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Lodo Guenzi, fottuto per sempre

Il nuovo film di Pupi Avati e l’ultimo disco con Lo Stato Sociale. L’amore e la politica. Sanremo e la canna mancata con Tricky dei Massive Attack. E il diventare adulti: «No, da giovani non avevamo sempre ragione». Una lunga chiacchierata
Lodo Guenzi

Foto: Danilo D'Auria

«Non so come sia successo, ma non sto più bene tra la gente a cui appartengo», così gli ho detto un anno fa. E lui mi ha risposto: «È un sentimento molto diffuso. Io ci sto scrivendo un disco». Il caso ha voluto che quest’intervista arrivasse in occasione dell’uscita del nuovo film di Pupi Avati che lo vede tra i protagonisti: La quattordicesima domenica del tempo ordinario (parabola del dolore e dell’autodistruzione legata all’insuccesso di un musicista) e che la storia coincida con il lancio del nuovo album dello Stato Sociale, Stupido sexy futuro (parabola del tempo che passa, del doverci fare i conti e del disincanto legato proprio al successo, quando invece arriva). Tra i due estremi, tra Pupi e Lodo, tra il rimpianto e il rimorso, qui si affaccia una domanda amara: «C’è da qualche parte, dentro di me, un essere umano che ancora crede che una canzone possa cambiargli la vita?».

Roma, Hotel Le Méridien Visconti. Guenzi ordina due succhi di mela, poi inizia a parlare e si capisce presto che è diventato adulto. O quasi. “Bruciare sempre, spegnersi mai” oggi ha il peso di un interrogativo, mentre nel nuovo disco, a pesare, sono due brani in particolare: ora è il tempo di Tutti i miei amici, quelli che “bevono per dimenticare di quanto non sapremo farci ricordare”, e di Fottuti per sempre, che forse, dopotutto, “era meglio se morivano giovani e stronzi”.

Così è inevitabile ritrovarsi in un dialogo lungo, crudo, autentico come poche volte ci è concesso (e che non merita d’essere troppo trinciato). È una conversazione lontana dai ritmi di mercato, direbbe Lodo, che intanto parla di sinistra liberale e marxismo, di Sanremo, di quella volta con Tricky dei Massive Attack, del perdono, dell’amore che non è più politico (o che forse, ormai, non è altro che politico), dei versi che ha dedicato «a Tommy e Pupi», di Avati che possiede il dono dei poeti, ovvero «scrive di cazzi suoi, ma tu pensi che siano cazzi tuoi». Ha capito che non esistono complotti – dice – e che il segreto è guardare in faccia la verità: «Penso a Dario Brunori, che adora fare gli assoli metal con la chitarra: oggi è il più bravo in Italia a fare il cantautorato classico. Quando ha fatto pace con questa realtà, è stato molto semplice: tutti aspettavano che arrivasse Brunori». Quando ci salutiamo mi viene da ringraziarlo e quasi vorrei dargli dell’intellettuale, se solo non si fosse divertito a raccontarmi che la maggior parte delle cose che fa prova a copiarle. Ecco, Lodo, ora ti riconosco: non è vero che sei pronto a prenderti sul serio e diventare adulto per sempre. Meno male.

Nick Russo e Lodo Guenzi in ‘La quattordicesima domenica del tempo ordinario’ di Pupi Avati. Foto: Vision Distribution

Partiamo dai pregiudizi? Il tuo nome accanto a quello di Pupi Avati.
La condizione di underdog è la mia preferita. Sai chi mi ha detto: “Tu sarai sempre un underdog”? Alioscia dei Casino Royale. Ma lo preferisco alla responsabilità che sento quando si aspettano che io debba per forza essere bravo. È chiaro che mi porto dietro un aspetto da parvenu, ed è chiaro che devo dimostrare più degli altri. A qualcuno comunque girerà il cazzo, e ci sta. Il fatto che io possa fare un film con un grande maestro perché sono un pessimo attore ma sono famoso è un pregiudizio che trovo umano. Poi penso sempre che, dopotutto, se sono nella condizione di farlo troverò il modo di spaccare il culo. La scena è l’unica cosa che non mi fa paura nella vita.

