipica di questi format, ma anche il trash, l’ignoranza, la rabbia cieca, la noia e la disperata marginalità a cui cercano di sottrarsi i suoi partecipanti. La messa in scena mi colpì per la sua struggente povertà: audio in presa diretta e qualità video che ricordava i filmini della recita scolastica delle elementari che i genitori del protagonista infliggono impietosamente a tutti i parenti (anche acquisiti). Ma ancora più scioccante per me era la scelta di avvalersi di persone palesemente “comuni” al posto di attori, gente che recitava le proprie battute come se avesse letto delle parole stampate per la prima volta in vita sua, il che non faceva che accrescere l’effetto comico complessivo. Si trattava probabilmente di una scelta dettata dalla mancanza di mezzi, ma ai miei occhi sembrava uno statement, un manifesto stilistico. Dopotutto, già da questo video è evidente che Capatonda padroneggia perfettamente la materia audiovisiva, per lui i significanti e significati catodici non hanno segreti.

Da quel momento in poi, mi appassiono ai suoi contributi video che impreziosiscono i programmi della Gialappa’s. La parodia è la chiave che Maccio sceglie per reinterpretare la realtà audiovisiva che ci bombarda incessantemente, senza nessuna esclusione: il già citato mondo dei reality, gli spot di prodotti demenziali, i telegiornali e la cronaca nera, le rubriche di medicina, le soap opera, la fiction generalista e ovviamente i mitologici trailer cinematografici che accrescono il suo culto e cementano nel pubblico lemmi che ormai sono entrati a pieno titolo nelle espressioni comuni della lingua italiana come “E se poi te ne penti?”, “Esistono storie che non esistono” e il secco “Scopare!”. Parallelamente si allarga il ventaglio dei suoi collaboratori abituali, la Factory disfunzionale in cui lui è Warhol, facce da sottoproletariato mutante che sono diventate archetipi della mediocrità italiana (il grande Herbert Ballerina, Rupert Sciamenna, Anna Pannocchia, la compianta Katherine J. Junior, Billy Ballo…). Non è un caso che alcuni dei suoi trailer più popolari – Italiano medio (usato successivamente come template per il suo omonimo debutto come regista cinematografico), L’uomo che usciva la gente o il devastante Natale al cesso – siano paradigmatici nel loro perfetto equilibrio tra surrealismo scatologico che sfuma nel demenziale e satira sociale. Il rischio, per la sua comicità “a doppia lettura”, però c’è, ed è quello di essere liquidato come macchietta volgare da quel pubblico più superficiale, quello che non vede al di la del dito di Maccio anche se lui indica la luna (metafora di dubbia efficacia dove il dito è lui che urla “Scopare!” e la luna sono i tanti vizi e le pochissime virtù dell’orribile medietà italiana che racconta). È lui stesso a interrogarsi sulla propria percezione da parte della gente nel geniale spot del Tavernello uscito a ottobre del 2021 (spero vivamente candidino al Nobel per l’economia il suo responsabile marketing per averlo coinvolto).

Foto: Prime Video

Negli anni Capatonda, al secolo Marcello Macchia, ha avuto un posto importantissimo nella mia vita. Quando conobbi quella che sarebbe diventata mia moglie a una cena a casa di amici comuni, lei, la persona meno loquace del mondo (siamo molto diversi), mi disse che lavorava in produzione a una serie su MTV di Maccio, Mario. Siccome lei mi piaceva e non volevo che pensasse che ero un nerd ossessivo compulsivo (la mia vera natura), cercai di farle più domande possibili su di lui ma in modo naturale, alternandole ad altre che riguardavano lei. Era uno simpatico? Come lavorava? I tizi mezzi scemi che si vedevano nei suoi video erano così? Lei mi rispose con quello stile secco e pacato (poche parole sempre giuste) che io non avrò mai: è simpaticissimo ma incredibilmente serio e quasi ossessivo quando si tratta di lavorare… e lavora sempre. I tizi (che reclutava quasi sempre lei) sono tutti così, anzi, a telecamere spente forse anche peggio. Poi, siccome sono un italiano medio anche io, feci LA domanda: ma con la Canalis ci è stato davvero? Lei, molto rispettosa della privacy propria e altrui, disse solo: “Sì”. Quindi non solo Maccio era un genio della comedy, ma era anche riuscito a conquistare il sogno erotico di milioni di italiani: lui, un uomo diversamente bello (diciamolo) e figlio della provincia abruzzese. Mito totale. Io e Caterina iniziamo a uscire mentre lei lavora alla produzione del primo film di Maccio, Italiano medio. È un successo.

