‘Il rapimento di Arabella’: intervista a Carolina Cavalli | Rolling Stone Italia
Holly Ha

Le ragazze di Carolina Cavalli

Dopo ‘Amanda’, che ha girato il mondo, la regista e sceneggiatrice milanese richiama Benedetta Porcaroli (premiata a Venezia) per ‘Il rapimento di Arabella’. Un’altra storia sul diventare grandi, tra ironia e tenerezza

Foto: Gioele Vettraino per Rolling Stone Italia

Se incontrate Carolina Cavalli, di sicuro abbozzerà, minimizzerà, farà una di quelle sue risate come a nascondersi. Non vi dirà neanche sotto tortura che ha diretto un primo film – Amanda, del 2022 – che ha girato il mondo. O che ha ricevuto i complimenti di Sean Baker e di Chris Pine, con cui poi si è ritrovata a lavorare. Non vi dirà che ha vinto uno Spirit Award come co-sceneggiatrice di un altro piccolo film molto grande – Fremont, del 2023, firmato dal suo fedele montatore Babak Jalali – e che, grazie a tutto questo, ha indirettamente cresciuto una comunità di amanders in giro per i festival.

È il bello di questa ragazza magica dalla potenza timida ma incandescente, costruttrice di mondi sgangherati e tenerissimi, pieni di ironia storta e di umanità profonda, e con uno spirito autenticamente indipendente (per questo abbiamo voluto lei e il suo produttore Antonio Celsi tra i nuovi nomi dell’indie italiano, nel numero speciale di Rolling Stone Italia dedicato al cinema uscito quest’estate).

In questa famiglia-mondo che ha architettato, Cavalli ha trovato un’attrice – Benedetta Porcaroli – che più che una musa è diventata un tramite artistico. Sono insieme anche per l’opera seconda, Il rapimento di Arabella. Prodotto da Elsinore Film con The Apartment, presentato a Venezia 82 nella sezione Orizzonti (da cui Porcaroli è tornata con un premio assai meritato come miglior attrice), il film sarà nelle sale dal 4 dicembre con PiperFilm.

Racconta di una giovane donna, Holly, che incontra Arabella (portentosa la piccola Lucrezia Guglielmino), una bambina che sta appresso a un padre artista espatriato e inaffidabile (eccolo, Chris Pine). Holly si convince che Arabella sia lei da piccola. La rapisce sempre in quel modo sgangherato, la porta in giro tra incontri bizzarri (compresa una “nonna” di nome Granatina che ha la faccia di Eva Robin’s) per una Bassa padana che però non è nessun luogo: è il posto in cui si impara a diventare grandi, anche se è difficile, anche se può far male.

Carolina Cavalli con Benedetta Porcaroli sul set di ‘Il rapimento di Arabella’. Foto: Andrea Pirrello

Sgomberiamo subito il campo: è vero che questa benedetta opera seconda fa più paura, che crea un’aspettativa anche verso sé stessi diversa, o sono solo leggende cinematografare?
Non so se per tutti così, mi sembra di sentire di sì. Per me sicuramente lo è stato, forse non nel momento in cui mi sono messa a scrivere il film o quando ero sul set, perché lì sei sempre immersa in quello che fai. Ma quando ho finito il montaggio e la post-produzione mi sono resa conto che inevitabilmente mi ero portata dietro, anche solo nella mia testa, tutto quello che avevo vissuto nella mia prima esperienza, quello che avevo amato e anche ciò di cui non ero pienamente soddisfatta. Diciamo che Il rapimento di Arabella è una seconda volta in cui solo a un certo punto, cioè dopo che l’ho davvero finito, sono veramente riuscita a dimenticarmi della prima.

