Luc Merenda: «Puoi essere una star senza l’obbligo di diventare stronzo» | Rolling Stone Italia
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Luc Merenda: «Puoi essere una star senza l’obbligo di diventare stronzo»

Dopo più di 30 anni lontano dal cinema, il commissario più famoso degli anni ’70 torna davanti alla macchina da presa in un film di Francesco Barilli, dove interpreta la Morte. E ci spiega perché è innamorato dell’Italia e i francesi sono davvero «degli italiani di cattivo umore»

Luc Merenda: «Puoi essere una star senza l’obbligo di diventare stronzo»

Foto: Gianni Ineichen Mopeo

È il volto dei poliziotteschi anni ’70 e ha frequentato la commedia, la sceneggiata e la comicità, ma forse ancora una parte gli mancava per chiudere un cerchio. Luc Merenda, 80 anni lo scorso settembre – e quasi 30 lontano dalla macchina da presa –, ha deciso di togliersi anche questa soddisfazione partecipando al film Il paese del melodramma, scritto e diretto da Francesco Barilli (attore, protagonista di Prima della rivoluzione di Bernardo Bertolucci, regista e pittore) e girato nella città di Parma, presentato in anteprima mondiale proprio al Parma Film Festival – Invenzioni del vero e in sala dal 30 novembre. È in questa pellicola, con protagonista l’attore Luca Magri, che veste i panni della Morte, un ruolo che lui stesso ha definito «visionario». Un ritorno al grande schermo che testimonia, come ci ha spiegato, una sorta di riappacificazione con il mondo che lo ha reso celebre: «Non ho più seguito il cinema e non ci sono più andato da quando sono diventato antiquario. Ho dovuto cicatrizzare una ferita».

Si riferisce al telefono che, come accaduto a tanti, a un certo punto ha smesso di squillare. Eppure, l’amore non è mai venuto meno: «Il cinema è un’opera d’arte» e come tale Merenda si è sempre approcciato ad esso: «Se pensi a quello che incasserà un film, hai sbagliato mestiere». Non a caso sono diventati celebri i suoi no a progetti poi diventati dei cult, come Er Monnezza e Sandokan. Nonostante tutto, sembra non avere rimpianti: «Preferisco i film che amo rispetto a quelli che ottengono incassi». Ma soprattutto ha capito che il divismo non fa per lui, sia quando premette «Dammi del tu perché non so dare del lei» che quando precisa «Puoi essere una star senza l’obbligo di diventare stronzo».

Luc Merenda al Parma Film Festival. Foto: Edoardo Fornaciari

Dopo aver lasciato il cinema da oltre 30 anni, a parte un cameo nel 2007 in Hostel: Part II, cosa ti ha convinto a impegnarti più attivamente sul set?
Prima di tutto amo molto Parma, la trovo molto bella esteticamente, culturalmente e per il suo cibo. Non è ricca perché ci sono soldi, ma perché è una città ricca di tutto. Nel film faccio una partecipazione, ma il personaggio l’ho trovato stupendo. Per interpretare la Morte bisogna essere dei visionari. La faccio parlare sempre con il mio accento francese, perché tanto la Morte non ha nazionalità. E poi girare con Barilli è un piacere, mi ha fatto sentire la sensazione di partecipare a una vera opera d’arte.

E com’è stato interpretare un ruolo così complesso?
Mi sono sentito oscillare costantemente tra realtà e non realtà.

Che prospettive vedi per una pellicola così particolare?
Non penso al successo, se pensi a quello che incasserà un film hai sbagliato mestiere. Devi fare quello che ti piace. Io ho sempre fatto così. I personaggi erano tutti giusti, per il successo vedremo. Se uno lavorasse per il successo dovrebbe fare solo i film di quel filone.

In passato te ne hanno proposti, ma sono famosi i tuoi no.
È vero, ho detto di no a Er Monnezza e a Sandokan. Io faccio quello che sento, non mi interessa se può avere o meno successo. Se poi ce l’ha, meglio. Il cinema è un’opera d’arte, e Barilli così lo interpreta. In più mi piacevano la musica di Giuseppe Verdi, la città di Parma e anche la Morte, che finalmente interpreto direttamente. A volte nelle pellicole sono stato ammazzato e altre ho ucciso. Dei film mi innamoro del soggetto e poi al massimo spero che vadano bene. Ma preferisco i film che amo rispetto a quelli che ottengono grossi incassi.

Luc Merenda interpreta la Morte nel ‘Paese del melodramma’

Qual è oggi il tuo rapporto con il cinema?
Dopo gli anni in Italia sono tornato in Francia e ho fatto delle serie televisive enormi, solo che il cinema francese non mi ha chiamato. Mi dicevano che avevo fatto film in Italia, perché non tornavo là, come se fosse un cinema minore. Ma scusate, gli rispondevo, il cinema italiano rappresenta il 12 per cento del mercato mondiale, mentre il cinema francese soltanto il 2 per cento. Non è certo un Paese sottosviluppato.