Quando lo incontriamo casualmente in un bar di viale Montenero a Milano, facciamo due chiacchiere e mi colpisce il modo in cui sembra ascoltare con interesse anche le due o tre stronzate che butto lì per dare un senso alla mia presenza. Lo avrei incontrato solo molti anni dopo, seduto a un tavolo negli uffici romani di Endemol, per capire se era interessato a partecipare a LOL – Chi ride è fuori. Io ero certo di no, perché mia moglie mi aveva detto di lui una cosa che ricordavo. Essendomi sempre occupato molto di pubblicità e branded content, le avevo chiesto (parliamo del 2015) se secondo lei Maccio avrebbe mai accettato di fare uno spot col suo linguaggio (non ci voleva un genio per capire che era un testimonial perfetto per certi marchi, cfr Tavernello). Lei fu molto chiara, come sempre: “Quello che ho capito di lui è che non sacrificherebbe mai la propria visione, la propria libertà creativa, per soldi. Ho lavorato con lui qualche anno e vedevo che gli proponevano qualunque cosa: pubblicità, sponsorizzazioni, partecipazioni a programmi. Lui rifiutava sempre perché sapeva che non avrebbe lavorato alle sue condizioni. I soldi, la fama e le serate nei locali fighi non sono la sua priorità. Per questo mi piace”. Sentire quindi che era interessato a partecipare a un programma che sembrava quasi la parodia dei reality con cui, tanti anni prima, era entrato nella mia vita attraverso la tv della Gialappa’s, fu uno shock. Uno show dal vivo, praticamente in diretta, con altri nove comici, senza script e soprattutto lontanissimo dalla propria confort zone abituale, la timeline del montaggio audiovideo dei suoi trailer. Per lui mi sembrava un salto nel vuoto allucinante, come se Max Pezzali avesse deciso di fare uscire un disco di drone metal strumentale. La sua perplessità, la sua ansia, era non sapere chi fossero gli altri partecipanti, ma questo è un ingrediente cruciale del format.

Però, sin dal nostro primo incontro nella sua casa di Roma dove si è trasferito due anni fa, ho avvertito in lui un forte desiderio di buttarsi in qualcosa di nuovo, di uscire dalla propria safety area, di mettersi alla prova alzandosi dal trono delle sue molte glorie passate restando però fedele alla sua poetica. Lavorando sui trailer live con una jingle machine della Akai, sulle microimitazioni e altri spunti, sull’inviato del Tg che fa un servizio in diretta da LOL su un brutto caso di cronaca nera, la scomparsa della risata, ho avvertito anche una strana familiarità, come se lo conoscessi da anni, e un po’ era cosi. Vederlo duellare a colpi di smorfie con quel bellissimo mostro sacro di Virginia Raffaele (tecnicamente stratosferica) è stato per me come la prima volta che vidi il finale lisergico di 2001: Odissea nello spazio; vedere, al termine della sua barzelletta extended del fantasma formaggino Guzzanti (il più grande, l’hanno detto tutti, anche il mio portinaio che è di Manila, perché è vero) che ne fa l’analisi del testo è stato commovente. Da antologia poi l’urlo muto di Munch davanti alla scoperta che nel costume di Posaman nella teca c’era Lillo. Mi ha scritto in proposito Pietro Galeotti, autore anche lui, però bravissimo al contrario di me: “Per me questo passaggio è memorabile. Sarà studiato per decenni. Lui enorme, in una situazione oggettivamente impossibile. Ho riso per tre giorni. Poi vabbè Virginia, Corrado, Forest sono strepitosi. Ma lì è il frame della vita”. Maccio ha vinto LOL, ma soprattutto la sua sfida più difficile: portare il suo lessico complesso in una dimensione live, rompendo il muro dello schermo che aveva sempre interposto tra lui e il pubblico.

