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L’horror secondo Paolo Strippoli

Con il suo nuovo film 'La valle dei sorrisi', il regista pugliese classe 1989 ridefinisce i confini del genere: un thriller psicologico che usa i codici dell'horror (e della fiaba) per parlare di dolore, empatia e identità. E raccontare chi siamo oggi

Foto: Vision Distribution

Il sorriso può essere un’arma a doppio taglio. Nella vita, e soprattutto al cinema. Paolo Strippoli lo dimostra con La valle dei sorrisi (in uscita il 17 settembre), il suo nuovo film che scava dietro la facciata rassicurante di un paese “felice” per svelarne i rituali oscuri e le paure più profonde.

Classe 1989, pugliese, Strippoli è una delle voci più interessanti del nostro cinema di genere, anzi, probabilmente ne è l’alfiere più giovane e determinato: dopo A Classic Horror Story (con Roberto De Feo) e Piove, torna con un racconto che incrocia fiaba nera, thriller psicologico e coming of age horror. Al centro c’è Matteo, quindici anni, su cui una comunità proietta il ruolo “sacro” di santo: un’etichetta che consola gli adulti e imprigiona un ragazzo. Remis, paese immaginario incastonato tra le montagne friulane, diventa un personaggio: una geografia morale fatta di abbracci che stringono e di dolori rimossi. Strippoli usa l’horror come lente per parlare dell’oggi: non è solo la storia di un ragazzino, ma di una comunità che lo ingabbia, e che si serve di lui per rimuovere i propri dolori. Un film che racconta la manipolazione, la strumentalità dei rapporti, ma anche il bisogno di abbracciarsi, di ritrovare nell’empatia e perfino nel dolore la nostra umanità.

Partiamo dal titolo: La valle dei sorrisi sembra quasi rassicurante, e invece porta in zone parecchio inquiete. Da dove sei partito per immaginarlo?
Il titolo è diventato tale durante le riprese. All’inizio il film si chiamava L’angelo infelice, e ti dico anche perché: il film nasce dall’idea di raccontare un ragazzino in età adolescenziale a cui viene affibbiato il ruolo castrante e difficile di santo. È qualcosa di enorme per un quindicenne. E il film parla proprio di questo: di un ragazzo messo in gabbia da un’intera comunità perché viene creduto un santo, un angelo. Volevamo raccontare l’esplosione pericolosa, deflagrante, in questo ragazzino. La storia nasce dal suo personaggio, Matteo Corbin. Poi è diventata più corale: il paese immaginario che abbiamo costruito, Remis, è diventato un personaggio vero e proprio, ha assunto un protagonismo all’interno del film. Dunque La valle dei sorrisi – che è proprio come viene chiamato il posto nella storia – ci è sembrato il titolo più giusto, più aderente a ciò che il film è diventato durante la realizzazione.

Restando su quel peso “sacrale” imposto a un ragazzino: come definiresti il film? Perché gioca sul confine tra horror, thriller soprannaturale e romanzo di formazione. Un coming of age horror sulla scia di Lasciami entrare, Carrie – e ci ho visto anche un po’ di Smile. Per te le etichette di genere hanno senso?
Per me questo film ha la temperatura della fiaba, e quasi tutte le fiabe sono degli horror. Però sono horror con una componente morale molto forte, molto spiccata. Le fiabe raccontano in maniera assoluta fragilità, vizi, caratteristiche e virtù dell’essere umano. Questo è un racconto profondamente umano che utilizza l’horror per raccontare chi siamo, e quello che abbiamo provato a fare è raccontare chi siamo adesso: cosa siamo, come ci rapportiamo con gli altri e con noi stessi, e cosa vogliamo rimuovere a tutti i costi, rinunciando – molto spesso – a una parte di noi.

Giulio Feltri in ‘La valle dei sorrisi’. Foto: Vision Distribution

Se dovessi raccontare cos’è per te l’horror, dentro la tua poetica? È un modo per raccontare la realtà deformandola, esagerandola?

