«Ora non è tempo per pensare a ciò che non hai. Pensa a quello che puoi fare con quello che c’è». La frase tratta da Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway potrebbe essere incisa sulla prua della barca a vela di Ludovico Fremont. Perché il mare, per lui, non è evasione ma disciplina, una sorta di grammatica dell’esistenza. Quando il telefono non squilla, quando le rotte sembrano confuse, lui preferisce mollare gli ormeggi: «Non puoi cambiare il vento, puoi solo assecondarlo», spiega in questa intervista. È da tale postura che nasce anche il suo ritorno nei Cesaroni nel 2026.
Così Walter riappare, ma non come un feticcio televisivo, come un uomo attraversato dal tempo: «Sentivo l’esigenza di dover chiudere un cerchio», spiega, paragonando il personaggio a una vecchia giacca di pelle ritrovata nell’armadio: segnata, indurita, ma ancora capace, dopo un po’ di calore umano, di aderire perfettamente al suo corpo di attore. Un ritorno che arriva dopo una scelta netta: lasciare la serie nel 2010 per «capire chi ero io al di fuori di quel progetto».
In mezzo ci ha raccontato il teatro di Luca Ronconi, il lavoro nella serie internazionale della BBC, il rifiuto del vittimismo nel mondo dello spettacolo: «Lamentarsi è il modo migliore per rimanere fermi artisticamente». Oggi Fremont scrive poesie, sta per pubblicare un libro, si è convertito al buddismo e ha preso distanza dal concetto stesso di successo: «È già successo». Intanto I Cesaroni tornano in un’Italia che, come dice Claudio Amendola, sembra essere tornata indietro, più della serie di Canale 5. E Ludovico conferma: famiglie non ordinarie, temi delicati, storie che faticano a trovare spazio. «Il pubblico dovrà prepararsi», promette. Fremont lo è già. Senza clamore, con quello che c’è.
Hai origini internazionali ma sei profondamente legato a Roma.
Mia madre è nata a Milano ma ha origini polacche, mentre mio padre è di origini francesi. A lui devo la forte volontà di volermi far nascere a Roma. È un innamorato dell’Italia in modo folle. Dice sempre che i francesi sono italiani a cui manca il buonumore. Secondo lui dovevo nascere nella città più bella del mondo e come secondo nome avrebbe voluto affibbiarmi Sextus, perché per i latini indicava il numero sei e rimandava all’ora sesta, il momento centrale della giornata. Poi, mosso dal buon senso, per fortuna non l’ha fatto.
Che momento della tua vita stai attraversando dal punto di vista professionale?
Ho finito di scrivere un libro. Ho una grande passione per la poesia e mi diletto da sempre. Negli anni ho nutrito questa passione e a breve vedrà la luce. Sto contattando chi di dovere per poter pubblicare questo lavoro. E sono in attesa della ripresa di una serie e di un film.
Foto: Simone Paccini
Il ritorno dei Cesaroni è stato qualcosa di inaspettato o, col tempo, sentivi che prima o poi sarebbe dovuto accadere?
Noi che abbiamo avuto la fortuna e la possibilità di far parte di un progetto televisivo che ha fatto innamorare tutta l’Italia ci siamo resi conto che questa serie ha lasciato un’orma indelebile in tante persone. Ci si aspetterebbe che le nuove generazioni non conoscano determinate serie tv o personaggi, invece quell’onda non è mai davvero finita.
Secondo te perché I Cesaroni continuano a essere così presenti nell’immaginario collettivo, anche tra le nuove generazioni?
Il nostro aiuto regista, due anni fa, tra le lettere appese sull’albero di Natale in Stazione Termini venne catturato da uno dei bigliettini appesi da un bambino con scritto: «Caro Babbo Natale, riportaci I Cesaroni». Nonostante abbia fatto tante altre cose, alla fine tutti mi facevano la stessa domanda: «Quando tornano?». Questo progetto dev’essere vissuto come una medaglia al petto.