Di Marzio Barreca, il tuo personaggio nel film, hai scritto: “Fai successo, fatti male, perdi chi ami, distruggiti, vergognati, continuati a vestire come la rockstar che non sei e non sarai mai”. Siamo oltre il ruolo?
Credo sia successo qualcosa nell’aprile 2020, cioè quando è morto per Covid Mirko Bertuccioli dei Camillas. Non lo so, Mirko è morto e c’è stato un momento in cui non sapevamo più che cazzo fare. Non sapevamo neanche se andare avanti. Certo, sicuramente c’era un discorso interno. Il salto di popolarità ci ha messo nella condizione in cui avevamo paura che non ci fosse più tutto quello che c’era prima, e poi l’idea di doverci rapportare con quella bestia feroce che è il pubblico generalista… Sai quante volte mi ha fermato qualcuno per la strada e mi ha chiesto: “Quand’è che fai la prossima canzone? Ma la band c’è ancora?”.

Vi hanno anche detto che li avete delusi.
Sì, ma quelli almeno conoscono tutta la storia. È ovvio che io adesso stia mandando al cinema tutti i miei amici che hanno lavorato nella musica, perché comunque, piaccia o meno il film, lì dentro c’è qualcosa sulla vita di chi prova a fare musica che è terribile.

Terribile perché?
Perché quando leggi quella storia lì ti ritrovi a pensare: c’è da qualche parte, dentro di me, un essere umano che ancora crede che una canzone possa cambiargli la vita?

C’è ancora?
Penso di no.

Qual è l’ultima canzone che ti ha cambiato la vita?
Fottuti per sempre. Perché mi ha dato l’impressione di avere il permesso di poter invecchiare, come essere umano e come persona che fa canzoni. Me lo chiedo ancora, se questa storia della musica possa non essere solo il divertimento di una fase ormonale della vita, una fase particolarmente piena di sogni. Se possa essere anche qualcosa che ti accompagna in un’età in cui vivere di sogni non fa più per te. Se ci pensi, fare una canzone è una cosa molto infantile, no?

Non so, cosa ci trovi di infantile?
Be’, se vedi Jannacci è tutto perfetto, certo. Ma di base l’idea che una persona adulta si metta lì a cantare, a far casino… è straniante. E forse, a un certo punto, io mi sono un po’ imbarazzato. Comunque ci sono tre canzoni che in questo strano periodo mi hanno fatto sentire meno solo: La domenica di Giovanni Truppi, per il preciso verso “il mio talento, il mio tormento”. Guarda che il fatto che ti riescano tante cose, e il senso di colpa che hai verso quelli che si sbattono più di te… ecco, quella cosa non va. Ti sembra di camminare attraverso le esistenze degli altri come l’angelo della morte.

Lodo Guenzi. Foto: Danilo D’Auria

Le altre due canzoni quali sono?
Vivere fuggendo de Il Pan del Diavolo. E poi una che, quando l’ho ascoltata, ho pianto come un disperato, ricevendo anche una serie di telefonate per chiedermi se quel pezzo parlasse di me: Chitarra nera di Vasco Brondi. A lui ho raccontato di aver pianto, ma non gli ho mai chiesto di tutta una serie di dettagli. Come quando dice “vincevi Sanremo” oppure quando parla di una casa circondariale, e mia madre fa il giudice. L’ho sognato stanotte, Vasco, era di passaggio in Piazza della Mercanzia. Tra queste canzoni, però, solo Fottuti per sempre mi ha dato l’idea che si potesse andare avanti, diventare “venerabili maestri” adesso che si è completamente nella fase “soliti stronzi”. Una volta qualcuno mi ha detto una cosa bellissima: se fai sempre la stessa cosa nella vita, ci sono almeno due o tre epoche in cui sarai di moda.