Parlavi di scrittura. Arabella restituisce quella stessa libertà, quello stesso modo di “non pensarci”, di lasciare che il mondo si componga da solo: o almeno così si avverte da spettatori. E quel modo ormai è diventato la tua chiave, la tua voce, il tuo sguardo sulle cose e sulle persone.
Io mi sento molto libera, in particolare quando comincio a scrivere. Mi sento a mio agio perché è esattamente quello che mi è sempre piaciuto anche da spettatrice: l’idea di poter vedere qualcosa su uno schermo, e provare delle emozioni, e sapere che queste emozioni vengono da qualcuno che non conosci, e che può anche essere molto diverso da te, può vivere in un’altra parte del mondo o essere già morto da cent’anni. La cosa magica del cinema è proprio poter comunicare in modo libero e autentico, e più vai in profondità, più sei onesta con te stessa, più secondo me riesci a farlo.

Non è facile, e tantomeno scontato, avere questa libertà, né la sicurezza di prendersela.
Devo dirti che a me fanno paura molte cose, ma tutto quello che riguarda l’immaginazione no. Nel momento in cui scrivo un film, non ho nessuna paura. Quando invece lo fai vedere subentra la speranza di averlo fatto bene, o al meglio possibile, ed è lì che intervengono altre paure.

Foto: Gioele Vettraino per Rolling Stone Italia

L’immaginazione ti fa creare mondi che, come dicevo prima, assomigliano solo a sé stessi. Quello di Arabella è diverso da quello di Amanda, ma c’è qualcosa che li accomuna. E allora ti chiedo: come si crea un mondo? Da dove cominci? Da un personaggio, da un sapore, da un colore, da un’ambientazione, da un tono?
Mi sono resa conto, almeno nelle esperienze che ho fatto finora, di essere sempre partita da un personaggio o da più personaggi. E inevitabilmente, appena inizi a vederli, li immagini all’interno di un mondo, e lì inizi a pensare a come crearlo. Io non lo faccio mai, diciamo così, geograficamente. Mi dà un grandissimo sollievo sospendere l’idea di luogo, ma anche quella di tempo; creare un mondo che esiste solo all’interno del film, ma che risulta sempre credibile e coerente con sé stesso. Poi un film è anche un lavoro collettivo, un mondo si compone pure grazie al rapporto con i tuoi collaboratori, i capi reparti… In questo caso, ci siamo detti di provare a creare la mappa di un mondo che sembrasse disegnato da un bambino. Un mondo molto vuoto, ma dove ci sono elementi che escono in maniera chiara: una casa assomiglia all’idea di casa che abbiamo da piccoli, un albero all’idea di albero, e così via. Allo stesso tempo, però, ti scontri con la realtà, quindi quando poi fai location scouting il mondo “vero” che trovi diventa quello del tuo film. Però trovare il mondo fisico per una storia è una delle parti che mi divertono di più.

Questa stilizzazione ti appartiene anche narrativamente. Così come nel mondo di Arabella le case sembrano quelle che disegnavamo da piccoli, anche le storie che scrivi sono sospese, restano fuori da ogni tempo, di certo dall’attualità. Sono a loro modo immerse nella contemporaneità – non voglio usare l’aggettivo “generazionali” perché lo detesto – ma quasi al riparo da ogni forma di modernità. Non c’è tecnologia, non ci sono social. E, conoscendoti, so che non è una posa snob o moralista: sei anche quella con cui ci si manda per ore meme cretini su Instagram.
Sì, è vero. Il fatto di creare un proprio tempo ti fa mettere in campo quelle che sono le tue preferenze. Il mondo contemporaneo è molto efficiente, ma se lo osservo non ci trovo quella qualità cinematografica che mi piace vedere sullo schermo. Per questo forse cerco di evitare, quando possibile, l’attualità. Arabella poi è una storia molto legata all’infanzia e, come ti dicevo prima, quello che percepiamo da bambini è molto diverso, il tempo è molto diverso. Quando cresci ti ritrovi improvvisamente dentro una sequenza di cose che devi fare, di compiti, di progetti da realizzare, mentre mi sembra che da piccoli il tempo sia più denso, più lento, e quindi ho cercato di trovare una specie di tempo personale per questa storia.