Certo, ma l’horror, a mio parere, deve raccontare la realtà. Usa il mezzo del fantastico proprio per raccontare gli esseri umani, per mettere in scena le caratteristiche che ci tormentano.

E anche le paure collettive?

Le paure, ma anche le nostre responsabilità: non solo ciò che subiamo, molto spesso pure ciò che facciamo subire agli altri. È interessante perché questo film, sotto lo strato horror, vuole raccontare i rapporti strumentali tra le persone. È fatto da una tessitura di relazioni, tutte finalizzate a eliminare ciò che di noi stessi non ci piace: la nostra sofferenza, i nostri lati più oscuri, che cerchiamo di rimuovere utilizzando gli altri.

Se dovessi scegliere un’etichetta di genere per descrivere La valle dei sorrisi?
Per me è un thriller psicologico che utilizza i codici dell’horror per raccontare personaggi molto attaccati alla realtà. Che poi è quello che fa la fiaba.

Parlando di codici: qual è la cosa più importante perché un horror funzioni? Tensione, immaginario, la capacità di arrivare all’umanità di chi guarda… qual è l’elemento irrinunciabile?
L’horror è un genere molto vario, e questo è quello che cerco di spiegare a chi ha ancora sospetti: c’è chi teme solo squartamenti, viscere e jumpscare. E va bene, ci sono horror che ne fanno l’elemento principale, e anche in questo film ci sono sicuramente momenti forti. Però l’horror dev’essere un mezzo, non il fine. Il cuore del racconto sono i due personaggi al centro della storia: Sergio [Michele Riondino] e Matteo [Giulio Feltri], un uomo che cerca un figlio e un ragazzino che cerca un padre. Sono stati loro la mia guida. Quindi, se ti devo dire cosa spero lasci il film alle persone, rispondo: un’emozione più calda di quanto ti aspetti dall’horror. Diciamo: una commozione.

Michele Riondino e Giulio Feltri in ‘La valle dei sorrisi’. Foto: Vision Distribution

Mi sembra anche un invito all’empatia, che oggi è il tema dei temi. Guardare il dolore degli altri, capirlo, entrarci…
Da una parte è un invito all’empatia, dall’altra un invito a non rinunciare al proprio dolore, a non vergognarsene e a non rimuoverlo. Come dice un personaggio nel film: “Il dolore è qualcosa di sgradevole, ma è quello che ci rende umani”. Se togliamo il nostro dolore, siamo un po’ meno umani. Ed è anche ciò che uno dei personaggi utilizza per prendere il controllo delle altre persone, senza fare spoiler: toglie loro il dolore, ma anche la loro identità.

A proposito di padri e figli, anche in forma “surrogata”: la scelta degli attori è decisiva in un film così. Come hai lavorato al casting? Come li hai scelti e portati in quei territori emotivi?
Ti direi prima di tutto che, quando ci siamo resi conto di dover dare a Remis compattezza di intenzioni, estetica e linguaggio, abbiamo cercato i personaggi come se fossero tutti lati, facce, di un unico grande personaggio. Dovevano avere una grande coerenza. È stato un lavoro lungo, più di un anno, e anche un privilegio: ci siamo divertiti a trovare gli abitanti del paese, con i loro ruoli – la preside, il collaboratore scolastico, il prete… – un po’ come giocare a SimCity, te lo ricordi?