Tutto è iniziato dalla Gialappa’s. Come ci sei arrivato?
Io lavoravo in una casa di produzione di Milano, la Filmaster, come regista. Il mio intento era quello di diventare un regista pubblicitario. Mi occupavo di backstage di spot, quelle cose lì che fai da “giovane che sta iniziando”. Ma con la camera che mi davano giravo anche video miei, comici. Facendoli vedere lì in ufficio, piacquero a un producer che faceva anche programmi televisivi. Lui mi chiese di fare delle piccole clip di questo personal trainer fittizio, Jim Massew, per questo programma che si chiamava Jecko, in onda su Rete A. Poi andai via dalla Filmaster per fare il servizio civile. Nel frattempo queste clip le videro anche altri dipendenti della Filmaster, tra cui Valentina Fronzoni, che conosceva Carlo Taranto della Gialappa’s. Una sera Carlo vide queste clip su una VHS. Lei mi disse che Carlo era impazzito e che la Gialappa’s voleva chiamarmi, cosa che fece dopo un mese. Mi proposero di fare delle clip nel loro programma del martedì, Mai dire Grande Fratello & Figli. Iniziai con delle parodie dei reality, poi arrivarono i trailer.

La Gialappa’s ti ha lasciato libertà o interferiva nel processo creativo?
Mi hanno sempre lasciato totale libertà su tutto e totale autonomia. Ho sempre girato e montato tutto per conto mio, portandogli il prodotto finito. Sono stati i miei veri primi talent scout perché hanno subito capito il mio stile. Se non fosse stato per loro non avrei mai preso sul serio il fatto di fare video comici come lavoro. Perché, quando mi chiesero di fare tutti quei video per tutte quelle puntate, mi chiesi se sarei stato in grado di avere tutte quelle idee. E quella pressione che mi misero addosso fu il motore che sbloccò la mia creatività. Sono stati sicuramente i miei maestri, figure che oggi un giovane youtuber non ha perché fa tutto da sé e si relaziona direttamente col pubblico che commenta. Invece io avevo loro, che avevano fatto la storia della televisione. Sono stato molto fortunato.

Di tutti gli stili che fagociti e pieghi alla tua visione, la parodia è quello più riconoscibile, la tua cifra: come nasce un tuo video?
La parodia è una forma di linguaggio che mi piace molto perché io la vedo come una forma di ribellione nei confronti del linguaggio precostituito, dei codici comunicativi che subiamo. Io sono cresciuto a pane e tv per tutti gli anni ’80 e ’90 e, quando affrontavo un video, la prima cosa che volevo fare era destrutturare, rompere questo flusso. Il montaggio digitale, nato nel 2001, mi ha aiutato tantissimo in questo: col montaggio potevo non solo replicare i linguaggi che vedevo in tv, ma farli miei, storpiandoli. Nel caso dei trailer era molto facile per me usare gli stilemi del loro linguaggio aggiungendo bassezze lessicali, e grazie a questo, con poco, avvicinavo un montaggio alto a un linguaggio basso. Una delle mie cifre è proprio questa, l’alto/basso: musica e/o speaker fico e poi contenuti terra terra. La spettacolarizzazione del nulla. Tutto quello che ci siamo sorbiti noi millennial è il mio humus. La parodia mi aiuta a dire la mia. A rompere… a rompere i coglioni (fa una voce alla Maronno, nda)! La fiducia nella comicità che mi ha dato la Gialappa’s mi ha permesso di protestare nei confronti di quella carriera da regista serio che non ero riuscito ad avere, a prenderla in giro.