Così hai trovato casa a Roma e l’Italia la consideri il tuo Paese?
Dopo aver vissuto in Marocco dai 2 ai 14 anni sono andato in Francia ma non ero abituato, ero un selvaggio. Venivo dal guidare la macchina a 10 anni e dal correre per chilometri sulla spiaggia. A Parigi ho avuto ancora più difficoltà. Ho scoperto l’Italia arrivando con un taxi nel ’65 e ho detto subito: “Questa è la mia città, questo è il mio Paese”. Sono innamorato dell’Italia.

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Jean Cocteau diceva: “I francesi sono degli italiani di cattivo umore”.
Sì sì, assolutamente vero. Hanno meno fantasia, sono dei cugini transalpini sempre incazzati. Cocteau aveva un palazzo meraviglioso a Venezia, ma quale pittore francese di qualità non è mai venuto in Italia? Non voglio parlare male dei francesi, però sono talmente fieri della loro cultura che non riescono a vederne altre.

Pierfrancesco Favino, qualche tempo fa, ha detto che i ruoli italiani dovrebbero essere recitati da attori italiani. Che ne pensi?
No, credo che l’Italia sia molto più ricca rispetto a questi ragionamenti. In un periodo non positivo le persone possono avere queste prese di posizione, ma in generale non sono d’accordo. Mi sembra un modo di ragionare molto restrittivo. Quando hanno girato Papillon hanno chiamato Dustin Hoffman e Steve McQueen. 

Da protagonista della stagione dei poliziotteschi, cosa ne pensi di chi critica le serie come Gomorra o Suburra sostenendo che influenzano negativamente i giovani?
Non vedo la televisione o le piattaforme, però sono convinto che qualunque tipo di abuso faccia male alla gioventù. Come quando si fumava nei film e a un certo punto lo hanno vietato. In qualunque periodo l’informazione sul negativo è nociva. I giovani, poveretti, oggi non sanno cosa studiare, se troveranno lavoro e quanto durerà il pianeta perché non lo abbiamo tutelato, quindi sono ancora più influenzati da questi modelli negativi.

Hai dichiarato: “Non sono mai stato né di destra né di sinistra”.
Intanto non sono neanche cattolico, non mi piace il Vaticano. Non c’è nessuna religione che apprezzi, a parte la filosofia. Però ero stato troppo generico, sono più di sinistra senza prendere posizioni politiche, altrimenti diventerei come i politici. E i politici non mi piacciono. Mi piacevano de Gaulle e Churchill, non apprezzo il neoeletto Milei in Argentina.

Francesco Barilli, Luc Merenda e Luca Magri. Foto: Francesca Riva/Agenzia SGP Italia

E Giorgia Meloni che governa il tuo Paese?
Ho sentito dire che la chiamano “anguria”, perché arrossisce quando dice le bugie. Me l’ha detta un amico e mi è sembrata una bella battuta. Destra e sinistra hanno entrambe qualcosa da rimpiangere e nessuno fa andare avanti le cose. Al massimo farei il sindaco, perché c’è tanto da fare. Ho una mia personale politica: rispetto gli altri come rispetto me stesso.

Oggi si discute della violenza sulle donne, mentre tu hai raccontato che, per difendere una donna, affrontasti persino il pugile Carlos Monzón che picchiava la fidanzata.
Ho avuto una mamma e un papà eccezionali che mi hanno insegnato il rispetto. Purtroppo la violenza sulle donne esiste da che mondo è mondo, nel Medioevo le bruciavano come streghe. Evidentemente l’uomo non è così sicuro di essere superiore alla donna e quindi l’ha sempre trattata male. Finalmente se ne parla di più, non solo di questo, ed è un bene. È inammissibile che le donne subiscano violenza e che guadagnino molto meno degli uomini.

Su certi uomini, anche colleghi, non le hai mai mandate a dire: “Odio Alain Delon, ha fatto male a tanti”. Come mai?
In quel caso il titolista aveva esagerato. È stato pubblicato un anno fa quando è emersa la notizia su Delon che non aveva riconosciuto un figlio che era morto. Si è servito di una battuta in un’intervista molto bella, e non è giusto, solo per fare un titolo. Che poi Delon non sia per me la persona migliore da avere come amico è un altro discorso. Ma il titolista ha travisato una frase. Però tra gli attori che ho conosciuto è vero che mi è molto più simpatico Jean-Paul Belmondo.

Forse Delon si atteggiava troppo da divo, mentre tu sostieni che “chi pensa di valere più di un altro perché fa qualche faccia davanti a una cinepresa è un perfetto cretino”.
Un divo non mi sono mai sentito, perché la notorietà rende tutti più fragili. C’è chi resiste bene e chi meno bene. Come nel calcio, si sentono dei divi perché ci portano 90 minuti di allegria. Però ho conosciuto tanta gente famosa che si comportava bene, come Belmondo, Ugo Tognazzi, Enrico Maria Salerno o Paolo Villaggio. Puoi essere una star senza avere l’obbligo di diventare stronzo.

Ma ce l’hai un sogno nel cassetto, magari ancora nel cinema?
Per adesso faccio qualche partecipazione, sono qui e aspetto una bella parte. Se non viene fa niente, e se arriva meglio. Non ho più seguito il cinema e non ci sono più andato da quando sono diventato antiquario. Ho dovuto cicatrizzare una ferita. Però sono pronto a lavorare in particolare con gli esordienti, se posso aiutarli. I sogni sono così effimeri che non ne ho più.