Pupi Avati è uno che fa il regista perché ha rinunciato a fare musica, e la sua malinconia sta tutta lì. Tu il musicista lo fai nella vita, e la tua malinconia sta tutta qui. Che incontro è stato?
Con tutto l’affetto profondo che lui nutre nei miei confronti, io credo che la voglia di ascoltare anche solo per caso una canzone che ho fatto in lui sia totalmente inesistente. Pupi è nel disco, e probabilmente non lo scoprirà mai: “Per Pupi che ancora di nascosto suona, è il più bravo di tutti ad ascoltare il dolore”. Tutti i miei amici l’ho scritta mentre stavo girando il film, ma non farò mai il gesto egoriferito di chiedergli di ascoltarla.

Per pudore?
Ma anche perché lui ha questa cosa meravigliosa: non è per niente pruriginoso. Vuole che tu metta la tua vita in quella storia, ma non ha neanche un’umana curiosità rispetto alla tua vita.

E il tuo ego di artista non ne risente?
No, Pupi ha troppa ironia perché questa cosa ti offenda, ti senti stupido solo a pensarci. Il fatto è che tu hai letto una storia, ti è piaciuta, ti ha ricordato quella di Mirko dei Camillas, ma a un certo punto capita che Pupi ti prenda in disparte e ti dica: “Questa scena riguarda una cosa che è successa a me. Avevo vent’anni”. Te la racconta e poi: “Adesso fammi la scena”. Ovviamente devi metterti a nudo anche tu, a quel punto, perché quella cosa ormai ti riguarda.

Credi di essergli piaciuto, come attore?
Credo che ci vogliamo molto bene.

Che però non vuol dire che tu gli sia piaciuto come attore.
Credo di essergli piaciuto come attore, sì. Perché penso che si sia guadagnato, con il tempo e con il carattere, il lusso di essere smodatamente sincero. E poi c’è stata una telefonata importante in cui mi ha detto: “Questo è un momento in cui devi scegliere bene, devi appartenere al tuo campionato. E se fai delle scelte sbagliate, io mi incazzo molto con te”.

Camilla Ciraolo e Lodo Guenzi in ‘La quattordicesima domenica del tempo ordinario’ di Pupi Avati. Foto: Vision Distribution

Appena ci siamo visti mi hai detto: “La canzone d’amore come gesto politico non esiste più”.
Sì, perché ieri facevo la promo del disco e un famoso giornalista di musica ha detto una cosa bellissima: “La prossima volta che qualcuno mi dice che ha fatto un disco d’amore, e che un disco d’amore è un gesto politico, io prendo e gli sparo”. Bebo giustamente gli ha risposto che fare un disco politico, però, è un gesto d’amore.

Be’, voi raccontate la nostra inettitudine sentimentale come diretta conseguenza di una catastrofe sociale. Questo non ti sembra politico?
Io ci provo, ma quello davvero bravo è Albi. Lui sa scrivere Io, te e Carlo Marx. Io provo a copiare da lui, ed essendo che non so fare nessuna cosa veramente bene, quando copio non se ne accorge nessuno. Ho provato a copiare tutta una serie di canzoni.

Sentiamo.
Mi sono rotto il cazzo? Volevo copiare Bandiera bianca di Battiato. Abbiamo vinto la guerra? Voleva essere Smokers Outside the Hospital Doors degli Editors, e invece non ci somiglia manco per sbaglio. Piuttosto Carota, che è uno che sa suonare davvero, quando vuol fare un pezzo ci riesce: in questo disco c’è un brano che si chiama Senza di noi ed è The Universal dei Blur. Tutti i miei amici è un bel pezzo: dentro ci sono gli LCD Soundsystem. Quando dice “tutti i miei amici sono qui questa notte” è proprio una citazione del finale di All My Friends.