Chi sono i tuoi maestri?
In primis tutta la televisione che ho assorbito negli ’80/’90, anche le tv regionali trash, coi loro casi umani. Ma anche il cinema: Robert Zemeckis è il mio primo innamoramento verso il cinema, con Ritorno al futuro. Non era prettamente comico, ma c’è una linea comica molto raffinata, come anche in Chi ha incastrato Roger Rabbit? e Forrest Gump. Parlando di comicità, io sono nato con Frassica, sicuramente, e tantissimo Verdone, quello di Un sacco bello. I miei genitori mi portavano a vedere i film di Troisi ma io non li capivo (avevo cinque-sei anni). Allora chiedevo “Perché ridete?”, e loro: “Perché fa ridere”. Allora io iniziavo a ridere, di punto in bianco. Solo che lo facevo in momenti del film in cui non c’era niente da ridere. Poi sono cresciuto e ho iniziato a capirli e a ridere davvero. Altri nomi che ho amato sono Villaggio col suo cinismo, e Pozzetto. Negli anni ’90 il mio grande maestro è stato Guzzanti, e anche la Gialappa’s prima di lavorarci. David Lynch poi ha un lato comico surreale che, nonostante sia cupo, mi fa morire. E sicuramente Ciprì e Maresco. Loro mi hanno fatto capire come utilizzare i casi umani.

Ma infatti ci sono degli ingredienti della tua ricetta – ovviamente meno alti e più pop – che mi hanno sempre fatto pensare al loro lavoro, da Cinico Tv a film come Lo zio di Brooklyn, per esempio nell’uso di feticci visivi come “scemi del villaggio” e anziani. Nel 2004 i tuoi sketch in Mai dire sembravano neorealismo, roba alla Giovanni Verga se avesse lavorato a Mediaset.
Il primo aspetto era quello di fare di necessità virtù. La qualità delle idee doveva restare preservata, tutta quell’altra si sacrificava perché a quei tempi non c’erano soldi. Giravamo dove potevamo, quando potevamo, con chi capitava. Senza costumi, senza luci, i primi trailer erano addirittura senza fonico! E molte persone ce le trovavamo sottomano. Catherine J. Junior, per esempio, era la mamma di un nostro socio, c’erano nonni e nonne di qualche collaboratore. La difficoltà era “farli rendere” (ride) sullo schermo, ’sti vecchi. Non è detto che uno che fa ridere nella realtà lo faccia davanti alla camera. Una cosa che ho imparato da Ciprì e Maresco è la valorizzazione dei freak, dei personaggi assurdi. Loro riuscivano a far recitare gente assurda dandole dignità, valore… una cosa incredibile. Lì ho capito quanto i marginali funzionino, ma devi saperli collocare nel mix, contestualizzare o decontestualizzare se serve…

Per come ti conoscevo, evidentemente poco, ero convinto che non avresti mai accettato di fare LOL. Cosa ti ha spinto ad accettare?
Degli “SPINGITORI CHE TI FANNO FARE LOLLE, su Rieducational Channel!”. Da quando mi sono trasferito a Roma da Milano la mia vita è cambiata, anche per colpa della pandemia, mi sono costretto a voler fare cose nuove. Quando è uscito il primo LOL ho letto che sui social il mio nome andava forte, la cosa mi ha incuriosito. Io quest’anno ho fatto un film come attore (un film non mio), un libro, insomma cose che non avevo mai provato a fare. Per cui…

Il libro, certo: si chiama, giustamente, Libro ed è andato benissimo, no?
Si, infatti sto scrivendo il secondo, forse uscirà quest’estate. La cosa che di LOL mi ha impaurito è stata che avrei dovuto fare cose dal vivo, una novità per me, e in più assieme a gente che probabilmente non conoscevo. La mia spontaneità emerge soprattutto quando mi trovo a mio agio, con le persone che conosco da sempre: alcuni amici, gente che fa delle parti nei miei video ma anche autori. Perché io sono molto timido. Ho tentennato fino all’ultimo proprio per questo motivo, anche se il fatto che mi abbiano appioppato un autore come te è stato determinante. Ho sentito subito familiarità con te sin dal primo minuto e ho pensato: “Forse possiamo pensare a delle cose divertenti insieme”. Se mi avessero dato qualcun altro meno affine al mio stile, forse non avrei accettato: anche perché, durante i nostri primi incontri, ero ancora in forse. Mi hai traghettato attraverso le gag pensate insieme nella consapevolezza di poterlo fare.