Benedetta Porcaroli e Lucrezia Guglielmino in ‘Il rapimento di Arabella’. Foto: Elsinore Film

Senza spoiler sul finale, il tempo è un elemento cruciale in questo film. Soprattutto la riflessione sul diventare grandi – o meglio, su cosa significa diventare grandi – a cui però tu sembri anche stavolta rispondere in modo altrettanto “stilizzato”: a un certo punto si è adulti, e basta.
Sì, perché è una di quelle cose per le quali non c’è niente da fare. Il tempo passa e sappiamo che è una condizione naturale, ma continua a sembrarci abbastanza assurda. In questo senso, il cinema mi ha sempre dato sollievo rispetto al tempo che scorre, perché ti fa immergere in storie che non appartengono direttamente al tuo, di tempo. Penso che Holly non riesce veramente ad accettare di essere diventata adulta, e questo rimanda un po’ a quello che viviamo oggi. Adesso c’è sempre la spinta a considerare la propria vita nella versione migliore possibile: come possiamo essere sempre “meglio”? Abbandonare questo continuo conflitto e questo continuo confronto non credo voglia dire abbandonare i propri sogni: a volte vuol semplicemente dire essere di più sé stessi.

Parlando sempre di tempo: in Arabella c’è sia la bambina che la giovane donna. Come si incontrano in Carolina queste due entità? Cosa immaginava la piccola Carolina di quello che sarebbe diventata da grande?
Quando scrivo dei personaggi non parto mai dalla mia storia, ma è inevitabile attingere alla propria intimità, a ciò di cui si può avere esperienza diretta. Da piccola non mi facevo queste domande, non ho mai avuto aspettative sul fatto di poter rendere tutto questo un lavoro. Ma da spettatrice e lettrice ho sempre dato per scontato che l’immaginazione sarebbe stata una grandissima parte della mia vita. Poi ho iniziato a scrivere, e a fare concorsi di scrittura, e finalmente ho vinto il Solinas (il Premio Solinas Experimenta Serie 2018 con il soggetto della serie web Mi hanno sputato nel milkshake, nda). Mi ricordo che quella sera è stato il momento in cui, forse un po’ ingenuamente, mi sono detta: forse riuscirò a farlo davvero.

Foto: Gioele Vettraino per Rolling Stone Italia

Parliamo di Benedetta Porcaroli. Da Amanda ad Arabella, è come se riusciste a dirvi anche artisticamente, professionalmente, delle cose che vanno al di là dell’amicizia, e che contribuiscono a creare questi mondi. C’è uno spazio che esiste tra voi e che poi viene restituito nelle storie che raccontate insieme, storie di giovani donne così rare da trovare, specie nel nostro cinema, con questo tono tra l’ironia, la profondità, la surrealtà…
Io questa connessione con Benedetta la sento molto, e credo si basi tantissimo sulla fiducia. Mi sembra di capire molto bene Benedetta quando recita. Io mi affido molto a lei, ma sento anche una grande fiducia da parte sua, e quando ti fidi riesci a essere molto più generosa. Non hai mai l’impressione che Benedetta sia fuori luogo o ridicola, anche se le faccio fare cose assurde, e questo ci dà una grandissima libertà. E poi, sul piano del lavoro concreto, dopo un po’ si creano delle dinamiche che nascono dall’intuizione. Ormai siamo arrivate al punto in cui riusciamo a intuire l’una il lavoro dell’altra in maniera molto facile, immediata.