Ma questa placida accettazione da dove arriva?
Da un dibattito interno infinito. Sai, quando registri i dischi a un certo punto devi entrare in questi studioli, e per sopportarlo ti ubriachi. Di notte stai lì, registri delle cose e te lo giuro – capita molte volte nella vita di uno che fa questo mestiere – c’è un momento esatto nel quale tu pensi: cazzo, abbiamo fatto il capolavoro, abbiamo fatto il Requiem di Mozart. Vai a letto alle sei del mattino dicendo: da domani la mia vita sarà completamente diversa. Poi alle due del pomeriggio del giorno dopo torni lì, e c’è una tensione speciale. Si comincia a chiacchierare, a cazzeggiare, “ci siam divertiti eh, la tipa qui, la tipa lì”, ma nessuno preme play. Perché tutti sanno cosa sta per succedere. E tutte le volte, cazzo, succede: realizzi che non hai fatto il Requiem di Mozart.

Invece una volta in cui, il giorno dopo, hai trovato proprio il pezzo che ricordavi di aver fatto?
Io sono stato molto contento de La musica non è una cosa seria. Volevo fare questa canzone per far cantare Checco, che veniva ai soundcheck con ’sto ukulele che gli avevamo preso per fare Summer on a Solitary Beach. E lui era lì, al soundcheck, al tramonto, che suonava in mezzo all’estate e mi faceva venire voglia di stendermi in un campo e commuovermi alle feste popolari e fumare pure le canne che non ho mai fumato.

Lodo Guenzi. Foto: Danilo D’Auria

Davvero non fumi canne?
Non mi è mai venuta voglia. Credo non mi facciano effetto.

Però avrai provato.
La prima volta che ho fumato avevo ventisette anni, era la fine di un tour infinito, le ultime ore prima di tornare a casa. Doveva succedere qualcosa, in quel furgone, e sapevo che se fumavo io era la festa. Però non è stato granché. Pensa che sono riuscito a non fumare la ganja di Tricky dei Massive Attack, che era il massimo del consumo creep. Cioè, voglio dire, morto Bob Marley…

Ok, raccontami la storia della ganja di Tricky.
Lui apriva un concerto in provincia di Siena, un festivalone dove, non si sa perché, ci chiamarono a suonare (si riferisce al Live Rock Festival nei Giardini ex Feriale di Acquaviva, che li presentava come “giovane band italiana emergente”, nda). Era il 2011 e io avevo quindici chili in più. Il nostro fu un concerto inascoltabile e dopo di noi suonavano gli Aucan, che ci schifavano. Sai, era tutto il periodo “della musica vera, la musica seria”. Tricky fece un set assurdo, suonò cinque volte Ace of Spades dei Motörhead con invasione di palco. Poi, finito tutto, succede che lui si prende bene con noi e ci invita nella sua tenda a fumare, però a un certo punto Tricky non si trova più. Così andiamo nel parcheggio a cercarlo e lo troviamo nel nostro Peugeot del ’90: “Portatemi via con voi”, ci dice. E noi: “Cosa facciamo adesso, rapiamo Tricky?”. Alla fine si convince a scendere, però noi rimaniamo con ’sta cazzo di ganja di Tricky da portarci dietro. Arrivati in stanza, gli altri fanno di tutto per farmela fumare come un rito massonico, ma io niente, non me la sento.

Sai, venendo qui non sapevo se ringraziarti o chiederti un risarcimento per danni emotivi, dopo tutte le cazzate che ho fatto a causa delle canzoni dello Stato Sociale.
(Ride) Dimmene una.

Piombare alle tre di notte sotto casa di un ex e lasciare un biglietto assurdo sul motorino sbagliato: 2017, colpa di Niente di speciale. La senti mai la responsabilità di infilarti nella vita della gente e creare danni?
(Ride) Allora: secondo me ognuno fa le cose che sente il bisogno di fare, e trova le scuse che sente il bisogno di trovare. Nel nostro piccolo, noi ci siamo abbastanza impegnati per cercare di non farci prendere troppo sul serio, almeno nello scenario di quelli che hanno scritto delle cose del genere.