Ti ringrazio tantissimo. A me è sembrato di lavorare con te da anni, mentre sono solo sette-otto mesi. Com’è andata, ora che è finito?
Be’, io ho sempre la sensazione che avrei potuto fare meglio, soprattutto qui. Ma ero anche insieme a dei mostri sacri, dei miei idoli come Virginia, Corrado, Forest, quindi devi rispettare i loro spazi, le gerarchie. Io vengo dopo di loro, anche cronologicamente, quindi mi sono sempre sentito in dovere di non sovrappormi, ferma restando la mia ipercompetitività totale. Io sono uno che se accetta una sfida, in tutti i campi, si impegna tanto, va fino in fondo. Anche sul lavoro. L’hai visto anche tu, il tempo che ci abbiamo messo coi trailer.

Impossibile dimenticare. Che sei uno che si impegna molto si è visto anche nella lunga intervista che facesti con Montemagno, quando parlavi di comicità sembravi uno della Banca Centrale.
Sì, ahahah. Magari uno pensa che un comico faccia le cose un po’ a cazzo. E in parte ha ragione. Il cazzeggio è il momento in cui sei più aperto, più libero, puoi cogliere più idee dall’universo. Poi però c’è l’impegno e la determinazione nel voler costruire, quasi artigianalmente, con scrittura e montaggio, qualcosa che abbia un valore. Peraltro farle con te quelle cose è stato determinante, per capire se potevano funzionare, visto che per me era la prima volta.

In LOL ti hanno visto tutti in una veste inedita. Qual è l’aspetto di te che il publico ha sempre frainteso?
È difficile rispondere a questa domanda per me, ci provo. Diciamo che ci sono persone a cui la mia comicità non arriva perché non la capiscono e quindi la schivano, la rifiutano. Poi ci sono alcuni che magari della mia comicità prendono solo alcuni aspetti, quelli più superficiali, e si fermano li, ai versi, alle cazzate. Anche se c’è una buona parte di comicità demenziale che faccio, proprio senza sottotesti, demenziale e basta, a cui tengo molto, perché è una forma per evadere da un mondo sempre troppo serioso. Credo sia molto importante non piacere a tutti. È giusto ritagliarsi una fetta di pubblico che si riconosce in quello che fai, che ti ferma per strada e crea con te una sintonia, piuttosto che essere famoso per milioni di persone che ti fermano e si fanno la foto con te perché sei famoso e basta. Direi che va benissimo così.

Quando sei entrato nella casa di LOL cosa hai provato?
Mi stavo cacando addosso, terrorizzato dalla possibilità che ci fosse qualcuno con cui potessi non andare d’accordo. Ma appena ho visto Virginia e Maria (Di Biase, nda) ho provato un grande sollievo, e anche onore: Virginia è un mito. Ho detto: “Ah ok, siamo sulla lunghezza d’onda giusta”. Io poi non pensavo affatto che Virginia o Guzzanti avrebbero partecipato. E questa sensazione è aumentata mano a mano che entravano gli altri. Alla fine conoscevo tutti più o meno personalmente, e con tutti mi sono trovato bene. L’unico che non conoscevo era Max Angioni, che paradossalmente si è rivelato uno dei pochi con cui ho creato un’intesa che mi piacerebbe continuasse più avanti. Mi è spiaciuto che sia stato eliminato, eliminazione oltretutto generata da… me.