Com’è stato riabbracciare un personaggio come Walter dopo tanti anni?
La mia prima sensazione è che fosse necessario chiudere un cerchio. Quando me l’hanno proposto sono stato molto felice. Sentivo l’esigenza di dover concludere un percorso. Non nego di aver provato anche un po’ di paura, perché riprendere un personaggio che per anni non hai più frequentato l’ansia da prestazione te la porta. Ma è stato come riaprire un armadio dove hai lasciato una vecchia giacca di pelle, provi a vedere se è ancora della tua misura, all’inizio si è un po’ indurita ma, con il calore del corpo, torna a prendere la giusta forma. Quelle rughe di vissuto gli donano uno spessore diverso rispetto a qualcosa di nuovo. Quella storia racconta un mondo che probabilmente è ancora contemporaneo. Walter è un personaggio più maturo rispetto al passato ed è stato bello condividere con lui quelle rughe del tempo. E ho avuto dei consigli fantastici da Claudio Amendola.
Amendola ha detto che I Cesaroni erano avanti nel raccontare la famiglia, mentre oggi è l’Italia a essere tornata indietro. Sei d’accordo?
È vero che abbiamo affrontato tematiche in anticipo rispetto ad altri. Naturalmente in modo “cesaroniano”. Ci sono state famiglie costruite in modo non ordinario, due fratellastri che si innamorano, storie d’amore che si intrecciano tra parenti, tutte situazioni che ancora oggi faticano a trovare posto nella televisione italiana. Senza fare spoiler, posso dire che il pubblico dovrà prepararsi perché anche in questa stagione affronteremo temi delicati.
Qual è lo stile “cesaroniano” che permette alla serie di affrontare temi delicati?
Sono convinto che dipenda dalla bravura nella scrittura, oltre che dalla spontaneità degli attori e dall’esperienza della regia. Ci vuole una sensibilità non solo emotiva nel capire come sviscerare certi temi. Non in modo pietoso e nemmeno troppo provocatorio.
Nel 2010 hai lasciato la serie dopo quattro stagioni. Cosa ti ha spinto a quella scelta?
Non è nata dalla mia volontà di lasciare un progetto come I Cesaroni, ma dalla voglia di capire chi ero al di fuori di quel progetto. Dopo la quarta serie, dove avevo un ottimo rapporto con tutto il cast e il produttore dell’epoca, Carlo Bixio, andai a lavorare in Sudafrica con una produzione della BBC nella miniserie The Sinking of the Laconia, diretta da Uwe Janson. Per farlo ho avuto il benestare del produttore, che disse ai responsabili di quella serie: «Prendetelo perché è bravissimo». Poi ho partecipato ad altri progetti per trovare me stesso, che vuol dire continuare a migliorarmi. È stata una ricerca, un viaggio per capire in qualche modo chi fosse l’attore e l’uomo Ludovico Fremont.
In quel momento ti aspettavi che qualcuno provasse a trattenerti?
No, la produzione dei Cesaroni mi ha lasciato andare ma non è stata una questione di ego o un braccio di ferro. Si sono comportati come un padre che accetta che il figlio vada a fare altre esperienze fuori da casa. Mi è sembrato un atteggiamento giusto, perché il trattenermi in quel momento non mi avrebbe aiutato ad acquisire forza e a trovare me stesso.
Col senno di poi, rifaresti quella scelta?
Assolutamente sì. Tutto è un insegnamento. Quando spariscono i riflettori rimani solo tu. In quel momento capisci meglio chi sei davvero. Non c’è clamore che deriva da altri, tutto dipende da te. È anche una battaglia rimanere soli, ma avevo la necessità di combatterla.
Un attore come Riccardo Scamarcio, dopo il successo in Tre metri sopra il cielo, ha dovuto lavorare a lungo per affrancarsi da Step. Ti riconosci in quel percorso?