Come tu sai guardare Benedetta, anche tu in questi anni sei stata osservata, e non solo in Italia. I complimenti di Sean Baker per Amanda, e Chris Pine che voleva fare un film in Italia e accetta subito il tuo copione, e lo Spirit Award… Quest’occhio che non è solo del piccolo sistema italiano ma che è un po’ più largo come ti fa sentire?
È chiaro che ci sono anche delle coincidenze. Per esempio, quello che dicevi tu: Chris in quel momento voleva girare un film in italiano e io per quel personaggio stavo cercando un attore per cui poteva essere giusto. Il fatto che poi abbia trovato un attore così avventuroso e senza pregiudizi, che ha accettato un piccolo ruolo in un film molto più piccolo rispetto a tutto quello che fatto, be’, rientra nel campo delle cose che possono succedere oppure no. Sicuramente il fatto che Amanda sia stato distribuito in America e in Inghilterra ha aiutato questo processo. È una cosa che si costruisce piano piano, e che certe volte è solo frutto del caso. Però ovviamente mi rende felice riuscire ad arrivare a più persone, a pubblici diversi anche al di là dei festival. È una soddisfazione, ma non crea una grande differenza nel momento in cui faccio il mio lavoro.

Chris Pine in una scena del film. Foto: Elsinore Film

Di amanders nel mondo ce ne sono parecchi, soprattutto alla Mostra di Venezia, dove si sono creati dei gruppetti affiatatissimi. Dici che ogni tanto vedi qualche ragazza e pensi che ti piacerebbe vedesse Amanda, non tanto per vanità da regista, ma perché senti che quella storia potrebbe parlarle.
C’è questa mia vicina di casa, ogni tanto la incontro per le scale e vorrei dirle di vedere Amanda. Poi ovviamente mi vergogno e non lo faccio mai.

Potrebbe pensare che sei una mitomane.
Esatto! Mi ci vedi? Che poi è una sensazione ambivalente: da una parte sei all’inizio della tua carriera, non pensi di aver fatto chissà che cosa, quindi hai un po’ di pudore; dall’altra, avendo fatto un film, hai quella voglia di mostrarlo, di farlo arrivare a chi secondo te potrebbe capirlo.

Tornando alla Carolina spettatrice: non per fare il solito discorso sullo sguardo maschile vs lo sguardo femminile, però sicuramente lo scenario sta cambiando rispetto a quando andavi al cinema tu da adolescente, e magari avresti voluto storie come Amanda o Arabella. Fare cinema è, in modo magari inconscio, un risarcimento verso quella ragazza che scappava in sala, entrava in altri mondi, e non sempre trovava ritratti che le corrispondevano?
Sento molto questa cosa, e credo che il punto di vista in una storia sia molto importante. Ho sempre adorato avere delle amiche, sono cresciuta grazie alle amicizie con le ragazze attorno a me, e forse il mio fare cinema è un po’ un modo per avere delle amiche anche sullo schermo. In effetti quand’ero più giovane questo sguardo al cinema mancava, e sono d’accordo che le cose stanno cambiando: lentamente, ma stanno cambiando.

Il rapimento di Arabella (2025) | Trailer ufficiale

Chi sono state le tue amiche cinematografiche? Personaggi, storie, autrici…
Mi ricordo quando ho scoperto il cinema di Andrea Arnold. O quando ho visto Il giardino delle vergini suicide e Lost in Translation. Ma anche Le meraviglie di Alice Rohrwacher o Frances Ha, che Greta Gerwig non ha diretto (il regista è Noah Baumbach, nda), ma l’ha scritto e interpretato. E c’è questa sceneggiatrice che si chiama Cuca Canals, che lavorava con Bigas Luna e che mi è sempre piaciuta tanto. Queste sono delle memorie ancora molto chiare.

E adesso dove ti porta l’immaginazione?
Questo in realtà è un momento in cui l’immaginazione è un po’ distratta, perché quando esce un film sei sempre presa dal portarlo in giro, dal farlo arrivare a più gente possibile… In questi momenti l’unica cosa che faccio la sera è guardare i miei amati Griffin, e per un po’ non penso a niente.

Leggi altro