In effetti c’erano i TheGiornalisti a metterci il carico.
Ecco, però lì Tommy si prende più sul serio.

Hai ragione, pensa a Fatto di te. Se mi canti “Oh, ciao Matilde” è chiaro che io alzo il telefono: “Oh, ciao Francesco”.
(Ride) Però una volta Tommy ha detto una cosa molto avatiana: “Non c’è nessun nome o fatto citato nelle mie canzoni che non sia reale”. Eravamo parecchio legati in quella fase, infatti in Tutti i miei amici Tommy è proprio lui (“Per Tommy che chiamavo la notte se piangevo, non ci parliamo più da quando è famoso”, nda).

Insomma ti stai deresponsabilizzando?
Tantissimo. Ma fammi capire: a questo punto, quanto credi che manchi perché io diventi Wanna Marchi? Preferivi in qualche maniera che ti vendessi per milioni di lire dei sacchetti di sale magico?

Quasi. Senti, tu e Avati avete frequentato lo stesso liceo in epoche diverse, il Galvani di Bologna.
Lui ha un rapporto strano con Bologna. Mentre io ne sono totalmente innamorato, lui credo ne sia rimasto un po’ scottato. Però non parla d’altro. È molto contento di non abitare lì, ma se deve scrivere racconta Bologna.

Sarà che gli anni bolognesi erano quelli in cui suonava come clarinettista nella Doctor Dixie Jazz Band. Poi è arrivato Dalla, e lui ha capito che la passione non è sempre all’altezza del talento.
Sì. Lì ha avuto il trauma della scoperta del talento, che poi è Ma quando arrivano le ragazze? Io ho visto pochissimo cinema nella mia vita, sto iniziando a capire delle cose adesso. Quando andavo al liceo, Pupi per noi era il regista di Bologna. Lui ha la cosa che hanno i poeti: scrive di cazzi suoi, ma tu pensi che siano cazzi tuoi. Può piacere o non piacerti, ma la poesia è esattamente questa cosa qui.

Perché è stato così importante questo film per te?
Perché ho scoperto che fare questa cosa può essere magico. Non solo divertente, come era stato finora. E poi lui non si ferma mai, cambia sempre qualcosa, e io adoro non essere preparato.

Se non sei preparato performi meglio anche nella musica?
Non lo so, però è più divertente. Io odio fare le prove, sono quello che prova meno di tutti. E mi piace da morire mettermi sempre in una condizione in cui c’è un’ampia parte di imprevisto, anche a teatro.

Gli altri non si arrabbiano?
Carota si arrabbia. Sai, la prima cosa che ho capito del cinema è che fai l’attore per svegliarti tardi, e invece ti svegli sempre presto. Però questi due mesi sono stati esaltanti, anche se stavo malissimo. È ovvio che devi fare i conti con qualcosa, quando ci sono quel tipo di storie e di parabole così vicine a te. Compreso l’equivoco tra successo e non successo.

Successo e non successo: ne parli come se volessi inserirti nella seconda categoria.
Partendo dal presupposto che il successo è passeggero e aleatorio: dal momento del mio massimo successo in poi, ho inanellato una serie di fallimenti nei quali sono ancora dentro. Nel senso che forse non abbiamo più fatto un disco o un pezzo clamoroso. E poi sai com’è: vinci il Grande Slam e non cambia niente, è quella cosa per cui tutti ci rimangono sotto. Quando arrivi a un certo punto, hai la sensazione precisa che non sarai mai appagato. Che la distanza tra i tuoi sogni e quello che riesci a raggiungere è incolmabile. E invece quello che mi fa invidiare questo sfigato assoluto di Marzio è che lui ancora pensa che possa esserci un punto oltre il quale andare.

Quindi era più bello come ipotesi?
Lo cantavo anni fa riferito agli altri, pensando che io mi sarei salvato riuscendo ad avere sogni più grandi di me. E invece un cazzo.