Certo.
Ecco, è stato molto divertente. Poi siamo passati ai personaggi principali. Ho scelto Michele Riondino perché è un attore molto attaccato al reale, un interprete estremamente terreno. E l’horror, per me, nasce dal gotico. L’insegnamento del gotico, dai suoi albori, è questo: personaggi ordinari in situazioni eccezionali. Riondino, in questo senso, è stato un protagonista perfetto: è strappato al reale e al suo personaggio viene chiesto di credere e di gettarsi nell’irrazionale, nel vuoto del mistero, della magia. Poi ho scritto questo film pensando a Paolo Pierobon: era Mauro già in scrittura, e sono stato felicissimo – perché è un attore che amo tantissimo, bravissimo – che abbia deciso di farlo. Su Romana Maggiora Vergano c’è stata una piccola modifica in corso d’opera: inizialmente avevo pensato a un personaggio più grande d’età, perché porta con sé un dolore che non dovrebbe appartenere a una trentenne; durante le audizioni, provinando più volte Romana, abbiamo capito che quell’oscurità che ha dentro, che lei nasconde con i sorrisi, era davvero spiazzante e profondamente tragica nel corpo e nel volto pulito di una trentenne: quindi anche commovente. Giulio Feltri, infine, è arrivato dopo mesi e mesi di street casting: cercavo un ragazzino del Nord Italia e alla fine il mio Matteo Corbin l’ho trovato “dietro l’ufficio”. La casting director l’ha visto durante una rappresentazione teatrale, l’ha portato in ufficio e mi ha convinto a provinarlo, quando io ero deciso a trovare il protagonista nei luoghi dove avremmo girato. Giulio ha una caratteristica profondamente cinematografica: ha ancora gli occhi da bambino ma è un corpo in mutazione, un bambino “allungato”; ha un’intelligenza emotiva che mi ha fatto capire che poteva reggere questo ruolo non facile, complesso, che affronta anche tematiche legate alla sessualità che richiedono maturità e una corazza importante.

Paolo Pierobon in ‘La valle dei sorrisi’. Foto: Vision Distribution

Gli spazi e l’atmosfera che evocavi diventano protagonisti tanto quanto i personaggi. Come avete costruito la geografia della valle?

L’abbiamo costruita con tanti paesi diversi. Abbiamo fatto un lungo location scouting in Friuli-Venezia Giulia, che abbiamo individuato perché ha una montagna un po’ meno patinata di altre zone d’Italia. La nostra Remis è un collage di tanti piccoli paesi: da centri più grandi come Tarvisio e Sappada a più piccoli come Pontebba e Malborghetto. Ho paura di dimenticarne qualcuno, perché ci sono svariati spot individuati per costruire la geografia del paese. Gli esterni però sono quelli di Sappada, che ha una caratteristica meravigliosa: una montagna che fa da parete al centro urbano. Ci interessava che ci fosse sempre questa parete di roccia avvolgente, che abbracciasse il paese e richiamasse anche il simbolo dell’abbraccio, così centrale nel film.

Sul piano visivo mi pare ci sia un dialogo costante tra un certo cinema internazionale e la tradizione italiana. È così? E in che modo li hai intrecciati?

Hai pienamente ragione, ci sono quegli “zoom a volata”. Durante le riprese stavo scrivendo un mini saggio su Mario Bava: è stato anche un po’ involontariamente un ricordo visivo ed emotivo che ho portato nel film. È chiaramente un film con un’estetica molto contemporanea, però ci sono richiami al genere italiano, soprattutto nell’uso dello zoom e in alcune scelte cromatiche: come quando si entra nella “sala degli abbracci”, con il contrasto tra rossi e blu in uno spazio che poi è candido, fatto di neon bianchi accecanti. E c’è anche, oltre a certo cinema italiano anni ’70-’80, un pizzico di anni ’90 dalle parti più anglofone: L’esorcista III, che non c’entra nulla con questo film, ma me ne sono reso conto dopo aver girato. Non è stata una cosa intenzionale: è stato un riferimento per una scena in particolare, non a livello di racconto ma visivo – è uno spoiler – con questo zoom a volata dopo un silenzio, un fischio metallico che accompagna l’inquadratura. Mi hanno fatto notare, dopo la proiezione, che nell’Esorcista III c’è uno dei momenti horror che hanno fatto scuola, ed evidentemente l’avevo introiettato. Quindi ci tenevo a citarlo.