Il soldato Ryan! Ho lavorato a stretto contatto anche con lui e sai cosa mi continuava a dire? Se c’è Maccio sono finito, se c’è Maccio sono morto, Maccio non è umano, è un cyborg della comicità. Anche lui è un tuo grandissimo fan, dopotutto. A me ha emozionato Guzzanti che fa l’analisi semantica della tua barzelletta del fantasma formaggino.
Io sono stato onorato di poter assistere a ciò che faceva Corrado, cose che magari non ti farebbe manco a casa sua. È stato molto emozionante tutto, anche quel commento sulla barzelletta extended del fantasma formaggino… l’ha valorizzata molto.

L’incontro di wrestling con Angioni è stato memorabile, ma tante sono le scene madri di LOL. Ovviamente “Peffòmance!” di Virginia Abramović, ma soprattutto l’Urlo di Maccio davanti a Posaman Museo delle Cere. Come minchia hai fatto a non esplodere?
Mi ha salvato dalla risata la paura. La paura di vedere una persona in carne ed ossa lì dentro, era come se avessi visto un cadavere, una statua di cera fatta molto bene… infatti l’ho anche detto: “È fatta molto bene”. Ero sotto shock. Credo si sia visto.

La cosa più bella di LOL?
L’estemporaneità. Le performance sono stupende, ovviamente, ma quelle le puoi vedere dovunque, in tv, su YouTube, a teatro. Le cose che nascono anche durante le performance ma sono totalmente imprevedibili, sono quelle che fanno davvero ridere il pubblico e anche i comici. Le cose spiazzanti. Anche una cosa che non riesce o riesce male può far ridere più dell’originale, come il pallone di Tess.

Quanto conta essere nato a Chieti, non esattamente uno dei poli cardinali della comedy?
Crescere in un posto così tranquillo mi ha aiutato molto. Mi ha permesso di fantasticare e di lavorare con la noia, uno dei motori più potenti che esistano. Io a Chieti mi appassionai tantissimo a media come tv e cinema perché li vedevo proprio distantissimi dal mondo in cui ero nato io. Questa distanza ho cercato di colmarla con la mia comicità.

Hai lavorato sul web, in tv, in radio, al cinema… cosa ti manca?
L’esperienza di LOL ha maturato in me la voglia di fare uno spettacolo dal vivo, anche se un live è una cosa molto diversa da LOL, ci vuole una grande preparazione e un grande allenamento. Ma ora posso abbattere lo schermo dietro il quale mi rifugio e creare un rapporto più diretto col pubblico. Ma ci devo ancora lavorare tanto. Poi un’altra cosa che mi manca è sicuramente un ruolo più drammatico che sconfina nell’horror o nel thriller, alla David Lynch. Sperimentare un linguaggio che non è comico ma lambisce la comicità, un mix più originale.

Cos’è per te la comicità?
La comicità è il linguaggio principale attraverso cui mi racconto, ma mi piace pensare che sia anche una forma di ribellione nei confronti del mondo in cui viviamo, fatto di bombardamenti mediatici continui che ci sorbiamo ogni giorno, di codici di comunicazione precostituiti il cui linguaggio io cerco di destrutturare coi miei video, che spesso sottendono la mia critica a questa società. Una società in cui tutto si basa sull’immagine. Il comico per me è l’equivalente del politico. Se avessi le palle probabilmente scenderei in piazza a dire cose vere e spiacevoli. Invece mi rifugio nella presa in giro. La comicità ha anche ovviamente il ruolo di intrattenere e dare sollievo, ma è imprescindibile che debba anche avere dei messaggi. Io ultimamente sto cercando di veicolare dei messaggi sulla nostra condizione di razza umana, che è orribile. Non per niente ho donato la vincita di LOL al WWF. Per capire come salvarci dall’estinzione, per rispettare i posteri. Ma anche i poster.

Se facessero un film sulla tua vita, chi vorresti come attore per interpretare te?
Se facessero un film sulla mia vita, come protagonista vorrei sicuramente… Mimmo.

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