Qual è stato il crac? E tu hai un ruolo?
Certo, io ho ovviamente un ruolo. La mia responsabilità fondamentale è il fatto di avere poca personalità.

Dai.
No, non è una cosa paracula, non mi andrebbe di dirti una cosa paracula. Nelle relazioni dove in mezzo c’è dell’affetto e della gratitudine, dove c’è un matrimonio come in una band, io non so mai dire di no. Trovo una maniera anche poco convinta per esserci. Anche laddove è chiaro che c’è bisogno di me o al cento per cento, oppure questa cosa non può che farci male. E qui il sottinteso su Sanremo 2021 può essere anche sovrainteso. Credo che in qualche maniera le persone mi chiedano di avere la personalità che ho in scena.

Ovvero ti chiedono di essere un frontman?
Credo di sì, per quanto non sia questo a farmi sentire appagato. Piuttosto preferisco riuscire a creare un contesto in cui l’altro vada avanti, ecco perché prima ti ho citato La musica non è una cosa seria.

Lo Stato Sociale. Foto: Stefano Bazzani

Cos’è, una forma di buonismo?
No, anzi. Quando uno trova il suo piacere nell’atto demiurgico, vuole essere Dio. Invece quando a uno gli piace stare davanti agli altri, vuole solo essere Gesù, che è un po’ di meno. Però io non ho assolutamente il carattere per essere Dio, e quando mi chiedono di essere un Gesù con le palle, mi tiro indietro. Questo sicuramente è stato il centro dei problemi, che poi ne ha generati altri. Sono fuggito, ho fatto sessantamila cose, e gli altri hanno iniziato a costruirsi le loro vite. E poi c’è la questione di tutte le band: che quando esci dal furgone, vecchia… Finché sei in quel microcosmo lì, brutto, puzzolente, sbagliato, pieno di cazzate… Finché sei nel branco, finché sei in quel furgone, quella storia ha una vita. Quando invece inizi a stare nella vita, il branco rischia di scomparire.

Vi siete perdonati?
Secondo me, no. Io sicuramente ho ancora dei rancori.

Però avete appena fatto un gran bel disco, no?
Sì, secondo me questo disco ha dei pezzi molto sinceri. Però per raggiungere questa sincerità abbiamo messo da parte un certo tipo di ambizione nazionalpopolare, pur di riconoscerci di nuovo.

Invece hai notato che tu e Pupi Avati, in alcuni momenti, parlate d’amore in modo molto simile?
Però sono io che copio lui. A me piace l’idea di scrivere delle cose concrete, di trovare delle immagini evocative. Sono nemico della vaghezza. Quindi è chiaro che dentro il particolare vedo l’universale, e dentro l’universale non vedo niente. “È stata la serata più estrema della mia vita” per me non vuol dire niente, mentre “mi sveglio col fegato spappolato” vuol dire tutto.

Come quando nel film Sandra e Marzio si ritrovano nella casa in cui un tempo abitavano insieme: “Ti ricordi i miei spaghetti?”, “Le pareti non sono più blu”.
Esatto. Secondo me sia io che Pupi pensiamo questa cosa qua. Poi la sua visione dell’amore, così incredibilmente assoluta, così derivante da un’epoca diversa, così in possibile contemplazione di infiniti difetti… per me è bella perché è molto fuori dal principio di mercato. Ha a che fare con un’epoca in cui il mercato non si era ancora preso tutto. Adesso è molto facile che tu domani esca e veda uno che ti piace, e che io esca e trovi una che mi piace: poi probabilmente passeremo una fase di sotterfugi, poi di morbosità strana in cui proveremo a combinare queste pulsioni fisiologiche, fino a quando non capiremo più chi cazzo siamo noi. Ma è perché noi siamo sempre sul mercato, costantemente in vetrina.