In parte sì, ma io non sopporto quando ci si vittimizza e si tende ad additare un “sistema” per ogni problema. Quasi mai, però, si è vittima di un “sistema” che ha le sue logiche e tu dovresti conoscerle. Lamentarsi è il primo atteggiamento che può arrivare spontaneo, ma è anche il modo migliore per rimanere fermi artisticamente. Quindi prendere una distanza significa allenarsi. Studiare e crescere implica uno sforzo. È una forma di libertà che un artista deve avere il coraggio di prendersi. Che ci piaccia o no, facciamo parte di un business.
Foto: Simone Paccini
Nel mondo dello spettacolo si parla spesso di “sistema” e di meccanismi che penalizzano gli artisti. Ma pensi ci sia troppo vittimismo?
Quando fai un film stipuli un contratto, che serve a tutelare te ma anche la controparte. Nel momento in cui firmi accetti determinate logiche. Nessuno ti obbliga a farlo. In fondo questo, anche se artistico, è un lavoro con il quale ci paghiamo le bollette. Ma dobbiamo sapere a che cosa andiamo incontro. Non mi sento vittima di un “sistema”, ma come un testimone. Quando parlo di “sistema” non entro in logiche malate, che non vanno accettate ma combattute. Io, nel mio piccolo, sono contento di essere rimasto una persona pulita.
La grande popolarità può essere pericolosa in giovane età?
La parola successo già spiega tutto, perché è già successo. Quindi attiene al passato. Certo, ti cambia, ma tutto cambia nella vita. Se eviti di radicarti troppo solo con un tipo di stato allora non hai problemi nel cambiamento. Negli ultimi anni mi sono convertito al buddismo, per cui la percezione dell’impermanente è parte fondamentale delle mie giornate. Non ho più attaccamento morboso con le cose materiali. La vera forza è rimanere centrati nonostante tutto quello che intorno cambia. Io, che sono un amante della barca a vela, come tutti quelli che vanno per mare so che non è possibile cambiare il vento. Puoi assecondarlo e trovare la via migliore per andare da un punto a un altro.
Che ruolo ha oggi la spiritualità nella tua vita?
Prima ero troppo concentrato sull’apparenza, credo soprattutto a causa della giovane età. Negli anni mi sono avvicinato alla spiritualità, anche se l’ho sempre vista con interesse, e recentemente mi ha consentito di accettare certe cose e non altre e di lavorare su me stesso.
Come si affrontano i momenti in cui il telefono non squilla?
Anche questo fa parte del “sistema”. Come l’invidia rispetto a chi va più avanti di te. L’importante è rimanere focalizzato nonostante tutto. Se ne guadagna in salute e ho capito che niente si può effettivamente controllare. Compreso questo aspetto, tutto è più semplice.
Esiste davvero, secondo te, un “circoletto” nel cinema?
Non ho abbastanza termini di paragone per dirti se il “circoletto” è solo italiano. Ma anche in questo caso per me è una trappola dell’ego. La vita va vissuta come percorso personale. Se vedi qualcuno che ce la sta facendo più di te, non deve interessarti per come ce la sta facendo. O impari da lui come fa, oppure vuol dire che devi fare di più per farcela con i tuoi mezzi. E quando toccherà a te, allora sarai pronto. Per questo, non mi vergogno a dirlo, quando il telefono non squilla mollo gli ormeggi e vado in mare. Mi ritrovo grazie alla navigazione.
La vela è una tua grande passione fin da bambino. Cosa rappresenta per te il mare?
È il mio modo di staccare dai problemi. Quando non trovo una soluzione vado in barca a vela e mi perdo nell’orizzonte. Un ambiente che, prima di ogni cosa tecnica che va imparata, rispetto come prassi antica e dal fascino senza limiti. Il mare non c’entra niente con la terra, ci sono altre regole e altre dinamiche che, però, mi riportano a ritrovare una stabilità.
Come nel romanzo di Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, a volte il pesce, anche se è una preda cercata da tempo, va lasciato andare prima della riva?
Sì, bisogna evitare di rimanere troppo attaccati a certe sovrastrutture mentali. La comfort zone, che piace tanto a noi italiani, in fondo è un grande limite. In questo il mare è mistico.