Michele Riondino e Romana Maggiora Vergano in ‘La valle dei sorrisi’. Foto: Vision Distribution

Se dovessi collocare La valle dei sorrisi nella tua filmografia, dove starebbe? E guardando avanti, al tuo prossimo film già annunciato, L’estranea, sarà in continuità o un’altra deviazione?
Prima di tutto ti direi che tutti i miei tre film hanno una cosa in comune, credo sia una mia ossessione inconscia: finiscono con degli abbracci. A Classic Horror Story, che ho girato con Roberto De Feo, si chiude con l’abbraccio al grembo, quindi l’abbraccio a una nuova vita. Piove finisce con un abbraccio. Questo – senza anticipare troppo, ma lo possiamo dire – finisce con un abbraccio. È un elemento di continuità, forse il meno evidente, perché i film hanno anche una continuità tematica: soprattutto tra Piove e A Classic Horror Story c’è il racconto di una famiglia disfunzionale, il superamento di un trauma e, soprattutto, ciò che il trauma provoca in noi, cambiandoci emotivamente e fisicamente. Qui c’è un accenno di racconto più fisico di Piove: ciò che accade si imprime nel volto e nel corpo dei protagonisti, e soprattutto ciò che è accaduto prima che il film inizi.

E L’estranea, per quello che puoi anticipare, dove sta in questo percorso?
È in profonda continuità, soprattutto con Piove e con La valle dei sorrisi. È un film con al centro un’altra famiglia: la conosciamo all’inizio come una famiglia che si avvicina alla perfezione, o che riesce a raggiungere la propria idea di perfezione; poi qualcosa accade e cambia tutto. È il racconto di una caduta travolgente e, per certi versi, anche “divertente” in senso ampio. Ha una sua durezza, ma è molto diverso da La valle dei sorrisi: prima di tutto non è un horror. Mi sono spostato dall’horror con L’estranea, però ho mantenuto codici visivi che penso siano riconoscibili, perché fanno parte di ciò che mi piace e del modo in cui sento di poter raccontare le storie. È stato interessante portare le mie ossessioni e i miei pensieri, ricorrenti anche nei film precedenti, in un progetto completamente diverso per genere e impostazione.

Paolo Strippoli sul set della ‘Valle dei sorrisi’. Foto: Vision Distribution

Com’è fare cinema di genere in Italia? Come ci si riesce, per di più a 36 anni? Quali sono gli ostacoli maggiori e quali invece le possibilità?
Se ne è fatto talmente poco negli ultimi vent’anni che il problema più grande è far capire queste storie. Non al pubblico, perché secondo me sono abbastanza immediate per lo spettatore, ma a chi i film te li fa fare, a chi costruisce finanziariamente i progetti. Ci vuole molta pazienza e una volontà ferrea, perché sono film più difficili e faticosi da realizzare rispetto ad altri progetti che si inseriscono in maniera più lineare nella nostra cinematografia. Può volerci molto tempo: La valle dei sorrisi ha impiegato sette anni per essere realizzato. L’estranea, che flirta con il genere ma non è di genere, ce ne ha messi quattro – forse meno perché è più vicino alla nostra cinematografia – ma è comunque un tempo lungo e difficile, che richiede pazienza e, soprattutto, amici. E ti spiego: “amici” possono essere non solo le persone che collaborano con te e dicono “va bene, non ci scoraggiamo, abbiamo un obiettivo, crediamo fortemente in questo film e, nonostante le difficoltà, faremo di tutto per riuscirci”; sono anche le persone che hanno aderito al progetto. Per me lo sono stati i miei produttori – da Stefano Sardo e Ines Vasiljevic a Domenico Procacci, Laura Paolucci e Laura Buffoni, con gli esecutivi Ivan Fiorini e Attilio Moro – perché hanno condiviso con me le difficoltà per riuscire a realizzarlo e mi hanno aiutato a non scoraggiarmi mai. Credevano nel progetto tanto quanto me, in alcuni momenti ancora di più. Quando io iniziavo a scoraggiarmi, prendevano in mano la situazione e mi dicevano: “Paolo, questo film va fatto e, soprattutto, bisogna farlo arrivare alla gente”.

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