Camilla Ciraolo e Lodo Guenzi in ‘La quattordicesima domenica del tempo ordinario’ di Pupi Avati. Foto: Vision Distribution

Il tuo evidente conflitto con l’amore deriva da questo?
L’amore è un sentimento che esiste inevitabilmente all’interno di un sistema di rapporti di forza. E i rapporti di forza che regolano la società sono economici. E i rapporti di forza economici diventano anche emotivi e culturali. Uno degli incredibili errori che fa la parte borghese della nostra generazione – e io e te, che in questo momento stiamo parlando di film, ne siamo la prova – è sopravvalutarsi all’infinito credendo che noi cambieremo la realtà cambiandone la narrazione. Quando è esattamente il contrario.

A proposito, sei uno dei pochi borghesi per cui provo simpatia. E sottolineo che tu non diventi borghese, ma nasci privilegiato. Però quando ti accendi su alcune tematiche, io ti credo.
Sono agiato di famiglia, ma in realtà credo che questa sia proprio una responsabilità di chi non deve lottare. E l’equivoco che si crea è molto a favore del sistema, cioè l’idea che siccome tu non vieni da una classe subalterna, allora il tuo interesse è per forza ipocrita.

A luglio 2022 ci siamo sentiti dopo un tuo intervento su Instagram in cui, in sintesi, dicevi che il trionfo della destra reazionaria è figlio dei disastri di una sinistra liberale “che parla solo delle discriminazioni all’interno di un contesto di privilegio, ignorando la discriminazione più importante: quella tra ricchi e poveri”.
Viviamo in un’epoca orrenda e liberale, perché il dibattito è sempre questo: ma Elly Schlein è o non è una brava persona? Sì, Elly Schlein è una brava persona, ma quello è un partito liberale e non sociale, e non ha una posizione sulla guerra. Quindi io non so cosa sto votando, anche se a Bologna lei la conosco da una vita e le auguro ogni bene. Poi succede che magari c’è un altro che è uno stronzo, ma che ha una linea politica. In una società che funziona, chi ha avuto il lusso di studiare dovrebbe occuparsi di eliminare la disparità sociali, non di raccontare i fatti che ha studiato.

Lo Stato Sociale. Foto: Stefano Bazzani

Tu sei martellante sui diritti sociali. Perché tanto interesse?
Ma perché è quello il punto. Ti faccio un esempio pratico: il grande scandalo delle dichiarazioni di Elisabetta Franchi si è esaurito con il tema “certe cose non si devono dire”. Il fatto che certe cose non si dicano, o che ti chiamo con la desinenza che vuoi tu, a me va benissimo. Ma mi va bene se stiamo all’interno di un sistema produttivo in cui la persona diventa un’occasione per ridiscutere il sistema-lavoro. Se non esiste una sinistra sociale, ma esiste solo una sinistra che accetta il modello produttivo in cui viviamo, allora l’unica cosa che può fare per veicolare una giusta rabbia è lavorare su delle compensazioni formali. Significa che a me dà sinceramente fastidio che l’immigrato venga discriminato, ma non ho nessuna intenzione di eliminare la Bossi-Fini da questo Paese.

Quanta gente conosci che si dichiara di sinistra ma vota altro?
Be’, un po’.

Secondo te perché bisogna dichiarare di essere di sinistra?
Perché evidentemente ci sono delle ragioni di engagement. Anche i diritti civili, nel momento in cui restano staccati da quelli sociali, diventano un prodotto. E noi diventiamo un prodotto che si vende. Mi ci metto dentro: 1° maggio 2015, primo bacio omosessuale al Concertone. È stato l’inizio di un’ondata che, secondo me, non ha portato bene a questo Paese. È ovvio che io condivida il tema dei diritti civili, ma portarlo alla festa del lavoro? Adesso comincia a diventare tutto così: fare qualcosa in cui magari credi, ma sapendo che non romperai davvero i coglioni a nessuno.