Nel tuo percorso hai mai preso in considerazione mondi come quello dei reality, oppure li hai sempre sentiti lontani?
Non ti posso dire né sì né no, perché non posso sapere come cambieranno le cose. So che ogni persona ha il proprio percorso, tra microcosmi e macrocosmi. È come se chiedessi a un pesce di imparare a volare. Esistono, ma sono rari. Io, pur sforzandomi, se devo scegliere lo farò sempre navigando in mari che sento più affini, che non sono per ora quelli dei reality. Ma non voglio dire no in assoluto. Perché non si sa mai nella vita. Niente è mai o bianco o nero. Guarda cosa succede con le serie tv: prima tanti attori dicevano di no mentre oggi sono in fila per farle.
Il teatro ha avuto un ruolo fondamentale nella tua formazione, soprattutto grazie all’incontro con Luca Ronconi. Che esperienza è stata lavorare con lui?
Vengo dall’Accademia e uno dei miei professori più amati, Paolo Terni, che insegnava drammaturgia musicale, ci catapultò nel mondo della musica colta, da Bach a Cage. Lui mi disse: «Caro Ludovico, il maestro Ronconi vorrebbe incontrarti a Perugia per la sua prossima opera. Non vorrei non comprendessi l’importanza di un tuo sì». Andai a fare il provino e ricordo che mi tremavano le gambe. Quando ti trovi di fronte a uno dei pochissimi maestri del teatro europeo non è come con altri. Sono persone che conoscono il linguaggio segreto del corpo a memoria. Lui cercava un ragazzo atletico e spigliato, che avesse una spontaneità naturale e dei sentimenti. Dovevo interpretare il figlio di Mariangela Melato nella Centaura. Un ruolo divertente e un’esperienza pazzesca. Ronconi mi ha aperto tante porte con Giorgio Ferrara, Corrado Augias, Adriana Asti o Luisa Ranieri. L’aspirazione di chiunque, uscito dall’Accademia, è di lavorare con i grandi del teatro. Poi ho sentito il bisogno di variare, come con I Cesaroni, e quello scambio allora non era ben visto.
Foto: Simone Paccini
Con Ronconi il lavoro era anche fisico, come ci ha raccontato Massimo Popolizio.
Penso di non aver mai sudato così tanto in vita mia. Ogni sera andavo a casa stanco morto ma felice, anche quando sapevo di non essere riuscito a dare il meglio. Il regista, di solito, è presente alla prima dello spettacolo e poi, per un po’, non si fa vedere. Poi ricompare dopo qualche data e lì c’è da tremare, perché se il livello non è stato mantenuto come si aspettava è un massacro. Ricordo che dopo tre mesi di tournée mi ha ripreso su alcune cose e mi ha spiegato come cristallizzare certe parti per non rischiare di cambiarle dopo tante repliche.
Guardando al futuro, al di là dei Cesaroni, dove senti soffiare il vento?
Vorrei concentrarmi su progetti che parlano di umanità. Non c’è più l’ansia di essere al centro. Voglio far parte di progetti belli, ma soprattutto in grado di creare empatia con gli spettatori. Non mi serve più il clamore, ma prendere parte a spettacoli che mettano in mostra la mia professionalità e il mio talento. E che mi facciano ancora crescere come uomo. Sono convinto che in generale l’umanità abbia sempre più bisogno di storie vere, di redenzione, di seconde opportunità. Il mondo ha fame di umanità, di calore e di buoni sentimenti.
Se I Cesaroni fossero una canzone, per te quale sarebbero?
Dovessi indicare una canzone italiana, sceglierei Ma il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano. Se invece fossero una canzone internazionale, mi sembra li rappresenti bene Santeria dei Sublime.
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Fotografo: Simone Paccini
Stylist: Giulia Martinelli
Grooming: Danilo Ferrigno – W-MManagement
Publicist: MPunto Comunicazione
Total Look: Calvin Klein
Shoes: Dr. Martens