Vai ancora a votare?
Sì, ma voto cose irrilevanti. Voto solo qualcuno che mette in discussione il modello economico in cui viviamo. In questo momento in Italia ci sono due schieramenti, e tutti e due ti dicono: farai una vita di merda. Se non c’hai i soldi, piano piano ti toglieremo la sanità pubblica, la scuola pubblica per i figli, i tetti crolleranno, lavorerai per sempre meno soldi, sarai disperato, se sbroccherai ti diremo di andare dallo psicologo, e se non hai soldi per andarci, be’, ti faremo anche sentire in colpa.

E poi morirai solo e senza pensione perché non sarai stato in grado di costruire rapporti umani?
Esatto, perché non avrai avuto il tempo di lavorare su te stesso. Questa è la ricetta che ti danno tutti e due, con la differenza che la destra ti dice: però almeno sei libero di fare schifo, io non ti giudico. E l’altra parte invece ti dice: dai, però non fare quelle cose brutte.

Quindi, come ti difendi?
Non ti difendi. È un’intossicazione, è quello di cui parlava Gaber: avere la coscienza di essere nella merda più totale. Una soluzione ci sarebbe, se proprio mi vuoi portare lì. Ma è una soluzione antica, perché tutto questo casino nasce per l’aumento della differenza tra valore d’uso e valore di scambio. E ora ci ritroviamo in un mondo paradossale in cui ci sono le risorse, ma non ci sono i soldi. Che se ci pensi non ha senso, ed è esattamente lo stesso problema del non assumere le donne incinte: non ha senso lavorare così tanto per far diventare un handicap il fatto che qualcuna si fermi per fare un figlio. Quindi siamo pronti per dire una cosa estrema? Eccola: in realtà bisognerebbe solo produrre di meno. Quello che in un mondo globalizzato è impossibile.

Anche tu hai letto Il Capitale a quindici anni?
(Ride) Marx diceva questo: il tempo della vita delle persone che diventa denaro è un grande problema, e il problema del denaro lo risolveremo poi. Ma noi siamo già nella fase in cui non risolveremo il problema del capitalismo, come sostiene Mark Fisher: è più facile immaginare la fine del mondo. Ti rendi conto? Noi immaginiamo l’asteroide, ma non riusciamo a immaginare di abbattere le produzioni. E infatti lui si è ammazzato.

Fottuti per sempre si chiude con Brondi che canta: “Eravamo giovani. Giovani o pazzi”. Ma avevamo ragione?
Assolutamente no. Non avevamo ragione. Eravamo scemi e manichei, come sono i ragazzi. E non accettavamo una certa complessità della realtà. Però quell’essere manichei aveva in sé una portata rivoluzionaria. Non c’era niente di male nell’andare a suonare a Sanremo, ma il fatto che noi pensavamo di essere da un’altra parte ci rendeva nelle condizioni di creare un’alternativa, di metterci in dialettica con la realtà. Poi è tutto vero: ogni tanto qualcuno deve fare il cavallo di Troia e rompere questa dialettica, cosicché si possa ricreare. E infatti noi siamo i prossimi che verranno ammazzati dalla dialettica futura, giustamente. Però questo è diventare grandi.

A distanza di tredici anni da Welfare Pop mi stai dicendo che, quindi, siamo solo diventati adulti?
Io immagino che tu abbia vissuto un momento di utopia in cui volevi scrivere per cambiare il mondo, e che poi tu abbia trovato una dimensione in cui il tuo lavoro è stato riconosciuto, che questa cosa ti abbia esaltato, ed è stato bellissimo. Poi hai trovato uno scenario in cui scrivi in un posto che ti piace, parlando di cose che ti interessano, con tutte le menate della vita attorno, e sentendo, però, che quella spinta propulsiva di cambiare il mondo è una roba che è passata. E questo è diventare grandi. Quindi no, non avevamo ragione, eravamo poco lucidi. Ma avevamo ragione a schierarci. Perché se ti va bene tutto, non cambierai mai un cazzo. In ogni caso, scusa per tutte le stronzate che hai fatto: farò finta di averle fatte io.

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